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Ieri Iraq e Siria, domani Iran: l’America in Medio Oriente sa solo distruggere (e Trump c’entra poco)

di Fulvio Scaglione - 25/06/2019

Ieri Iraq e Siria, domani Iran: l’America in Medio Oriente sa solo distruggere (e Trump c’entra poco)

Fonte: Fulvio Scaglione

Nuove sanzioni, per rendere ancora più fragile la già precaria economia iraniana. E una pallida apertura diplomatica in forma di polpetta avvelenata: la pace in cambio di una revisione dell’accordo del 2015 sul nucleare, ma a condizioni così umilianti da risultare inaccettabili per Teheran. Ecco l’ultima mossa degli Usa. Da parte dell’Iran, minacce di ritorsione contro gli interessi degli Usa e dei loro alleati nella regione. Inutili nel gioco lungo, perché l’asse Usa-Arabia Saudita-Israele finirebbe comunque col prevalere, ma temibili nell’immediato.
Questo, però, è il giorno per giorno della crisi tra Usa e Iran, l’elenco dei titoli dei Tg. La sostanza è altrove, ed è terribile. Se appena ci guardiamo dietro le spalle, non possiamo non notare il cambio di paradigma. L’invasione internazionale dell’Afghanistan, nel 2001, e quella anglo-americana dell’Iraq nel 2003, avevano un tratto preciso in comune. Nell’uno come nell’altro caso, l’ambizione era di prendere un Paese e ricostruirlo con robuste iniezioni di cultura politica e tecnologia occidentale. Il famoso “nation building”. Magari con il contorno di un regime più o meno fasullo ma amico.
Sappiamo com’è andata. In Afghanistan, dopo diciotto anni, il potere legittimo si esercita sulla capitale Kabul e i dintorni mentre i talebani sono forti come non mai e trattano da pari a pari con gli americani, che non vedono l’ora di tornarsene a casa. Per questo bel risultato sono morti 110 mila afghani, dei quali più di 30 mila civili, accanto a 3.541 soldati della coalizione occidentale, tra i quali 54 italiani. Scenario simile, nella sostanza, in Iraq. Dopo l’invasione del 2003, gli occupanti inglesi e americani cercarono di amministrare il Paese, con risultati disastrosi. Poi passarono la mano a un governo locale, dominato dagli sciiti, che si comportò anche peggio. Risultato: tra mezzo milione e un milione di iracheni morti, migliaia di soldati caduti, un tale livello di insoddisfazione e instabilità da spingere le regioni sunnite a diventare un feudo dell’Isis.
Ultima considerazione. Linda Bailmes, economista di Harvard, ha calcolato il costo di quelle due guerre per i soli Stati Uniti. La cifra è astronomica: tra 4mila e 6mila miliardi di dollari a fine 2016, con operazioni militari prolungatesi per questi tre anni e destinate a durare ancora chissà quanto. Per farla breve: il famoso “nation building” è diventato impossibile, produce disastri. E infatti, come si diceva, il paradigma è cambiato. Siamo passati al disastro puro, senza alcun tentativo di costruire alcunché. È questa la lezione che ci arriva dalla Libia, dalla Siria e, in potenza, dall’Iran.
In Libia è stato abbattuto un regime forse odioso. Ma, soprattutto, è stato distrutto un Paese che nel 2011, al momento dell’attacco francese, inglese e americano, era il più sviluppato dell’Africa del Nord, tanto da essere ricettore di cospicui flussi migratori. Distruzione che, come si è visto, non portava con sé alcun progetto di “building”, né alla vecchia maniera del colonialismo classico (ti faccio la guerra e poi governo io) né alla maniera nuova del colonialismo contemporaneo (ti faccio la guerra e poi governa chi dico io).
