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Addio allo spirito europeo senza memoria né figli e in piena crisi identitaria

di Gennaro Malgieri - 24/07/2019

Addio allo spirito europeo senza memoria né figli e in piena crisi identitaria

Fonte: Il Dubbio

Il vuoto che caratterizza la discussione sul destino
dell’Europa, testimoniata dal discorso di
presentazione della nuova presidente della
Commissione europea a Strasburgo, Ursula von
der Leyen, invoglia a riprendere tra le mani libri
“senza tempo” per fortuna riproposti da case editrici
avvedute quanto raffinate. Niente di meglio
di questi giorni di asfissia politica più che climatica
di un “tuffo” nelle pagine de La genesi dell’Europa
di Christopher Dawson, uno dei maggiori storici
inglesi del Novecento, meritoriamente
riproposto da Lindau (pp.409, euro
34,00), nel quale l’introduzione
alla storia dell’unità
europea dal IV all’XI secolo
- davvero cruciali nella costruzione dell’identità
continentale -
viene giustamente considerata
come un’età di rinascita
dal momento che la complessa integrazione
tra Impero romano e Chiesa cattolica, tradizione classica e società sostanzialmente
“barbare” eppure soggiogate dalla romanità favorì
la nascita di una vitale civiltà, come descrisse
magistralmente Gioacchino Volpe nei suoi studi
sul Medio Evo e sugli albori della nazione italiana,
parte di una nazione europea esistente nonostante
tutto come spirito d’intrapresa nella edificazione
di un edificio su rovine che non vennero
rimosse, ma rivitalizzate grazie anche al monachesimo
generatore di fede e di cultura.
Si può discutere sulla politica di Dawson, suscitata
da contingenze che andrebbero storicizzate,
ma non si può non scorgere nella sua analisi la ricerca
delle fondamenta unitarie delle nazioni
stesse nel quadro di un’Europa che viveva
nell’ambito di un “impero interiore” che ancora
attende di essere riportato in vita. Quello stesso
“impero” che ha suggerito a Paul Valéry le dense e
coinvolgenti pagine sull’Europa sparse nei molti
libri dedicati al tema della decadenza della nostra
civiltà. Lo smarrimento è tale che una immersione
nella saggezza del grande poeta e filosofo francese
è quasi terapeutica: “Le nostre civilizzazioni
sanno adesso d’essere mortali”, leggevo qualche
giorno fa nei suoi celeberrimi Chaiers. Malauguratamente
quelli che hanno la capacità di veder arrivare
la bufera si affidano a rabdomanti della politica
che con improbabili bastoncini indicano approdi
che dovrebbero essere sicuri. Ma cosa c’è di
sicuro quando il “travaglio dello spirito”, sempre
per usare le parole di Valéry, non produce più nulla
che possa mettere in forma una civiltà che si sta
disfacendo?
Davanti ai Chaiers chiusi apro un’altra raccolta di
preziose informazioni sul nostro avvenire, formulate
a ridosso della prima grande guerra civile europea
da un giovane Valéry la cui intensa vita
(1871-1945) gli permise di raccogliere i frutti delle
sue diagnosi per concludere di aver ragionato
sullo spirito europeo formulando prognosi che
nessuno sembra voglia tenere in gran conto di questi
tempi. Ecco allora In morte di una civiltà (Aragno
editore, pp. 209, € 18,00) che comprende lo
scintillante saggio in due parti - originato da due
lettere pubblicate nella rivista londinese “Athenaeum”
nel 1919 - La crisi dello spirito ed altri
scritti “quasi politici” dal quale si traggono meditazioni
non superficiali sull’identità dell’essere
europei e da che cosa nasce quell’attitudine alla
“conquista” di se stessi, innanzitutto, per poi proiettare
“prometeicamente” i risultati di una formazione
- non saprei se “umana, troppo umana” o anche
“divina” - che ha dato il senso al mondo, senza
jattanza ed esagerazioni retoriche.
