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Breve storia della deportazione dei carcerati in Australia

di Giandomenico Bardanzellu - 20/08/2007



La data del 26 gennaio è la festa nazionale australiana, l’«Australian Day». Negli ultimi anni, tuttavia, l’entusiasmo degli Australiani per la loro festa nazionale è andato scemando, fino a diventare quasi una fonte di imbarazzo. La ragione risiede nel fatto che il 26 gennaio 1788 la «First Fleet», una flotta di undici vascelli comandata dal Capitano Arthur Phillip della «Royal Navy» di re Giorgio III, sbarcava per la prima volta a Port Jackson (oggi Sydney) 736 forzati (548 maschi e 188 femmine), dopo avere attraversato due oceani in sette mesi di navigazione. Per gli uomini e le donne a bordo di quelle undici navi si trattava della fine di un viaggio allucinante, 48 condannati erano morti di stenti, di maltrattamenti e di scorbuto, ma per i sopravvissuti la vera tragedia doveva ancora cominciare. La destinazione era un continente agli antipodi, praticamente sconosciuto, a parte un tratto della costa orientale cartografato dal Capitano Cook nel 1770. Lo scopo di quel viaggio non era né scientifico né militare: era un’operazione penitenziaria di dimensioni planetarie in quanto il Parlamento Inglese aveva deciso che il «Continente Nuovissimo» avrebbe dovuto essere destinato a prigione. Nel 1818 si volle considerare tale evento come l’origine della nuova Colonia di Sua Maestà Britannica, e così il 26 gennaio, finì per diventare la data di nascita della Nazione Australiana e quindi giorno di Festa Nazionale.
Fino al 1867 l’Australia fu dunque sede di una delle più terribili colonie penali della storia. Con la deportazione dei condannati nel Continente, l’Inghilterra ha anticipato nel XIX secolo il terrore penale che nel corso del XX secolo sarebbe culminato nel sistema sovietico dei Gulag, con la deportazione dei «nemici del popolo» nello sterminato continente Siberia.
In quella remota parte del mondo situata nel Pacifico Meridionale si trova anche la Nuova Zelanda, che era a quell’epoca più conosciuta, esplorata e cartografata dell’Australia, ma la Nuova Zelanda non fu presa in considerazione dal Parlamento Inglese quale «prigione continentale» per i deportati. Ciò segnò un diverso corso per il successivo sviluppo dell’Australia e della Nuova Zelanda, che si riflette ancora oggi nella diversa tradizione storica e nell’uso della lingua inglese, che in Australia è inquinata dal gergo di basso livello dei deportati mentre è rimasta pressoché incontaminata in Nuova Zelanda.
La ragione della scelta a favore dell’Australia risiede nel fatto che qui gli Inglesi incontrarono una popolazione costituita da un’umanità fossile, il cui «sviluppo» si era arrestato da più di 30.000 anni. Si trattava degli attuali Aborigeni incapaci di qualsiasi progresso e tanto meno di qualsiasi resistenza organizzata contro gli invasori. In Nuova Zelanda invece gli Inglesi si erano imbattuti in una popolazione di guerrieri feroci e determinati, chiamati col generico nome di Maori. Un membro della spedizione di Cook ebbe infatti a scrivere che «i Maori si nutrono essenzialmente di pesci, di cani e di nemici».
Mentre in Australia non vi furono guerre coloniali contro gli Aborigeni, in Nuova Zelanda gli Inglesi dovettero combattere ben quattro guerre coloniali, note come le «New Zealand Wars». Alla fine i Maori furono sottomessi. La pace fu firmata col «Trattato di Waitangi» il 6 Febbraio 1840; il documento originale è esposto nel Museo Nazionale di Wellington. Anche se questa data è diventata la festa nazionale della Nuova Zelanda, le tensioni fra Maori e Inglesi non si sono mai sopite...

