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La conoscenza umana è, nella filosofia di Locke, una forma ingenua ma arrogante di realismo

di Francesco Lamendola - 03/02/2009

 


John Locke (1632-1704) è considerato, nella storia del pensiero occidentale, non solo uno dei massimi padri nobili del pensiero liberale, ma anche dell'empirismo; e, quindi, uno dei fondatori della modernità, così come noi oggi la conosciamo.
Le sue opere più importanti sono la "Epistola de tolerantia" (1689), il "Trattato del governo civile" (1689), il "Saggio sull'intelletto umano", generalmente considerato il suo capolavoro (1690), i  "Pensieri sull'educazione" (1693) e "La ragionevolezza del Cristianesimo" (1695).
Osservando le date, si vide immediatamente che le sue opere più importanti furono pubblicate in coincidenza con la Rivoluzione del 1688, che segnò l'avvento definitivo del parlamentarismo: sicché egli ebbe la sorte benevola di apparire come il profeta veritiero di un movimento progressivo e di veder realizzato il sistema politico-sociale da lui teorizzato: circostanza ben d rado verificatasi nella storia della filosofia.
Tutta l'opera di Locke si inscrive nella trasformazione storica vissuta dalla Gran Bretagna verso la fine del Seicento, proiettata, da un lato, verso la rapida, spregiudicata conquista del suo impero commerciale e coloniale, dall'altro verso l'evoluzione politica conseguente alla restaurazione della monarchia "liberale" e alla "Glorious Revolution" del 1688, culmine del parlamentarismo e del liberalismo.
È forse per questo che, nel clima ottimistico e quasi euforico vissuto dalla Gran Bretagna in quegli anni, le sue opere sono state enormemente sopravvalutate, conferendogli, nella storia del pensiero occidentale, un posto decisamente sproporzionato rispetto al valore intrinseco della sua filosofia; mentre pensatori di lui molto più grandi, ma che ebbero il torto di andare controcorrente - come Giovan Battista Vico, che pubblicò la sua geniale "Scienza Nuova" nel 1725, in pieno razionalismo di matrice cartesiana - passarono quasi inosservati davanti allo sguardo distratto dei propri contemporanei.

Sul terreno filosofico, il problema fondamentale di Locke si incentra nella critica del valore conoscitivo delle idee ("idea", cartesianamente, nel significato di "rappresentazione", ossia qualche cosa che esiste in quanto occupa la mente ed è pensata dalla mente).
Egli si propone di spazzar via dalla gnoseologia ogni residuo di nominalismo e di formalismo scolastico e di eliminare dalla psicologia ogni presupposto metafisico. Precorrendo Kant, sostiene che la filosofia deve smetterla di correre dietro all'impossibile, ossia di ricercare tutte le cause presenti nell'universo, e contentarsi di fare una sorta di ispezione preliminare delle nostre facoltà intellettive, "per esaminarne la portata e vedere a quali oggetti si possono applicare".
Per fare ciò, Locke parte dalla nozione di "idea", intesa nel senso cartesiano di "cogito": contenuto e rappresentazione della coscienza. E, per prima cosa, nega ogni forma di innatismo, affermando che possedere una idea e averne coscienza sono una sola e medesima cosa: appoggiandosi al magro argomento che gli idioti non giungono ad elaborare alcuna idea e che i bambini vi pervengono solo gradualmente e con una certa fatica.
Fin qui, Locke non fa altro che seguire le tracce di Cartesio: come per lui, la mente umana è una "tabula rasa", un foglio bianco, innanzi al fatto dell'esperienza; e si schiera contro Leibniz, il quale - precorrendo una nozione che oggi ci è tanto familiare quanto l'idea del sistema copernicano - aveva invece sostenuto che noi possediamo anche delle idee di cui la coscienza non giunge ad avere consapevolezza, cioè inconsce.
Anche la confutazione dell'argomento principe degli innatisti, ossia l'unanime consenso intorno a talune idee generali, ad esempio quelle morali, è piuttosto banale. Locke osserva che la morale cambia da luogo a luogo e da un'epoca all'altra, e che la stessa idea di Dio significa cosa diversissime in differenti ambiti culturali.