E “la crisi della civiltà” introduce ad una considerazione
del Vecchio Continente che oggi non può
certo essere ottimista, come ci fa capire Massimo
Carloni, curatore del volume, riflettendo sul
“dramma dello spirito” a conclusione del composito
saggio di Valéry. Scrive: “L’Europa nata abortita
dalle ceneri della Seconda Guerra Mondiale,
nelle sue varie metamorfosi d’Europa del Carbone
e dell’Acciaio, dell’Energia Atomica, della Comunità
Economica, e poi della Banca Centrale e
della finanza, è un’avvilente parodia, un simulacro
burocratico del sogno valériano. L’homo europaeus,
sintesi di libertà e rigore, di immaginazione
e intelligenza, di cui la Grecia ha fornito il modello
perfetto e Leonardo la celebre raffigurazione,
oggi è miseramente ridotto ad effige di una moneta.
Mentre il Mediterraneo, da crogiolo e crocevia
di civiltà, è diventato un lugubre cimitero marino
où marchent des tombes... Bastano questi avvilenti
segni per misurare la distanza abissale che
ci separa dalle origini dello spirito europeo che abbiamo
miseramente tradito”.
Lo prevedeva Valéry? Credo proprio di sì. Per concludere
che “un’economia non è una società”, presupponeva
che questa dovesse avere, onde evitare
il rischio di deperire rapidamente, una cultura,
la coscienza di una storia, una visione del mondo
e della vita. E in cuor suo si augurava che l’Europa
tornasse ad essere ciò che nel tempo era stata grazie
al suo spirito. “Tutti i popoli che approdarono
sulle sue rive l’hanno fatto proprio; essi si sono
scambiati merci e colpi; hanno fondato porti e colonie
dove, non solo gli oggetti del commercio,
ma le credenze, le lingue, i costumi, le acquisizioni
tecniche, erano elementi dei traffici. Prima ancora
che l’Europa attuale avesse preso le sembian-
ze che conosciamo, il Mediterraneo, nel suo bacino
orientale, aveva visto sorgere una sorta di proto-
Europa”. Ed è là che oggi finisce l’Europa? Dove
è sorta dal mito e dal mare e dall’amore di un
dio e dalle similitudini di genti che si sono riconosciute
come originarie di un mondo ancestrale
che avremmo definito indoeuropeo? Non possiamo
rinunciarci. Non è tempo per funerali, ma per
rinascite. Credendoci, ovviamente.
Scrive Valéry: “La nostra Europa, iniziata come
un mercato mediterraneo, diventa così un’immensa
fabbrica; fabbrica in senso proprio, macchina
per trasformazioni, ma anche una fabbrica intellettuale
senza pari. Questa fabbrica intellettuale
riceve tutte le cose spirituali da ogni dove; essa le
distribuisce ai suoi innumerevoli organi. Gli uni
colgono le novità con speranza, con avidità, esagerandone
il valore; gli altri resistono, oppongono
all’invasione delle novità lo splendore e la solidità
delle ricchezze già costituite. Tra l’acquisizione
e la conservazione deve continuamente ristabilirsi
un equilibrio mobile, ma un senso critico attacca
l’una o l’altra tendenza, dispiega senza riguardo
le idee possedute e apprezzate; mette alla
prova e discute senza pietà le tendenze di questa
regolazione sempre conseguita”. Può essere questo
il destino dell’Europa immemore dell’equilibrio
ragionevole che l’ha portata ad essere il sale
della Terra?
L’Europa si sta, insomma, autodistruggendo. Del
passato non si sa cosa farsene. Del futuro non si ha
la benché minima percezione. È come se gli europei
si fossero costruiti una prigione che li tiene in
qualche modo costretti a guardare attraverso le
sbarre ciò che accade intorno a loro, il tempo e lo
spazio che si assottigliano. Diventano irrilevanti,
mentre il mondo che era stato costruito da chi li
aveva preceduti diventa babelico, preda di interessi
famelici, oggetto degli appetiti di nuovi colonizzatori
che appartengono ad altri universi culturali
ed antropologici. Come nel passato, anche la
civiltà europea è destinata a sparire nella maniera
più lenta e cruenta: rinunciando ad esistere, a riprodursi
attraverso le nascite, abdicando al ruolo
che umanamente dovrebbe preservare. Negli anni
Venti fece scalpore in Germania e in Italia il libro
di uno studioso delle civiltà e della decadenza,
Richard Korherr: Regresso delle nascite, morte
dei popoli. In esso, applicando il metodo comparatistico,
Korherr dimostrava come ed in qual misura
l’infertilità voluta, programmata, motivata
dall’egoismo e dall’assuefazione al soddisfacimento
dei fittizi bisogni immediati, abbia fatto
precipitare nell’abisso culture che avevano dominato
vaste aree del pianeta e contribuito alla formazione
della civiltà euromediterranea.