La deportazione quale pulizia etnica della «classe criminale»

Già nel 1597 una legge di Elisabetta I relativa alla punizione di criminali, vagabondi, mendicanti ecc. stabiliva «che tali esseri saranno banditi dal Regno e saranno trasportati in quei territori d’oltremare che saranno scelti dal Consiglio Privato della Corona». La stessa legge stabiliva che «nel caso uno di questi criminali dovesse senza permesso rientrare nel Regno, sarà impiccato».
Fin dal XVII secolo venivano condannati alla deportazione i colpevoli anche di delitti minori indipendentemente dal sesso e dall’età. Ad essi si aggiungevano i deportati per motivi politici, quasi esclusivamente Irlandesi. I luoghi di deportazione erano in America la Virginia, il Massachussets ed alcune isole caraibiche quali Barbados e Giamaica. Nelle piantagioni di zucchero venivano deportati principalmente gli Irlandesi che avevano osato resistere all’invasione da parte di Cromwell nel 1650. Per la sua ferocia e fanatismo religioso protestante, il «Lord Protettore» è ancora oggi ricordato in Irlanda con orrore e disgusto.
L’Inghilterra Georgiana non disponeva di un numero sufficiente di prigioni, e le deportazioni servivano anche ad alleviare questo problema. La prigione non aveva affatto l’obiettivo di migliorare, ed ancor meno di redimere il prigioniero. Le prigioni erano luoghi di pena, dove non esisteva neppure il lavoro, si trattava semplicemente di luoghi di «concentrazione di criminali». La deportazione era l’alternativa alla costruzione di nuove prigioni, raccomandata da rari e coraggiosi riformatori (come Howard, che scrisse nel 1777 «The State of the Prisons» paragonabile al nostro «Dei delitti e delle pene» di Beccaria). Ma il Primo Ministro di allora, William Pitt, dichiarò che c’erano «ben altre priorità». E ciò si può comprendere, perché una di tali priorità era la Rivoluzione Americana, che nel 1776 aveva portato all’indipendenza degli Stati Uniti. La giovane repubblica americana non voleva più ricevere i deportati di re Giorgio III, non per motivi umanitari o morali, ma perché già alla vigilia della Rivoluzione arrivavano in Nord America 47.000 schiavi negri all’anno, la cui mano d’opera era più che sufficiente per le esigenze di allora. Questi schiavi negri erano inoltre ben più mansueti dei criminali provenienti dall’Inghilterra e dall’Irlanda. Gli Stati Uniti, che erano già da allora la “lungimirante culla della Libertà e della Democrazia”, preferivano dunque servirsi degli schiavi negri anziché dei deportati inglesi. Per gli Inglesi il problema delle prigioni divenne così ancora più pressante...
Nella Londra di Giorgio III il numero dei condannati aumentava di più di mille unità all’anno, e ben presto neppure i «hulks», già stipati fino all’inverosimile da prigionieri in condizioni igieniche spaventose, furono più sufficienti ad accoglierli. Si imponeva una soluzione oltremare, diversa da quella «americana». Ma dove? Le conoscenze geografiche dell’epoca erano retaggio di pochissime persone, concentrate negli alti livelli della Royal Navy e del Parlamento... Ecco che quel tratto di costa selvaggia e misteriosa, scoperta e cartografata da un certo Capitano Cook nel 1770, era forse un lembo di inferno e si sarebbe prestato magnificamente nel subconscio collettivo inglese per deportarvi i prigionieri. E fu così che l’Inghilterra anticipò già nel XVIII secolo il modello penale della più vasta e terribile repressione del XX secolo: il Gulag. Il trasporto agli antipodi, messo in atto per circa 80 anni, di 160.000 persone che vennero sradicate e trasferite fu la più grande deportazione mai avvenuta in epoca pre-moderna, ed assegnò ad un intero continente, per la prima volta nella Storia, il funesto ruolo di prigione.

