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L’attacco iraniano alle petroliere giapponesi è una bufala (e fare la guerra con l’Iran sarebbe un disastro)

di Fulvio Scaglione - 15/06/2019

Fonte: linkiesta

Abbiamo visto molti falsi attacchi (dal Tonchino in poi) che sono serviti a giustificare aggressioni. Il presunto attacco dell’Iran alle petroliere giapponesi, proprio mentre i due paesi sono in trattative, ha tutta l’aria di un depistaggio. Gli Usa hanno bisogno di una scusa per far saltare tutto?

E vai con il Golfo del Tonchino e il famoso “incidente” (“raccontare a tutta la gente del tuo falso incidente”, copyright Edoardo Bennato) che il presidente Lyndon Johnson inventò quasi dal nulla per convincere il Congresso a dargli il permesso di far guerra al Vietnam. Ma i lampi che sfrigolano sullo Stretto di Hormuz, il pertugio tra Iran ed Emirati Arabi da cui passa un terzo del greggio commerciato nel mondo, evocano più recenti e assai più insidiosi ricordi.
Correva il 1987 e infuriava la guerra tra l’Iraq di Saddam Hussein, aiutato con i satelliti e con le armi dagli Usa, e l’Iran dell’ayatollah Khomeni, che sarebbe poi morto nel 1989. Per rispondere agli attacchi iracheni ai terminali petroliferi, gli iraniani cominciarono a seminare mine nello Stretto, usando i tradizionali dhow del piccolo cabotaggio mercantile. Alla fine della guerra saranno 168 le navi da loro danneggiate o distrutte. Prima, però, succedono tante altre cose. Nel momento in cui sulle mine finiscono le petroliere del Kuwait, le navi da guerra americane si mettono a pattugliare le acque, finché intercettano e catturano un naviglio iraniano carico di mine.
Crediamo a tutto, anche che in Iran ci sia qualcuno così tonto da attaccare una petroliera giapponese mentre il premier del Giappone è in visita ufficiale di Stato a Teheran
L’anno dopo, la fregata americana “Roberts” incoccia una di quelle mine e viene quasi affondata. Ne nasce una specie di battaglia navale che dura un giorno, in cui le navi Usa schiantano due piattaforme petrolifere e affondano sei navi iraniane. E non è finita. Il 3 luglio del 1988 l’incrociatore Usa “Vincennes” abbatte un volo civile iraniano, uccidendo 290 persone.
La prima considerazione, dunque, è che una guerra delle petroliere c’è già stata. E se consideriamo che l’Iran è ancora lì con tutti i suoi ayatollah, dopo essere stato anche attaccato dal nostro amico (allora lo era) Saddam, aver patito un milione di morti e un embargo durato decenni, non sembra essere stata una grande idea.
La seconda è che noi crediamo proprio a tutto. All’incidente del Tonchino (1964) come alle armi chimiche di Saddam (2003), alle fosse comuni di Gheddafi (2011) come agli attacchi chimici di Assad su Douma (2018). Quindi possiamo anche credere che quelli del “Vincennes” proprio non avessero capito che quel goffo Boeing pieno di donne e bambini non era un cacciabombardiere. E via via credere pure che in Iran ci sia qualcuno così tonto da attaccare una petroliera giapponese mentre il premier del Giappone è in visita ufficiale di Stato a Teheran. E, perché no, che i potenti mezzi Usa riescano a filmare un naviglio iraniano che cerca di riprendersi una mina inesplosa dalla fiancata della suddetta petroliera (non sembra un film di Totò?) ma non riescano a filmare gli iraniani quando le mine le mettono.

In Iran c’è una popolazione compatta, anche da un punto di vista etnico e religioso, e piena di orgoglio nazionale, che vive la crisi con gli Usa come un puro e semplice sopruso. E d’altra parte, questo è.
L’unica cosa che non possiamo permetterci di credere è che l’idea di uno scontro militare con l’Iran, accarezzata dai falchi americani tipo Bolton (consigliere per la Sicurezza nazionale) e Pompeo (segretario di Stato), possa concludersi alla maniera dell’Iraq del 2003. In Iraq c’era un Paese diviso, dove più di due terzi della popolazione (sciiti e curdi) detestavano il dittatore Saddam. In Iran c’è una popolazione compatta, anche da un punto di vista etnico e religioso, e piena di orgoglio nazionale, che vive la crisi con gli Usa come un puro e semplice sopruso. E d’altra parte, questo è.
Quando Donald Trump ha disdetto unilateralmente l’accordo sul nucleare firmato da Obama nel 2015, a sostenere che l’Iran non stava ai patti c’erano solo Usa, Israele e Arabia Saudita. Tutto il resto del mondo pensava, all’opposto, che l’accordo funzionasse benissimo.
Afflitti dal solito occidentocentrismo, molti sono convinti che tutto l’Iran stia nei giovani delle classi medie delle grandi città che protestavano contro la rielezione di Mahmoud Ahmadinejad. E dimenticano i milioni di giovani iraniani delle province povere per i quali le fondazioni religiose che si approvvigionano alle casse dello Stato hanno sempre avuto un occhio di riguardo. E a proposito di giovani: il 40% degli 82 milioni di iraniani ha 24 anni o meno, non mancano braccia e cuori per popolare forze armate e milizie come i pasdaran che, in questi anni, si sono temprate su molti fronti, non ultimi quelli siriani e iracheni. È in questo pasticcio che vogliamo andare a cacciarci? Certo, la macchina militare americana (basi in 13 Paesi dell’area, 54 mila soldati nella regione), con l’aiuto di quella israeliana e dei quattrini sauditi, è in grado di travolgere qualunque ostacolo. Ma a che prezzo, per “noi”, per “loro” e per quelli intorno? Ma forse non c’è tanta filosofia da fare. Al mondo libero serve un altro grande successo dopo quelli in Afghanistan, Iraq, Libia e Siria.