Oggi, nell’indifferenza dei popoli e delle loro classi
dirigenti, sta accadendo la stessa cosa per cui
non è improprio, né tantomeno allarmistico sostenere
che il disfacimento dell’Europa sia legato a
due fattori primari: la denatalità e la crisi identitaria.
Tanto la prima quanto la seconda sono strettamente
correlate e danno il senso al declino su cui
non mancano di esercitarsi analisti capaci di scorgere
tra le pieghe del malessere europeo quello
che sarà l’avvenire di un Continente che anno dopo
anno sembra assumere i connotati di una landa
desolata nella quale pochi ricercatori tentano di
tenere in piedi una certa idea dell’Europa che possa
attrarre, con scarse speranze, è il caso di dire,
soprattutto le giovani generazioni la cui evidente
noncuranza di quello che sarà il loro domani nel
contesto geo-politico e culturale che rapidamente
sta mutando è il sintomo più doloroso di un declino
inevitabile.
Tra gli osservatori più attenti alla mutazione europea
da tempo si segnala Giulio Meotti, che con il
volume dal suggestivo titolo Notre-Dame brucia.
L’autodistruzione dell’Europa (Giubilei Regnani
editori, prefazione di Richard Millet. pp.144, euro
13.00), mette a fuoco le ragioni di una catastrofe
annunciata da tempo e verso la quale la cultura europea,
la politica degli Stati e quella parodistica
dell’Unione hanno tenuto gli occhi chiusi.
L’incendio che nell’aprile scorso distrusse buona
parte della cattedrale francese è la metafora, per
Meotti, della fine dell’Europa. Si ha l’impressione
che Notre-Dame continui a bruciare davvero.“
Il problema - osserva Meotti - non sara` adesso
ricostruire Notre-Dame, ma l’identita` che quella
chiesa rappresentava. Di fronte alla cattedrale in
fiamme piangevamo l’immagine di una civilta` in
frantumi. La deliquescenza dell’Europa”. È la coscienza
dell’Europa, a dirla tutta - e se vogliamo
dell’Europa cristiana - che è bruciata a Parigi. E ancora
brucia, per chi riesce a vedere la tragedia che
emblematicamente essa ha evidenziato raccontandoci
di un mondo che non ha più ragion d’essere,
dominato da disvalori che la tecnologia esalta
senza porsi freni. E soprattutto demolisce le fondamenta
di una civiltà. In una parola: l’Europa è
ammalata di relativismo culturale. Il cui prezzo,
scrive Meotti, “ e` diventato dolorosamente quantificabile,
al punto che la progressiva decomposizione
degli stati-nazione occidentali e` oggi una
possibilita`. Il multiculturalismo – costruito su
uno sfondo di decadenza demografica, scristianizzazione
massiccia e di ripudio culturale – non
e` altro che una fase di transizione che rischia di
portare alla frammentazione dell’Occidente. Con
il crollo della Chiesa cattolica e i suoi pastori che
abbandonano le pecore, il ‘tradimento dei chierici’,
la distruzione della famiglia naturale, la fine
delle ideologie e un politicamente corretto che sta
facendo tabula rasa di qualsiasi riferimento culturale
rimasto, l’ondata di populismo in Occidente
non e` stato altro che una reazione a questo choc
di civilta`”.
Quanto potrà incidere il populismo nella speranza
di un’ inversione di tendenza? Credo niente.
Anzi, da quel che si capisce, sembra votato ad aggravare
il problema. Non ha ricette per opporsi alla
crisi, non ha orizzonti da indicare, non ha visioni
da proporre. È un grido. Dunque, non basta.