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L’Europa non ha futuro perché non ha una civiltà

di Francesco Lamendola - 13/07/2019

L’Europa non ha futuro perché non ha una civiltà

Fonte: Accademia nuova Italia

Una civiltà sussiste a due condizioni: che sia animata da un grande ideale, e che sappia mantenere la sua coesione interna, sia spirituale che materiale.
La prima condizione non richiede una particolare dimostrazione: è di per sé evidente. In assenza di un grande ideale non nasce alcuna civiltà: gli uomini amministrano l’esistente alla meno peggio, in attesa di qualche fatto esterno – di segno positivo o negativo – il quale venga a smuovere le acque e inneschi dei processi reattivi. Tutte le civiltà conosciute rispondono a questo requisito, da quella egiziana, a quella greca, a quella cristiana. Di una civiltà moderna non è possibile parlare, perché in essa non si delinea alcun grande ideale. L’idea del progresso illimitato, infatti, non è un ideale, è solo un’idea; le manca del tutto, per divenire un ideale, la dimensione spirituale, senza la quale si resta nell’ambito della partita doppia, legittima fin che si vuole, ma rispondente a un criterio sostanzialmente commerciale: tanta la spesa, tanto il guadagno. Perché un’idea diventi un ideale, è necessaria la disponibilità al sacrificio disinteressato da parte di coloro che la professano, il che implica una visione spirituale e trascendente della vita umana: quello che conta non si realizza qui sino in fondo; resta uno stacco, una distanza, che è tensione e sacrificio; noi non vedremo la realizzazione del nostro ideale, ma la vedranno i nostri nipoti. La vedranno solo in parte, beninteso, perché un ideale, per definizione, non si realizza mai del tutto, altrimenti la tensione verrebbe meno e l’ideale cesserebbe di essere tale. Inoltre, i valori di cui si nutre un ideale non hanno prezzo, non hanno corso monetario. L’idea della divinità del faraone, ad esempio, nella civiltà egiziana; o l’idea della libertà e della bellezza, nel caso di quella greca; o, ancora, l’idea della relazione amorevole fra l’uomo e Dio, che conferisce un significato più alto alla vita umana, in quella cristiana. Invece l’idea di Progresso degli illuministi si basa principalmente su fattori materiali, le macchine, il commercio, un’amministrazione più efficiente, il tutto in vista di una “felicità” fortemente connotata in senso edonista e, appunto, materialista.
La seconda condizione, la coesione interna, è figlia della prima; ma mentre la prima è il motore della nascita della civiltà, la seconda è la garanzia della sua sopravvivenza. Una civiltà è come un atto d’amore: c’è la fase dell’innamoramento e c’è la fase dell’assestamento. Nell’innamoramento ciò che conta è l’ideale, la disponibilità a sacrificarsi: amare al punto da essere disposti a sacrificare tutto, anche la vita, per la cosa amata. Il consolidamento dell’amore richiede soprattutto la coesione interiore, perché viene messa alla prova sui tempi lunghi della realtà concreta, e attua la difficile impresa di calare l’ideale nel regno dell’esistente, cioè del possibile. Per un singolo individuo, coerenza interna significa tenacia, perseveranza, costanza nel perseguire l’obiettivo o gli obiettivi prefissati; per una società, la coerenza interna è data dalla capacità di armonizzare e tenere insieme, armonicamente organizzati, gli elementi che la compongono, materiai e morali. Uno di essi è la composizione etnica e sociale. Una civiltà non è tale se non si allarga e non si espande, però non oltre un certo limite, quantitativo o qualitativo, altrimenti degenera e implode, perché non riesce più a coordinare le sue componenti e a dirigerle verso un fine comune: prevalgono le spinte particolari, gli egoismi di questo o quel settore, di questa o quella componente. La civiltà decade e torna ad essere ciò che era prima di svilupparsi, una semplice somma d’individui, tenuti insieme alla meno peggio dall’interesse privato; ma se anche questo appare minacciato, la società si disgrega e si dissolve, e verrà sostituita da nuove forme di aggregazione, magari fondate su nuovi soggetti etnici, su nuove popolazioni venute dall’esterno. Se una civiltà si espande oltre i limiti che le consentono di metabolizzare le comunità che ne fanno parte, va incontro al tracollo: è quanto accadde alla civiltà greco-romana, specialmente dopo l’editto di Caracalla che trasformava praticamente tutti gli abitanti dell’immenso Impero in altrettanti cittadini, facendo venir meno la dialettica fra interno ed esterno, centro e periferia, minoranza e maggioranza.