Qui, veramente, egli confonde due diversi ordini di ragionamenti: la discussione pro o contro l'innatismo e il significato da dare alle parole con le quali si designano le idee. Quando dice che gli uomini, intorno all'idea di Dio, concordano solo sul nome da dare a tale idea (cosa, peraltro, totalmente falsa: basti pensare alle differenze tra animismo, politeismo e monoteismo), sposta la discussione sul terreno del nominalismo, non dell'innatismo. Se fosse coerente con le proprie premesse, dovrebbe riconoscere che l'idea del divino è, effettivamente, innata, dato che si ritrova presso tutti i popoli e in tutte le diverse epoche della storia umana.
Poi si sceglie un altro bersaglio di comodo, le cosiddette idee evidenti (come lo sono alcune proprietà delle figure geometriche), per ribadire che la loro "evidenza" giunge come risultato di un ragionamento, per cui non le si può considerare affatto innate.
Già Platone, nel "Teeteto", aveva tentato di sostenere che i concetti della geometria sono innati, o meglio, che provengono dal ricordo di vite precedenti, nel corso delle quali l'anima ha potuto intravedere, qua e là, lembi dell'Iperuranio, acquisendo una conoscenza di origine non umana. Ma i suoi argomenti erano apparsi subito poco persuasivi e dettati dalla volontà di supportare la sua teoria generale della reminiscenza (cfr. il nostro saggio: "Introduzione alla filosofia di George Berkeley", sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Dunque, per Locke tutte le idee derivano dall'esperienza: o nella forma della "sensazione" (mediante il cosiddetto senso esterno) o nella forma della "riflessione" (per mezzo del senso interno). Sensazione e riflessione sono, pertanto, le forze generatrici delle idee semplici, che sono assolutamente eterogenee all'anima e irriducibili fra di loro.
D'altra parte, messo nella necessità di spiegare come l'anima, "tabula rasa", possa poi elaborare delle rappresentazioni a partire dal nulla, Locke se la cava affermando che, sì, non esistono oggetti pensati, e neppure pensabili, anteriormente all'esperienza; ma che l'anima possiede dei propri poteri originari, ovvero l'attitudine a compiere le operazioni dell'intelletto.
Stranissimo ragionamento: se l'anima è un foglio bianco al momento della nascita, come e dove imparerà a decodificare le sensazioni fornite dal senso esterno e le riflessioni che scaturiscono dal senso interno? Sarebbe come affermare che un uomo possiede l'attitudine a dipingere, senza aver mai visto un colore; o a comporre musica, senza aver udito un suono. Ma questo non significa reintrodurre dalla finestra l'idea, cacciata dalla porta,  di una facoltà innata, ossia di una "idea" capace di esser presente a se medesima?
Poi Locke distingue fra idee semplici e idee complesse: le prime, originate direttamente dall'esperienza; le seconde,  mediante una sintesi di quelle, operata dell'intelletto. Sono pertanto idee complesse quella di sostanza (qualcosa di concreto ed esistente di per sé), di modo (affezione della sostanza oppure concetto astratto di essa, come le qualità morali) e di relazione (maggiore o minore, simile o dissimile, e così via).
Oltre a combinare le idee semplici in modo da formare quelle complesse, l'intelletto può anche compiere l'astrazione o la generalizzazione di esse. Inoltre, mediante il linguaggio, può designare le idee generali servendosi di segni puramente arbitrari e convenzionali (e anche per questo verso, Locke formula una teoria linguistica che è stata ampiamente smentita e si mostra molto più incline a cercar di piegare i fatti al suo pregiudizio razionalistico, piuttosto che - coerentemente con il suo dichiarato empirismo - seguire la strada inversa, di partire dall'osservazione dei fatti per formulare poi una teoria generale (metodo induttivo).
Ma che cos'è, in ultima analisi, il fatto della conoscenza? Che cosa possiamo conoscere, effettivamente, per mezzo delle idee, e su quali fondamenti possiamo presumere che tale conoscenza sia veritiera?
