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Chi è il più forte, chi è il più debole?

di Francesco Lamendola - 24/06/2019

Chi è il più forte, chi è il più debole?

Fonte: Accademia nuova Italia

Uno dei dogmi fondamentali del politically correct, anzi, diciamo pure la chiave di volta dell’intero pensiero politicamente corretto, è la netta ed evidente distinzione fra chi è più forte e chi è più debole; con l’immediato corollario, altrettanto evidente, sulla scelta da che parte stare: dalla parte del più debole, sempre e comunque, e mai dalla parte del più forte, il quale o è il responsabile delle sofferenze del più debole, o ne è, in ogni caso, un complice, e sia pure inconsapevole, cosa che, del resto, non lo rende del tutto incolpevole. Dunque, forza è una colpa, debolezza è una virtù: la lotta non è più fra il bene e il male, come nella vera morale cristiana, bensì tra la forza, che è intrinsecamente ingiusta e potenzialmente malvagia, e la debolezza, che è intrinsecamente innocente e potenzialmente santa. Chi ha operato questo slittamento di senso dalla morale del Vangelo alla morale dei gesuiti modernisti e massoni? Difficile dirlo: è stata una cosa graduale. Si parte almeno dal XVIII secolo, quando i gesuiti del Paraguay, imbevuti delle farneticazioni illuministe sul “buon selvaggio”, vedono degli indios delle loro reducciones delle anime pure e forse naturalmente sante, e in tutti i bianchi, all’infuori di loro, dei malvagi e degli scomunicati, e si arriva a Pedro Arrupe e alla teologia della liberazione, che vede nei “poveri” il Regno di Dio e nei “ricchi” la Civitas Daboli, la Città del Diavolo. Ai nostri giorni, Bergoglio non fa altro che riprende ed estremizzare ulteriormente, se possibile, questa rozza e delirante antropologia “teologica”. Tutti i giorni parla dei migranti e del loro diritto a migrare, infischiandosene sia dei morti in mare, sia degli squilibri e dei crimini legati all’immigrazione clandestina, sia, soprattutto, di quel che dice un vero pastore cattolico e un vero figlio dell’Africa, il cardinale Robert Sarah, il quale da anni esorta i suoi compatrioti della Guinea, e tutti gli africani, a non partire, a non lasciare la loro terra e le loro famiglie, e mette in guardia gli europei da un’accoglienza indiscriminata, che avrà gravissime ripercussioni anche per il loro tessuto sociale, oltre che per il loro assetto religioso. Ma i migranti, per Bergoglio, sono innocenti, sono puri, sono buoni, sono immagini viventi di Cristo: senza mai aver detto una parola fra quanti fuggono davvero per necessità, e l’enorme maggioranza di quelli che si spacciano per profughi e in realtà inseguono solo l’ingenuo miraggio di un facile miglioramento della loro condizione materiale. Arriva al punto di affermare che Gesù, Giuseppe e Maria erano dei profughi, erano dei migranti, pur di inculcare, Natale e Pasqua compresi, il dogma del dovere dell’accoglienza per tutti i buoni cristiani (la parola cattolico gli scotta sulla lingua e ne fa il più parco uso possibile; non sia mai che qualcuno possa, un giorno o l’altro, tacciarlo non di coprire i crimini di McCarrick, ma di voler fare del proselitismo!).