Tutte le civiltà che conosciamo sono nate e si sono sviluppate grazie al genio di un singolo popolo. Con due eccezioni: la civiltà greca, nella sua ultima fase, allorché divenne la civiltà greco-romana; e soprattutto la civiltà cristiana, che sin dall’inizio si sviluppò non sulla base di una specifica nazione, ma su un ideale universale e trascendente. Sarebbe un errore considerare la civiltà cristiana come il frutto del genio ebraico, o del genio greco, o di quello romano; di fatto, essa si avvalse dell’apporto di ciascuno di quei popoli, la spiritualità ebraica, il senso greco di un cosmo ordinato e l’ideale giuridico dei romani. Essa fu, sin dall’inizio, una civiltà del tutto particolare, non il frutto del genio di un popolo, ma l’edificio costruito a partire da un preciso evento storico: la vita e la predicazione di Gesù Cristo, e la prosecuzione di quest’ultima da parte dei suoi seguaci e dei loro successori. Essendo una civiltà di tipo puramente spirituale, poté estendersi illimitatamente in senso geografico, e inglobare in sé anche popolazioni e culture del tutto estranee a quella greco-romana: i germani, gli slavi, i vichinghi, gli ungari. Abbiamo detto però che una civiltà non può estendersi all’infinito, pena l’implosione; ma abbiamo precisato che il limite, che ad essa è necessario, può essere di tipo quantitativo o quantitativo. Nel caso della civiltà greco-romana, il limite fu quantitativo: le sue frontiere non potevano estendersi oltre un certo limite; quando ciò accade, ebbero inizio la crisi e la decadenza. Per la civiltà cristiana, il limite fu qualitativo: essa rinunciò, sin dall’inizio, e sia pur con qualche incertezza (processo che di fatto richiese dei secoli) a controllare interamente la dimensione giuridica e politica, e si concentrò su quella morale e spirituale. In altre parole, la civiltà cristiana poté espandersi all’infinito, fino alle più lontane popolazioni, sia primitive che civilizzate, perché non pretese di disciplinare tutti gli aspetti della vita umana, ma si riservò il lato spirituale e morale; per gli aspetti materiali, riconobbe l’esistenza di un altro potere, quello delle legittime autorità politiche, volute o permesse dall’ordine provvidenziale di Dio e perciò meritevoli di rispetto, mai però di adorazione. Ricordiamo che proprio su questo punto si giocò lo scontro decisivo fra cristianesimo e autorità imperiali romane: i seguaci della nuova religione seppero tener duro, fino al martirio, su quel punto: non ammisero mai che fosse lecito adorare l’imperatore come se fosse un Dio, ma si limitarono a dire che erano disposti a obbedire alle sue leggi. Il culto, però, cioè il riconoscimento di un qualcosa di sacro, davanti a cui gli uomini si devono inginocchiare, andava riservato esclusivamente a Dio. Tu non avresti su di me alcun potere, disse Cristo a Pilato, se non ti fosse stato dato dall’alto; ma il mio Regno non è  di questo mondo. Lo stesso scontro si verificò di nuovo nel XX secolo davanti ai totalitarismi che sacralizzavano lo Stato, il partito o la classe, e che perciò, giustamente, furono considerati dai cristiani come un ritorno del paganesimo: di nuovo i cristiani rifiutarono di adorare un idolo e di nuovo furono perseguitati, specie da quello dei totalitarismi che sopravvisse più a lungo e che mostrò la più forte tendenza ad auto-divinizzarsi – quello comunista. Ma prima di cadere, esso riuscì a inoculare il suo veleno nella Chiesa e specialmente fra il clero: riuscì a trasmettere il nucleo della sua concezione idolatrica, ossia che il povero ha sempre ragione, per il fatto di essere povero, il che ne fa automaticamente uno ”sfruttato” e crea automaticamente un nemico che deve essere annichilito, lo sfruttatore; e inoltre che la giustizia sociale, e non la fede in Dio, è il più alto dei valori umani.