Per Locke, le idee in se stesse non sono né vere, né false: l'unico possibile criterio di verità è la percezione dell'accordo o del disaccordo che la mente percepisce fra esse. Tale accordo, poi, può essere percepito in modo immediato ed evidente, cioè intuitivo, oppure in modo dimostrativo (come nel caso delle idee matematiche, giuridiche, morali, e simili).
Tuttavia, se la verità della nostra conoscenza deriva solo dalla coerenza fra le nostre idee, non si rischia - domanda Locke, col caratteristico spirito pratico della società mercantile del suo tempo - di cadere nel solipsismo, mettendo sullo stesso piano le fantasticherie di un visionario e le idee relative ad oggetti reali e a questioni serie? Eppure - egli prosegue -, noi sentiamo che una conoscenza, per essere vera, deve uscire dal soggettivismo di una coerenza tutta interna al mondo delle nostre idee; deve, cioè, mostrarci una corrispondenza, una conformità tra le idee e le cose reali.
È quasi inutile sottolineare come Locke, nel porsi questi interrogativi e nel cercare di risolverli (come si vedrà nel brano qui sotto riportato dalla sua opera maggiore - cade in una serie di deplorevoli approssimazioni concettuali e di inaccettabili semplificazioni.
In primo luogo: se noi conosciamo solo per mezzo dell'esperienza (sensazione e riflessione), come è possibile dire qualcosa delle cose in sé (il noumeno kantiano), delle quali mai potremo fare esperienza? Anzi, come possiamo arrischiarci a dire che esiste un mondo oggettivo delle cose, fuori della nostra esperienza e fuori della nostra mente?
È proprio Locke che, per ribadire che noi non possiamo accedere alla realtà delle cose in se stesse, afferma che l'idea di sostanza è, in realtà, una mera collezione di idee semplici coesistenti, le quali, a loro volta, si possono distinguere in qualità primarie (oggettive) e qualità secondarie (soggettive). Ora, se la mente conosce solo i fatti dell'esperienza, donde mai le potrà venire la conoscenza delle qualità primarie? Postulare l'esistenza delle qualità primarie non significa contraddire radicalmente tutto la teoria della conoscenza?
Questa sarà infatti la critica che muoverà Berkeley alla gnoseologia di Locke, mostrando che la distinzione tra qualità primarie e secondarie è fittizia; e che le qualità sono tutte secondarie, perché sono tutte soggettive, tutte esistono dentro la mente e non fuori di essa.
Ma andiamo avanti.
Per essere vera, la conoscenza deve evidenziare un accordo tra le cose "reali" e le nostre idee su di esse. Sorvoliamo sul concetto di cosa "reale" perché, se per reale si intende "esistente in se stessa", ciò significa che vi sono delle realtà fuori della nostra mente; ma allora come farà questa a conoscerle? Soffermiamoci invece sul concetto della conformità delle idee alle cose.
Locke risponde che noi possiamo constatare una tale conformità in tre casi: quando il nostro io la intuisce direttamente (come nel caso del pensare, soffrire, godere, dubitare: versione aggiornata ma non originale, quest'ultima, del "cogito" cartesiano); quando la possiamo dimostrare (come nel caso di Dio, cui Locke ricorre come al concetto di causa prima dell'esistente); quando la cogliamo per mezzo della sensazione.
D'altra parte - lo stesso Locke ne è consapevole - la sensazione ci dà bensì delle idee, ma non ci dà alcuna garanzia che esse concordino con le cose. Ad esempio, se io ora vedo un essere umano, non ho alcun diritto di inferire che egli, poi, continuerà ad esistere; che esista, cioè, in se stesso. Le sensazioni non danno altro che una certezza attuale: una certezza che dura finché dura la sensazione, e non oltre. Per tutto ciò che va oltre la sensazione, ossia per quel che riguarda la struttura permanente delle cose di cui facciamo esperienza, non possiamo avanzare che delle congetture, formulare delle opinioni.