Dunque, il dogma della distinzione manichea fra il più debole e il più forte porta con sé il corollario del dovere dell’accoglienza sempre e comunque, il quale, a sua volta, porta l’ulteriore dogma dell’inclusione, intesa come diritto di tutti ad essere inclusi, a cominciare da quelli che non lo desiderano affatto, perché preferiscono sfruttare i vantaggi della marginalità. Chi non ha voglia di rispettare le regole, per esempio, non vuole affatto essere incluso a pieno titolo nella società civile: preferisce impietosire gli altri, vivere di elemosina, magari ricevere una casa gratis, ma guai a parlargli di farsi carico anche di qualche dovere, oltre che di una serie di diritti, di vantaggi e di agevolazioni. A maggior ragione, chi vuole restare “diverso”, chi ha la precisa intenzione di non lasciarsi includere, bensì di sottomettere gli altri, presto o tardi, ai propri usi, al proprio credo, alla propria fede, non ne vuol sapere di lasciarsi includere: per lui, si tratta di una trappola da evitare; se si lasciasse includere, infatti, dovrebbe rispettare, su un piede di assoluta parità, gli altri usi, le altre credenze e le altre fedi. Dovrebbe rivedere, e magari modificare, alcune delle sue abitudini: per esempio quella di trattare la moglie e le figlie come schiave, e obbligarle ad andare in giro con il corpo e il volto interamente coperti e nascosti, salvo una minuscola fessura per gli occhi, e senza il diritto di aprir mai bocca in pubblico, neanche in un ufficio postale o in una banca, per chiedere un’informazione o per rispondere a una domanda dell’impiegato (specialmente se maschio), cosa che sarebbe profondamente immorale e che andrebbe a ledere i suoi diritti di maschio padrone assoluto. Ebbene, di cambiare siffatte abitudini, sono in molti a non avere la benché minima intenzione, né tanto, né poco. Al contrario, ciò a cui essi mirano è di vedere arrivare il giorno in cui anche le altre donne, tutte le donne, saranno rese simili alle loro mogli e alle loro figlie; e quando non ci saranno più donne che se ne vanno in giro come delle “puttane”, o che svolgono un lavoro fuori casa, o che guidano la macchina, fumano le sigarette, vanno a ballare, e altre sconcezze simili. Oppure prendiamo il caso di un gruppo sportivo o di una classe scolastica: si fa presto a dire: includiamoli tutti; ma se c’è qualcuno che preferisce stare al di fuori, o al di sopra, se c’è qualcuno che è egoista e prepotente, costui vuol ricevere l’omaggio e la sottomissione degli altri, quindi non accetterà di farsi includere, perché, una volta incluso, perderebbe i vantaggi che gli vengono dal fatto di avere una posizione eccezionale, di sfruttare un ruolo particolare e tacitamente riconosciuto. Per un certo tipo di mentalità, è più vantaggioso essere trattati come un problema che come un soggetto di pari dignità rispetto a tutti gli altri; finché si è visti come un problema, gli altri si sentiranno sempre in dovere di usare un codice di comportamento differenziato. Cosa volete, lui è fatto così, dirà la maestra ai bambini di una classe, di fronte alle continue provocazioni, ai capricci e alle prepotenze di un compagno caratteriale, ovviamente sostenuto a spada tratta dai suoi genitori. Bisogna capirlo, in fondo non è cattivo; bisogna aver pazienza… La pazienza mal riposta (perché c’è anche una pazienza santa) è l’arma di cui si servono i  prepotenti per ricattare e sottomettere gli altri, sfruttando i loro sensi di colpa e abusando della loro buona volontà.