Ebbene: alla luce di queste riflessioni, appare chiaro che la nostra civiltà – e saremmo imbarazzati su come chiamarla; una civiltà moderna propriamente non esiste per le ragioni dette prima, e d’altra parte la civiltà cristiana è di fatto tramontata da tempo – non è più in grado di reggersi e sta correndo verso la fine. Da un lato ha perduto, o forse non ha mai avuto, un’autentica spinta ideale, ma solo una spinta tecnologica: e le macchine consentono, sì, di realizzare spettacolari risultati, ma sono pur sempre macchine, qualcosa d’inerte, e come tali incapaci di giustificare le scelte da intraprendere e i valori da perseguire; dall’altro, appare del tutto incapace di assicurare la propria coesione interna. E ciò è dovuto a diversi fattori, sui quali due spiccano più evidenti: lo scollamento dei valori e degli interessi dei singoli e dei gruppi sociali, ciascuno dei quali persegue i propri, nell’indifferenza o nell’aperto disprezzo dei fini comuni, considerando come sue vittorie ciò che reca danno agli altri, e viceversa; e la sconcertante apertura delle frontiere a masse incontrollabili e incessanti d’immigrati provenienti da ambiti culturali completamente diversi, e sostanzialmente incompatibili con la civiltà europea, della quale apprezzano solo il benessere materiale, ma della quale ignorano e disprezzano tutto il resto, essendo, nella maggior parte dei casi, specie se di origini islamiche, fermamente intenzionati a non integrarsi affatto, semmai a concorrere all’islamizzazione dei Paesi ove si stabiliscono. E mentre gli europei discutono e litigano ferocemente su come comportarsi di fronte alle navi delle sedicenti organizzazioni umanitarie, che di fatto incoraggiano e favoriscono l’invasione africana del continente, dall’altro lato i governi appaiono rassegnati all’idea di accettare milioni d’immigrati “regolari”, pur se le loro economie non ne hanno bisogno e se, anzi, costituiranno certamente un fattore sociale destabilizzante, dal momento che provocheranno un generale abbassamento del costo del lavoro – per non parlare dei disagi, delle tensioni e dei conflitti che scatenerà la massiccia presenza di elementi estranei alla cultura locale, e portatori di sistemi di vita e di valori incompatibili con essa. Si pensi, per fare solo un esempio, alla condizione della donna nelle famiglie e nelle società islamiche di stretta osservanza, del tutto incompatibile con la dignità della donna nella società europea, così come noi europei la intendiamo, che è il frutto di una storia secolare, evidentemente assai diversa da quella delle società islamiche. Ma di esempi se ne potrebbero fare moltissimi altri, non solo legati ai grandi valori della vita ma anche alle piccole abitudini di ogni giorno, le quali hanno anch’esse la loro importanza, se l’ospite non mostra alcuna inclinazione a modificare le proprie usanze per adeguarsi a quelle della società ospitante. Per fare un esempio banale, provate a immaginare di ospitare in casa vostra un fumatore accanito, voi che non siete fumatori e aborrite il fumo; e immaginate che costui non solo non mostri alcuna intenzione di smettere di fumare, ma che non rispetti le vostre abitudini e pretenda di fumare continuamente, in tutte le stanze della casa, magari senza neanche darsi il disturbo di aprire le finestre per cambiare l’aria. La vita di ogni giorno diverrebbe qualcosa di penoso; la convivenza con quella persona, un calvario e una frustrazione incessante; la tensione comincerebbe ad avvelenare i rapporto reciproci, e il malanimo, l’insofferenza di entrambi giungerebbe a livelli di guardia. Ora, noi vediamo lo stile con cui gli immigrati africani, e molti di quelli asiatici, si accingono a fare dell’Italia e dell’Europa la loro nuova patria: quel misto di sciatteria e maleducazione, ma anche di aggressività e potenziale violenza, che contrassegna le loro relazioni quotidiane con i cittadini della nazione ospitante. Basta avere gli occhi per vedere, o saper leggere le pagine di cronaca, nonostante l’auto-censura che i mass-media si sono imposti, per capire quel che sta succedendo sui treni, sugli autobus, nelle scuole, nei locali pubblici e nelle strade: i nuovi arrivati, spavaldi, aggressivi, sprezzanti delle leggi, sono costantemente all’offensiva, mentre gli europei, non più abituati, da generazioni di vita pacifica, a risolvere le contese coi pugni o il coltello, soccombono in  continuazione, oltretutto avendo le mani legate dalle leggi e dall’applicazione che di esse danno i magistrati progressisti e filo-migrazionisti, per non parlare dei preti buonisti e filo-islamisti. Perfino gli uomini delle forze dell’ordine hanno le mani legate, e così gli altri pubblici ufficiali; gli insegnati chinano la testa, gli impiegati degli uffici e il personale medico negli ospedali vanno sistematicamente per le perse; i gestori dei locali, i commercianti, i vigili urbani, i controllori, i sindaci, gli amministratori condominali e cento altre categorie di persone son costrette a masticare il loro disappunto e a subire, più o meno in silenzio, le quotidiane prepotenze, piccole o meno piccole, che un esercito di conquistatori, resi forti dell’impunità, consumano ai danni di una popolazione residente sempre più vecchia e sempre più stanca, rassegnata, sconfitta.
Intanto i signori della grande finanza hanno deciso di sradicare la gente dai propri luoghi, di creare nei giovani, attraverso la mancanza di lavoro, l’abitudine alla mobilità intercontinentale; stanno riuscendo a distruggere il senso di radicamento e d’appartenenza, per cui milioni di giovani europei, specie dei ceti meno abbienti, non vedono l’ora di andarsene all’estero in cerca di miglior fortuna. E mentre loro se ne vanno, portando con sé la speranza del futuro e il desiderio frustrato dei loro genitori di diventare nonni e di veder crescere i nipotini, al loro posto arrivano frotte di nigeriani, di senegalesi, di bengalesi, di marocchini, benché in nessuno di quei Paesi ci siano guerre o particolari emergenze umanitarie. Arrivano e pretendono di essere accolti; e tacciano di razzismo, essi e i loro amici della sinistra nostrana, i figli di papà dell’internazionalismo al caviale, chi vede e comprende quel che succederà nel giro di due generazioni, forse meno: che l’Europa avrà cessato di esistere e i pochi bianchi sopravvissuti dovranno, loro, integrarsi nelle nuove comunità africane e islamiche…