Il dramma del trasporto e l’impatto con gli Aborigeni

I deportati erano assoggettati durante il trasporto a condizioni spaventose. Essi erano stipati in grosse gabbie sistemate su vascelli che non erano affatto stati progettati per il trasporto di prigionieri. Le gabbie erano situate sotto i vari ponti e l’aria poteva giungervi solamente quando i boccaporti venivano aperti per alcune ore al giorno. In caso di tempeste o di pioggia restavano chiusi per giorni interi. In condizioni «normali» i detenuti avevano anelli alle caviglie attraverso i quali scorreva una catena per tutta la lunghezza della nave, come già in uso sulle navi negriere. La catena veniva ritirata per permettere le rare uscite sul ponte a piccoli gruppi. La minima infrazione veniva punita proibendo l’uscita sul ponte, od anche con la fustigazione, che diverrà poi l’abituale punizione nei luoghi di deportazione. Dai libri di bordo custoditi oggi negli archivi della Royal Navy risulta altresì la selvaggia promiscuità che si scatenava quando le donne venivano in coperta ed accoppiamenti improvvisi avevano luogo sia con i deportati che con l’equipaggio e persino con gli ufficiali...
Per gli Inglesi, sia deportati che funzionari, l’arrivo in Australia rappresentava la fine del mondo, ma per gli Aborigeni ne era il centro. Gli Aborigeni identificati semplicemente come «Indians» (Indiani) dagli Inglesi non mostravano nessuna curiosità verso gli immensi vascelli che cominciavano ad arrivare da un’altra parte del pianeta, a differenza dei Maori e di tutte le popolazioni del Pacifico che invece mostravano una stupefatta curiosità ed un interesse indicativo della loro intelligenza. L’accoglienza degli Aborigeni consisteva nell’agitare le lance ed i boomerang, nello scagliare sassi e nell’urlare «Uarra! Uarra!» che vuol dire «andate via!». In realtà questa razza antropologicamente in estinzione non rappresentò mai un pericolo per gli Inglesi, cosicché non vi furono mai guerre coloniali in Australia, a differenza di tutte le altre regioni dell’Empire. I rapporti erano improntati a disprezzo ed anche a ribrezzo a causa delle abitudini degli Aborigeni nel campo dell’igiene. Essi erano sempre circondati da nugoli di insetti, per proteggersi dai quali imparavano fin da bambini a ungersi il corpo con grassi animali, olio di pesce, ocra, sabbia e polvere, che infine si trasformava in una crosta rancida che non veniva più rimossa perché non si lavavano mai. Inoltre la sporcizia non doveva mai essere allontanata: era l’Aborigeno che si allontanava da essa. Ciò valeva anche per le necessità corporali, che venivano soddisfatte senza esitazioni in qualsiasi luogo. Questa «abitudine» praticata sui marciapiedi e sulle strade delle città che andavano via via sorgendo fu la causa non ultima della nascita delle riserve e delle ghettizzazioni nelle città. Ma lo sviluppo muscolare degli Aborigeni era ottimo e, poiché non c’era né zucchero né amido nella loro dieta, disponevano di una dentatura eccellente, a differenza di quella dei loro invasori...
Gli Aborigeni rappresentavano un incubo per i forzati perché gli Inglesi erano riusciti ad addestrarli a ricatturare i fuggiaschi, ed essi lo facevano con gusto. Per i forzati quindi essi rappresentavano l’estensione delle loro prigioni nell’immenso retroterra australiano, il terribile «outback». Numerosi fuggiaschi scampati ai serpenti, ai ragni, alla fame ed alla sete, furono ritrovati con i crani sfracellati dalle zagaglie o con i corpi perforati dalle lance degli Aborigeni. Gli stessi Inglesi in casi di dispute dovevano guardarsi dalle armi primitive che gli Aborigeni maneggiavano con grande destrezza: nel tempo necessario ad un soldato per ricaricare il moschetto l’Aborigeno poteva scagliargli addosso fino a quattro lance. Un pioniere fiducioso scriveva ancora nel 1849: «Ora nulla può più impedire l’estinzione della razza aborigena. La Provvidenza le permise di abitare questo territorio solo fino all’arrivo di una razza più evoluta».

L’occupazione della Tasmania e le colonie penali di «Macquarie Harbour» e di «Port Arthur»