Vale perciò la pena di considerare più da vicino il dogma fondamentale di questa nuova morale buonista, accogliente e inclusiva: che il più debole e il più forte si riconoscono di primo acchito, e che perciò, di primo acchito, bisogna schierarsi con il primo e mai con il secondo. Ma siamo sicuri che si tratta di un qualcosa di evidente, di riconoscibile al primo sguardo? Noi non ne siamo affatto convinti, e ci spiegheremo con un esempio tratto dal mondo del cinema. Prendiamo il caso di Charlot, l’indimenticabile attore comico che con la sua bombetta, il bastoncino e le enormi scarpe sgangherate si trova spesso a lottare, impari lotta evidentemente, contro avversari massicci, corpulenti, e soprattutto stupidi e prepotenti; mentre lui, poverino, non domanda altro che un angolino per vivere in pace, un cantuccio nel quale non darà fastidio a nessuno, ed essere a sua volta rispettato. È ragionevole, no? Poi dall’idea che la forza sia di tipo fisico, muscolare, come in La febbre dell’oro, del 1925, si passa a illustrare il concetto che la forza è sempre di tipo materiale, però non è quella del corpo, ma quella della potere politico: ne Il grande dittatore, che è del 1940, (quando, si badi, gli Stati Uniti erano ancora formalmente neutrali, e non esisteva uno stato di guerra fra loro e le potenze dell’Asse), l’esile e simpatico omino con la bombetta, il bastoncino, i calzoni troppo corti e le scarpe troppo grandi, è un mite, dolcissimo, romantico abitante di una graziosa cittadina da cartolina, alla Walt Disney, e ama, riamato, una dolce, delicata, graziosa fanciulla; ma contro il suo modesto sogno di felicità piccolo borghese si staglia l’ombra di Hitler, il ridicolo dittatore dai baffetti che paiono una stringa da scarpe ripiegata, e che si agita e si sbraccia furiosamente davanti al microfono, poi si abbandona a sogni voluttuosi di dominio mondiale, giocando, nel segreto del suo studio, con un grande globo terrestre di gomma gonfio d’aria, che getta in alto e poi riprende, trastullandosi come un bambino un po’ svampito. Accanto a lui compare anche la figura, riconoscibilissima, di un altro dittatore, un rivale in fatto di prepotenza, arroganza e ridicolaggine, un Mussolini che fa ogni mezzo minuto il saluto romano e che vuole competere con lui in potenza e vanagloria, tanto che Hitler, per metterlo a disagio, gli offre una seggiola minuscola mentre lui lo domina dall’alto della sua scrivania, e insomma fra tutti e due fanno a gara, senza rendersene conto, a chi è più buffo e più grottesco. Il mondo intero si è piegato dalle risate di fronte a questo film, e fiumi di critici ne hanno lodato la finissima ironia, la verve umoristica, l’efficacia della satira che da esso scaturisce, e che travolge nel mare del ridicolo i due truculenti, ma esilaranti dittatori, felice vedetta dell’intelligenza contro la forza, dell’omino mite e simpatico contro la brutalità del totalitarismo. E va bene. Noi non entreremo, in questa sede, nei meriti artistici del film, e nemmeno ne faremo una critica sociologica; ci limiteremo a raccogliere la sfida lanciata da Charlie Chaplin e porremo a nostra volta la domanda: chi è il forte, e chi è il più debole, in un film  come Il grande dittatore? In coro, senza alcuna esitazione, tutti quanti hanno pensato, per decenni, che il più forte è il dittatore, e il più debole è l’omino con la bombetta. Ma ne siamo sicuri? Certo, il dittatore comanda a una potente nazione industriale, ha settanta milioni di persone ai suoi ordini, uno degli eserciti più addestrati, una macchina da guerra pronta a scattare; mentre l’altro, l’omino coi calzoni troppo corti, non ha niente e nessuno dalla sua parte, tranne la personale simpatia che sprigiona dalla sua figura e la coscienza d’interpretare la buona causa, quella del rispetto, della tolleranza e della pace, contro chi sa gettare sul piatto della bilancia solo i cannoni e i carri armati. Eppure, a ben riflettere, le cose non stanno proprio come appaiono. L’omino striminzito dalle scarpe troppo grosse ha, dalla sua, un fattore importantissimo, che poi è il fattore decisivo: la telecamera. Ha un’industria cinematografica che controlla gli schermi di tutto il mondo e manda quelle immagini ovunque, facendo ridere e commuovendo centinaia di milioni di persone. Chi controlla gli schermi del cinema, controlla l’immaginario collettivo; e chi controlla l’immaginario collettivo, controlla anche tutto il resto, perché non c’è forza più potente al mondo di quella della suggestione, specie quando si esercita per mezzo di strumenti emotivi e non per mezzo di strumenti razionali. Nel film di Chaplin non ci sono ragionamenti, ci sono emozioni a volontà: l’omino fa tenerezza, con la sua delicata storia d’amore e il suo modesto desiderio di poter solamente vivere in pace; il dittatore, anzi i due dittatori, suscitano sdegno e ilarità, perché sono un misto di violenza cieca e di ridicola smania di grandezza. Il cinema, a ben guardare, è un’arma più potente dei cannoni e dei carri armati. Coi cannoni e i carri armati si possono vincere le battaglie; ma le guerre si vincono quando l’opinione pubblica mondiale si schiera, per ragioni emozionali che diventano ragioni umanitarie, da una parte contro l’altra parte in lotta. È sempre stato così e sempre sarà così. La Prima guerra mondiale è stata vinta dagli Alleati non perché avessero delle ragioni migliori dei loro nemici per vincerla, almeno sotto il profilo politico o morale, ma semplicemente perché la propaganda dell’Intesa aveva convinto l’opinione pubblica mondiale che i soldati tedeschi tagliavano le mani ai bambini del Belgio, e perché i sottomarini tedeschi affondavano le navi cariche di donne e di bambini (anche se l’ambasciata tedesca in America aveva acquistato una intera pagina di giornale per mettere in guardia i cittadini statunitensi dal salire a bordo di navi come il Lusitania, che venivano fatti passare per transatlantici disarmati mentre erano incrociatori ausiliari adibiti anche al trasporto di materiali da guerra). L’opinione pubblica mondiale è un’arma più potente di ogni altra arma materiale, comprese le bombe atomiche (e infatti nessun film americano ha mai condannato in maniera esplicita il bombardamento atomico d’Hiroshima e Nagasaki, mentre decine di film americani ci hanno mostrato i giapponesi come soldati crudeli, disumani, quasi bestiali nel loro sadismo), perché nessuna nazione può vincere una guerra se ha contro di sé una simile forza. L’opinione pubblica muove i governi, mobilita le risorse, spinge alla vendetta dei “buoni”, come l’’insensata carneficina di Dresda, voluta da Churchill per dare una lezione ai “nazisti”.

Dunque, l’uomo con la telecamera è più forte dell’uomo col fucile. La telecamera è un’arma e arriva a colpire più lontano di qualsiasi fucile o mitragliatrice. Crea delle immagini che entrano in tutte le case, suscitano indignazione, determinano le scelte politiche. Anche la radio è un’arma potentissima: lo sapevano i nostri nonni i quali, in piena guerra, e nonostante rischi e divieti, ascoltavano Radio Londra, cioè la radio del nemico contro il quale l’Italia era impegnata in una lotta per la vita e per la morte (e questo non è un modo di dire: anche se non ce ne siamo accorti, noi siamo effettivamente morti, morti come nazione indipendente e sovrana, l’8 settembre del 1943, e poi, definitivamente, il 25 aprile del 1945). Un giornalista delle Iene che insegue una persona per la strada, puntandole contro il microfono e facendole fare la figura dello sciocco se risponde, o del codardo se si allontana, è infinitamente più forte di qualsiasi interlocutore, anche se questi avesse dalla sua le migliori ragioni di questo mondo. La conclusione è che l’apparenza inganna; e che in un mondo dominato dai mass-media, chi controlla i mass-media controlla tutto il resto. Mediante un uso spregiudicato delle apparenze, si possono manipolare le coscienze, facendo passare il torto per diritto e viceversa. Attenti ai buoni, dunque; specialmente se sono armati di microfono e telecamera.