Anche qui, però, Locke è stato al tempo stesso troppo audace e troppo timido. Se le sensazioni ci danno solo una certezza attuale, tanto vale dire che il principio di causa ed effetto va abolito e che noi diciamo che domani sorgerà il sole soltanto per forza di abitudine; ed è il passo che compierà Hume, trapassando dall'empirismo allo scetticismo; ma che Locke - rivoluzionario timido - non osa compiere.
Quanto agli altri due criteri di corrispondenza fra le cose e le idee, difficilmente si potrebbe immaginare qualcosa di meno filosofico dell'intuizione e della dimostrazione. Locke, cioè, pone, puramente e semplicemente, quel che dovrebbe almeno tentar di dimostrare.
Per quello che riguarda l'intuizione: chi mai potrà dire che il nostro gioire, soffrire, ecc. (per non dire del nostro pensare), ci diano una conoscenza immediata e veritiera delle cose? Ciò non è vero nemmeno per la sensazione (si pensi al daltonico che scambia un colore per un altro: tanto meno lo è per un atto così complesso e misterioso, così soggettivo, quale è l'intuizione.
Ammettiamo che io gioisca per aver trovato, sepolto sotto la sabbia, il baule contenente un tesoro: certamente proverò una gioia intuitiva: ma se in quel baule non ci fosse un bel nulla? O se, peggio, un insidioso nemico vi avesse posto un serpente velenoso? Eppure, secondo la teoria di Locke, la mia gioia intuitiva dovrebbe essere la garanzia di un accordo tra la mia idea (la gioia) e la cosa (il tesoro che dovrebbe esser contenuto nel baule).
Peggio che peggio quando si passa alla dimostrazione di Dio. Qui Locke, con la massima disinvoltura, tira fuori l'idea di Dio da non so quale cappello di prestigiatore (un vero e proprio "Dio tappabuchi", direbbe un seguace della moderna teologia negativa) per spiegare che, se qualcosa si è generata nel tempo, bisogna pure che esista qualche cosa di non generato, ossia di eterno, che l'abbia prodotta.
Oh, bella! Ma, allora, Dio sarebbe la sostanza per eccellenza; anzi, a ben guardare, l'unica vera sostanza in senso proprio (come voleva Spinoza). Ma Locke ha costruito tutta la sua teoria della conoscenza, anzi, tutta la sua filosofia, sul fondamento della inesistenza dell'idea di sostanza e sulla sua sostituzione con quella di "collezione" di idee semplici che coesistono costantemente, e che noi siamo portati a designare con un certo nome. Da dove salta fuori, allora, questa Sostanza con la "s" maiuscola, addirittura questa Super-sostanza, capace di spiegare tutto e di fondare tutto, sia le cose, sia le nostre idee sulle cose?
È difficile immaginare una incoerenza più macroscopica di questa.
Ancora una volta, Berkeley saprà trarre la dovuta conclusione dalle premesse di Locke e giungerà all'immaterialismo radicale, fondandolo sull'idea di uno Spirito infinito, Dio, dal quale noi, spiriti finiti, riceviamo l'idea delle cose materiali. Ma Berkeley potrà farlo in piena coerenza: poiché egli affermerà che "esse est percipi", i corpi sono in quanto vengono percepiti da una mente; ed è chiaro che una cosa del genere non la possono fare le menti finite, che non sarebbero in grado di fondare la propria conoscenza delle cose, ma solo una Mente infinita.
Questo, però, può dirlo Berkeley, che ha negato le qualità primarie e, con ciò, ogni idea di una realtà materiale separata dalla nostra mente; non Locke, che, distinguendo fra qualità primarie e secondarie, sembra ancora credere - peraltro, contraddicendosi - che le cose esistano in se stesse, fuori di noi e indipendentemente da noi. 