Una storia a sé è costituita dall’occupazione inglese della Tasmania. Durante le guerre napoleoniche gli Inglesi paventavano l’occupazione da parte dei Francesi di luoghi strategici nel Pacifico, quali le coste meridionali dell’Australia e l’isola a sud di essa chiamata ancora Terra di Van Diemen, in seguito chiamata Vandemonian dai forzati. Il Governatore King dispose nel 1802 l’occupazione della Terra di Van Diemen, allora abitata da un imprecisato numero di Aborigeni, essendo impossibile stabilire quanti fossero quando l’invasione ebbe luogo. Quello che invece fu possibile stabilire è che dopo circa 70 anni non c’era più un solo aborigeno in Tasmania, perché vennero sistematicamente uccisi dagli Inglesi a colpi di fucile, come i canguri. Gli Inglesi eliminarono così una popolazione che abitava quelle terre da più di 30 mila anni. Si tratta dell’unico caso documentato di genocidio nella storia coloniale dell’Impero inglese. Ma non si trattò dell’unica barbarie commessa dagli Inglesi in Tasmania: su quella remotissima isola furono costruite due delle più orride colonie penali che il sistema penitenziario potè mai concepire: una fu adibita a luogo di punizione per reati commessi dai forzati già in cattività, come già si fece per l’isola di Norfolk e tale nuova località si chiamò Macquarie Harbour. L’altra prigione fu l’ultima costruita in Australia nell’era della deportazione e fu situata nella località chiamata Port Arthur.
Il Governatore della Tasmania aveva il rango di Vice-Governatore dell’Australia e godeva di larghissima autonomia, data anche la difficoltà delle comunicazioni fra la Tasmania ed il Continente.
... Quando la marea sale nella baia di Macquarie Harbour milioni di tonnellate d’acqua al minuto si rovesciano ribollendo fra le sue pareti rocciose per cui l’accesso prese il nome di «Porte dell’Inferno» (Hell’s Gates). All’epoca dei forzati il luogo era accessibile solo dal mare ed una nave impiegava circa 6 settimane per giungervi da Hobart dovendo attendere a volte un’altra settimana prima di poter entrare nella baia per scaricare il triste carico umano nell’unico approdo situato alla foce di un fiume. La baia è inoltre il luogo più piovoso di tutto il continente (240 cm di pioggia all’anno). La posizione di Macquarie Harbour dà l’idea di ciò che Sorell intendeva come «estremo esilio». I comandanti locali si occuparono di renderlo anche un luogo di «estrema punizione». Il gatto-a-nove-code da usarsi sulla pelle dei forzati a Macquarie Harbour era più robusto di quello usato a Hobart... Punizioni di cento colpi di «gatto» ad intervalli di mezzo minuto erano inflitte per ogni minima infrazione, e così via.
Il preciso e burocratico sistema penale inglese che tutto regolava e tutto registrava non permetteva tuttavia che sentenze di morte per impiccagione potessero avere luogo a Macquarie Harbour. Le impiccagioni potevano avere luogo solo a Hobart.
Le condizioni di vita a Macquarie Harbour erano tali per cui molti forzati preferivano la morte. I forzati si aggrappavano alla religione, cattolica o protestante che fosse, la quale però proibisce il suicidio e condanna all’inferno chi lo commette. Quelli che temevano Dio avevano escogitato un metodo agghiacciante per aggirare l’ostacolo religioso: due forzati tiravano a sorte chi avrebbe dovuto uccidere l’altro, cosicchè uno moriva, ma non andava all’inferno. L’altro sarebbe stato portato a Hobart, con ogni probabilità condannato all’impiccagione, ma esisteva anche una remota possibilità di farla franca o di confessarsi, e comunque di non andare all’inferno...
In tutti i luoghi di pena i rapporti omosessuali costituivano la regola e non l’eccezione. Ciò valeva anche per Macquarie Harbour. Era possibile barattare con i guardiani il condono di terribili punizioni contro concessioni di natura sessuale. Pertanto la sodomia sebbene esecrata ed illegale fuori dalle prigioni diveniva al loro interno uno strumento di ricatto e di minaccia per coloro che non volevano piegarsi ad essa. Ciò valeva nei confronti sia dei sorveglianti che dei compagni di pena. D’altro canto nascevano anche degli spontanei accoppiamenti fra forzati, con relative scene di gelosia nei casi di «adulterio» nonché di disperazione in caso di separazione forzata. Il disgusto per questi rapporti omosessuali caratterizza l’unica opera storico-letteraria dedicata a questo sordido argomento da un ex-forzato a nome Thomas Cook, che nel 1830 scrisse il libro «The Exile’s Lamentations» (I lamenti dell’esilio). Egli è indignato dell’uso strumentale che veniva fatto della sodomia in quell’inferno penale, in quanto «moltiplicava le ingiustizie del potere attraverso sadiche umiliazioni dei deboli o dei riluttanti»...
Macquarie Harbour non rimase aperto a lungo. Il successore di Sorell fu il Comandante Sir George Arthur, Governatore della Tasmania dal 1824 al 1836, forse la figura più controversa di tutta la storia penale d’Australia. Dopo avere combattuto contro Napoleone, iniziò una brillante carriera come sovrintendente di luoghi di pena in Honduras, una colonia inglese satura di schiavi, e quindi un’ottima scuola per sviluppare le qualità umane di Arthur. Aveva scoperto la sua vocazione. Era un fanatico religioso metodista che credeva di servire Dio e il Re attraverso il metodo che egli stesso definiva di «rigore illuminato». Sotto Arthur la Tasmania, pur essendo soltanto la provincia di una colonia, divenne uno stato poliziesco autocratico, caso unico nella storia dell’Impero Britannico... Nonostante gli orrori di Macquarie Harbour corrispondessero perfettamente al concetto di «rigore illuminato» di Arthur, la posizione geografica di quel luogo così difficilmente accessibile dal capoluogo Hobart rappresentava un inconveniente sul piano economico nonché sul piano psicologico degli addetti alla sorveglianza.
Arthur concepì allora nel 1824 la costruzione del primo vero penitenziario nel senso moderno della parola, in una località molto più vicina a Hobart, raggiungibile in breve tempo sia da terra che dal mare. Il luogo scelto fu la penisola detta di Tasman che si protende per un centinaio di chilometri a Sud-Est di Hobart. Questo nuovo insediamento penale divenne operativo nel 1830 e prese il nome di Port Arthur in onore del suo inventore. A Port Arthur avrebbero dovuto essere trasferiti poco alla volta i forzati di Macquarie Harbour, che venne in seguito definitivamente chiuso... Port Arthur fu un luogo di pena più moderno per quanto riguardava le celle, le cucine, le stanze dei soldati ecc., ma rimase ugualmente barbaro per ciò che riguardava le punizioni e gli strumenti di tortura. Port Arthur era presente nell’immaginazione popolare come l’emblema delle sofferenze della deportazione e anch’esso fu rapidamente battezzato «l’inferno in terra». Porth Arthur rimase in funzione fino al 1877, ossia ancora per dieci anni dopo che l’Inghilterra aveva cessato le deportazioni in Australia...