Idem come sopra in Siria. Anche lì, l’ingerenza occidentale (che comincia nel 2012, con il ritiro degli ambasciatori e l’invio sul campo di tonnellate di armi) e ancor più quella delle potenze regionali (Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, che parte già nel 2011, fin dai primi mesi della rivolta) non avevano alcun progetto per costruire una Siria nuova, a meno che non si consideri tale lo slogan “Assad must go” o lo pseudo-califfato di Al Baghdadi. L’idea era: intanto distruggiamo l’unità territoriale della Siria, poi qualcosa sarà.
Con l’Iran si ragiona in modo analogo. Chi ha la sensazione che gli Usa abbiano un “piano per l’Iran”? Non saranno di certo i pur rispettabili esuli iraniani a prendere, domani, le redini del governo del Paese. Tra l’altro, gli esuli sono già stati usati con esiti terrificanti sia in Afghanistan sia in Iraq, meglio lasciar perdere. Certo, agli Usa piacerebbe insediare a Teheran un regime tipo Shah, con le donne in minigonna e la Savak (acronimo di Organizzazione nazionale per la sicurezza e l’informazione) a riempire le carceri. Ma con chi potrebbero farlo, appoggiandosi a quali forze? In realtà, anche qui, il progetto è uno solo: buttar giù quello che c’è e che, per una ragione o per l’altra, non ci piace.
Come si vede, questo c’entra poco con Donald Trump. L’Afghanistan e l’Iraq erano con George Bush, la Libia e la Siria con Barack Obama. Trump, con l’Iran, fa solo ciò che è nello spirito dei tempi. Neppure la superpotenza americana, oggi, può illudersi di praticare il “nation building” in Medio Oriente.
Mentre il livello dell’azione politica si abbassa (siamo ormai al puro bulldozer), però, s’innalza l’efficacia dell’azione distruttiva. Da un punto di vista pratico, drammaticamente concreto: sempre più morti, sempre più macerie. Ma anche da un punto di vista storico e civile. L’Afghanistan era il regno delle tribù, ed è frazionato in clan e gruppi etnici oggi come lo era nel 2001. L’Iraq era già una cosa diversa. Tripartito, con sciiti, sunniti e curdi a contendersi potere e influenze. E dominato da una dittatura orribile. Ma era anche un Paese che aveva lasciato intravvedere qualche embrionale tendenza a evolvere verso lo Stato nazione: durante la guerra contro l’Iran (1980-1988), gli sciiti iracheni avevano combattuto contro la loro patria spirituale, l’Iran, e per la loro patria legale, l’Iraq appunto.
Stesso discorso, ma più sviluppato per la Libia. Gheddafi era riuscito a compattare le tribù, quelle che ora galoppano nelle vaste praterie dell’anarchia, dentro uno schema comune. Da lui controllato e sfruttato, ovvio, ma anche capace di beneficiare quasi tutti. Un passo oltre con la Siria. Anche qui: dittatura familiare degli Assad e comunitaristica degli alawiti, ma con la lenta formazione di uno spirito nazionale che trascendeva le divisioni etnico-religiose. Tanto che negli anni terribili della guerra cominciata nel 2011, molti milioni di musulmani sunniti sono rimasti fedeli al Presidente alawita e al suo Governo. Se così non fosse stato, in un Paese dove i sunniti sono il 75% della popolazione la rivoluzione sponsorizzata dalle petromonarchie sunnite avrebbe vinto in due settimane.
L’apice si raggiunge con l’Iran che, con Egitto e Turchia, forma il trio degli unici, veri e compiuti Stati nazione del Medio Oriente. È chiaro che continuare ad abbattere le entità più solide avendo come massima ambizione, se tutto va bene, di sostituirle con piccole entità statuali a base etnico-religiosa, condanna la regione all’instabilità e alla guerra permanente. Il “fardello dell’uomo bianco” esaltato da Rudyard Kipling, che a fine Ottocento era descritto come una missione civilizzatrice a vantaggio dei popoli barbari, è diventato questo. Un esercizio di barbarie ai danni di chi vorrebbe civilizzarsi.