Nel libro quarto, capitolo quarto del "Saggio sull'intelletto umano", Locke affronta le possibili obiezioni al suo sistema della conoscenza umana e vi risponde in un modo che a lui sembra soddisfacente (da: Locke, "Saggio sull'intelligenza umana", a cura di Vittorio Sainati, Firenze, Le Monnier, 1958, pp. 136-140):

"1. Obiezione: le idee, nella teoria fin qui proposta, si sostituiscono indebitamente alla realtà come oggetto del conoscere. - Temo che il lettore, a questo punto, possa essere indotto a pensare che io sia stato finora a costruire un castello in aria, e voglia pertanto rivolgermi questo discorso:
"Dove mette capo tutta questa fatica? La conoscenza - voi dite - non è altro che la percezione dell'accordo o disaccordo fra le nostre idee: ma chi saprà mai che cosa sono queste idee? C'è forse qualcosa di più stravagante elle immaginazioni del cervello umano? Chi non ha qualche chimera per la testa? E se pur vi sia un uomo ragionevole e assennato, qual differenza vi sarà, in base alle regole da voi stabilite, tra la conoscenza sua e quella della più stravagante fantasia del mondo? L'una e l'altra hanno le loro idee, e ne percepiscono l'accordo e il disaccordo reciproco. Se una differenza ci sarà, il vantaggio sarà tutto dalla parte di chi ha la testa calda, perché, avendo idee più numerose e più vivaci, sarà, secondo le vostre regole, più ricco di conoscenze. Se è vero che ogni conoscenza consiste semplicemente nella percezione dell'accordo o disaccordo tra le nostre idee, le visioni di un fanatico e i ragionamenti di un uomo equilibrato godranno della medesima certezza. Non importerà sapere come, in realtà, le cose stiano: basterà che un uomo osservi l'accordo sussistente fra le sue immaginazioni, e lo rifletta nei suoi discorsi, per essere pienamente nella verità e nella certezza. I suoi castelli in aria saranno fortezze della verità non meno delle dimostrazioni di Euclide. Che un'arpia non sia un centauro sarà, in tal modo, una conoscenza altrettanto certa e vera quanto l'altra, che un quadrato non è un circolo. - Ma a che servirà tutta questa bella conoscenza delle immaginazioni umane per chi vada in cerca della realtà delle cose? Ciò che importa e dev'essere apprezzato non è la fantasia degli uomini, ma la conoscenza delle cose: questa sola dà valore ai nostri ragionamenti, e fa preferire la conoscenza di un uomo a quella di un altro, in quanto l'una sia, a differenza dell'altra, conoscenza delle cose quali sono realmente, e non già di sogni e fantasie."
2. Risposta: le idee, per esser valido oggetto dell'umana conoscenza, debbono essere conformi alla realtà delle cose.
A ciò rispondo che, se la nostra conoscenza delle idee avesse termine in esse e non andasse oltre, anche i nostri pensieri più seri varrebbero poco più dei sogni di un cervello pazzo; e le verità fondate su di essi non avrebbero maggior peso dei discorsi di un uomo che veda chiaramente delle cose in sogno, e ne parli con grande sicurezza. Ma, prima di concludere, io spero di mostrare che la certezza raggiunta mediante la conoscenza delle nostre idee va un po' più in là della semplice immaginazione: e allora si vedrà che tutta la certezza delle verità generali consiste per l'appunto in quella conoscenza.
In effetti, è evidente che lo spirito conosce le cose non già immediatamente, ma soltanto per tramite delle idee che ne ha. Perché la nostra conoscenza sia reale, bisogna dunque che sussista una conformità tra le nostre idee e la realtà delle cose. Ma quale sarà il criterio di tale conformità? Come potrà lo spirito, che percepisce soltanto le proprie idee, sapere ch'esse concordano con le cose stesse? Benché la questione non sembri facilmente risolubile, mi par tuttavia che vi siano due specie di idee, della cui concordanza con le cose possiamo esser ben certi.
La prima specie è quella delle idee semplici: le quali - non potendo lo spirito (come si vide) farsele in alcun modo da sé - debbono essere necessariamente prodotte dalle cose, che agiscono per vie naturali sullo spirito e vi fanno nascere quelle percezioni, che per la sapiente volontà del Creatore sono in grado di produrre. Così, l'idea di bianco o di amaro, quale è nello spirito, corrisponde esattamente al potere che un corpo ha di produrla, e possiede pertanto tutta la realistica conformità con le cose esteriori, che si richiede da essa. E tale conformità tra le nostre idee semplici e l'esistenza delle cose basta ad assicurare la realtà del conoscere.