L’Isola
dei Morti

Per sarcasmo della sorte la fase più dignitosa in tutta la vita dei forzati di Port Arthur era costituita dalla loro morte. Essi venivano trasportati al cimitero situato su una piccola isola nel mezzo del golfo omonimo, che si chiama «Isle of the Dead» – l’Isola dei Morti... Un minuscolo molo permette di scendere a terra e quindi di inoltrarsi nello stretto sentiero fiancheggiato da alberi di alto fusto, da cespugli e da fiori profumati.
Si giunge infine ad una radura dalla quale spuntano lastre di pietre scure e semplici monumenti che poggiano su basamenti di granito. Su tutte queste lapidi sono incisi non solo i nomi, i luoghi e le date di nascita e di morte dei defunti, ma anche concise biografie, poesie ed epigrafi che ricordano lo strazio di una sepoltura agli antipodi del mondo, lontanissima dai luoghi di nascita in Inghilterra od in Irlanda. Dal 1877 l’Isola dei Morti non è più adibita a cimitero e dal 1937 è curata dal governo australiano come luogo di memoria storica dell’era dei forzati. Le tombe vengono periodicamente ripulite dall’aggressiva vegetazione che sempre tende a ricoprirle.
Il luogo è il muto testimone di terribili drammi umani, vissuti agli antipodi del nostro mondo, inflitti dagli Inglesi a mezzo del più feroce sistema penale di tutto il secolo XIX.

* * *
I precedenti degli Inglesi nel campo dei «diritti umani» spaziano dalla brutalità di Cromwell contro gli Irlandesi al genocidio degli Aborigeni in Tasmania, dalla sanguinosa repressione dell’insurrezione in India nel 1857 fino al bestiale trattamento inflitto ai Boeri nella guerra del Sud-Africa del 1899-1902. Si tralasciano molti orrori delle guerre coloniali nonché il trattamento riservato ai prigionieri Italiani in Kenya nel corso della Seconda Guerra Mondiale. Tutto ciò non impedì agli Inglesi nel 1946 di sedersi sui più alti scranni del Tribunale di Norimberga in veste di giudici nel processo contro la Nazione Tedesca.
Con stupefacente cinismo essi si permisero di condannare un’altra Nazione europea secondo il Capo d’Accusa No. 4, che includeva il genocidio ed il maltrattamento dei prigionieri, argomenti sui quali essi possedevano in verità tutta l’esperienza necessaria. In quella tragica farsa processuale si trovarono affiancati da altri ben noti campioni dei diritti umani, quali i Sovietici di Stalin, nel pieno regime dei Gulag e ancora freschi del massacro di Katyn attribuito ai Tedeschi, nonché dagli Americani, reduci dalle imprese di Hiroshima e Nagasaki, il cui Generale Eisenhower aveva appena portato a termine l’omicidio per fame e per stenti di circa un milione di prigionieri della Wehrmacht lasciati per un anno all’addiaccio in campi di concentramento all’aperto (si veda il libro del canadese James Bacque «Gli altri lager»).
Il quartetto dei vincitori condannò all’impiccagione i capi della Nazione sconfitta, accusandoli di delitti per i quali essi per primi avrebbero dovuto subire quella sorte.