La seconda specie comprende tutte le idee complesse, tranne quelle di sostanze. Si tratta infatti, in tal caso, di archetipi foggiati dallo spirito stesso, non destinati ad esser copie di alcunché, né riferibili all'esistenza di qualche cosa che si possa considerare come loro modello originale. Come tali, essi non possono mancare di quella conformità, ch'è necessaria perché la conoscenza sia reale: giacché ciò che non è chiamato a rappresentare altro da se stesso, non può dar mai luogo a errori di rappresentazione.
3. La problematica conformità delle idee di sostanze alla realtà delle cose. - C'è, invero, un'altra specie di idee complesse, le quali,  in quanto si riferiscono ad archetipi esteriori, possono differire da questi, sì da far risultare priva di realtà la conoscenza ad esse relativa. Si tratta delle idee di sostanze: le quali, consistendo in una collezione di idee semplici che si suppongono derivate dalle cose della natura, possono tuttavia differire da queste, quando riuniscono in sé idee quantitativamente o qualitativamente diverse da quelle che si trovano effettivamente unite nelle cose. Per questo può accadere, e spesso accade, che tali idee non siano esattamente conformi alle cose in sé.
In realtà, se ci si vuol procurare idee di sostanze conformi alle cose e capaci pertanto di fornirci una conoscenza reale, non basta, come nei modi, unire insieme idee reciprocamente compatibili, e tuttavia di fatto inesistenti in tale unione. Al contrario,  poiché si suppone che le idee di sostanze siano copie di archetipi esteriori, cui si riferiscano, si dovrà derivarle da qualcosa di effettivamente esistente, anziché farle consistere in idee messe insieme a piacere dal pensiero (sia pure in maniera coerente), senza un reale modello originale. La ragione di ciò sta nel fatto che noi non conosciamo la reale costituzione delle sostanze, dalla quale dipendono le nostre idee semplici, e che è la sola causa  effettiva della stretta unione reciproca di alcune di esse ad esclusione di altre: sì che ben di rado possiamo sapere con certezza, se non ci soccorrono l'esperienza e l'osservazione sensibile, quali di queste idee siano incompatibili in natura e quali no. Pertanto, la nostra conoscenza relativa alle sostanze sarà reale solo a condizione che tutte le idee complesse, che di esse ci formiamo, siano costituite di idee semplici riconosciute come già coesistenti in natura.
In conclusione, dovunque percepiamo l'accordo o il disaccordo tra le nostre idee, c'è conoscenza certa; e dovunque possiamo esser sicuri che tali idee concordano con la realtà delle cose, ivi è conoscenza certa e reale."

Molte altre cose vi sarebbero da dire a proposito delle aporie e delle insufficienze della gnoseologia lockiana; ma ci sembra che il lettore, dopo aver preso visione degli argomenti addotti da Locke, possa giudicare da sé del valore di una tale filosofia.
Su due ultimi punti, soltanto, vorremmo indugiare ancora un poco.
Il primo è l'affermazione che "l'idea di bianco o di amaro, quale è nello spirito, corrisponde esattamente al potere che un corpo ha di produrla, e possiede pertanto tutta la realistica conformità con le cose esteriori, che si richiede da essa". Abbiamo già accennato al caso del daltonico; ma potremmo parlare di qualunque alterazione della sensibilità. Al palato del malato, una bevanda dolce può risultare amara, e viceversa; e tutti conoscono l'esperimento di immergere le mani, alternativamente, in un recipiente di acqua fredda e in uno di acqua calda, fino a non essere più in grado di "riconoscere", in maniera obiettiva, la loro temperatura.
Dunque, non è affatto vero che esiste una realistica conformità tra le nostre idee e le cose esteriori: al contrario, tale conformità è la cosa più soggettiva che si possa immaginare.
Lo steso Locke deve essersene reso conto, perché trae la conclusione che "tale conformità tra le nostre idee semplici e l'esistenza delle cose basta ad assicurare la realtà del conoscere". Si badi: della realtà del conoscere, non della realtà del reale. Come dire che si resta all'interno del circolo vizioso del solipsismo: noi potremmo anche essere perfettamente convinti della realtà di una certa cosa, e invece ingannarci completamente.
Ma allora, resta la domanda: che razza di valore avrà mai una conoscenza del genere; una conoscenza, cioè, che accorda fra loro non le nostre idee e le cose, ma soltanto le idee  che noi ci  formiamo di esse?
La seconda e ultima cosa su cui vogliamo soffermarci concerne il timore scandalizzato di Locke che "i castelli in aria" di un visionario o di un fanatico "saranno fortezze della verità non meno delle dimostrazioni di Euclide"; o l'affermazione "che un'arpia non sia un centauro" possa apparire come "una conoscenza altrettanto certa e vera quanto l'altra, che un quadrato non è un circolo
Per poi consolarsi prontamente con l'affermazione, filosoficamente gratuita, che "ciò che importa e dev'essere apprezzato non è la fantasia degli uomini, ma la conoscenza delle cose: questa sola dà valore ai nostri ragionamenti, e fa preferire la conoscenza di un uomo a quella di un altro, in quanto l'una sia, a differenza dell'altra, conoscenza delle cose quali sono realmente, e non già di sogni e fantasie".
Da qui all'arroganza iconoclasta di Hume, non c'è che un passo. Hume, infatti, si spingerà a dire, sulle tracce di Locke, a conclusione della sua "Ricerca sull'intelletto umano" (titolo originale: "An Enquiry concerning Human Understanding", 1748; traduzione italiana di Mario Dal Pra, Laterza Editore, Roma, 1957, 1996, pp. 261), scriveva:

"Quando scorriamo i libri di una biblioteca, persuasi di questi principi, che cosa dobbiamo distruggere? Se ci viene alle mani qualche volume, per esempio di teologia o di metafisica scolastica, domandiamoci: Contiene qualche ragionamento astratto sulla quantità e sui numeri? No. Contiene qualche ragionamento sperimentale su questioni di fatti e di esistenza? No. E allora, gettiamolo nel fuoco, perché non contiene che sofisticherie e inganni."

Non male, per i filosofi della tolleranza e del liberalismo.
Del resto, ne abbiamo già parlato nel precedente articolo "Lo scientismo intollerante della filosofia di Hume come rogo non metaforico dell'uomo spirituale" (sempre consultabile sul sito di Arianna Editrice).
Ma, tornando all'atteggiamento di Locke verso i "sogni dei visionari", è proprio il caso di dire che Dio ha negato a uomini del suo tipo il piacere di apprezzare l'arte, la fantasia, la bellezza. Ci sembra di vederlo, armato della sua piccola ragione strumentale e calcolante, dimostrare che Dante non può aver compiuto il viaggio nei tre regni dell'Oltretomba in una settimana soltanto, perché gli ci sarebbe voluto un tempo molto maggiore; o che Don Chisciotte non può essere stato sollevato dalle pale del mulino a vento insieme al suo cavallo, perché ciò contrasta con la legge di gravità; o che Ivan Karamazov non può aver visto il diavolo, perché il diavolo non esiste…
Già: uomini come Locke non sanno che farsene di sogni e fantasie.
Il guaio è che uomini come lui hanno preso la direzione del mondo e, dall'alto di un apparato tecnoscientifico onnipervasivo e totalitario, stanno realmente cacciando fuori dal quadro della nostra esistenza tutto ciò che, ai loro occhi, appare come semplice sogno o fantasia.
Con tutto rispetto per il sogno che, Locke permettendo, non è certo un elemento insignificante della nostra vita, né un puro capriccio della nostra coscienza addormentata.
Cosa che gli esseri umani, tanto quelli "evoluti" come i "primitivi", hanno sempre saputo perfettamente; ma che poi, con l'avvento del razionalismo, dell'empirismo e dell'utilitarismo del tipo umano rappresentato da John Locke, hanno finito per dimenticare…