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La durezza di cuore, male dell'anima che non ha timor di Dio né rispetto per l'uomo

di Francesco Lamendola - 07/05/2009


C'è una pagina di San Bernardo di Clairvaux che sembra attagliarsi perfettamente alla condizione dell'uomo moderno, benché sia stata scritta in pieno XII secolo, e che qui ci piace riportare (da: «La considerazione a Eugenio papa», libro I, 3 passim; citato in Pierre Riché, «San Bernardo. Una vita in breve» (titolo originale: «Petite vie de saint Bernard», Paris, 1989; traduzione italiana delle Monache Benedettine dell'Abbazia Mater Ecclesiae sull'Isola San Giulio, Novara, Edizioni Paoline, 1992, p.100):

«(È cosa terribile) lasciarsi trascinare e condurre (dalle troppe occupazioni), un passo dopo l'altro, là dove tu non vuoi. Mi domandi dove? Ti rispondo: alla durezza di cuore. […] Chi ha un cuore duro non ha orrore di se stesso, perché ha perso ogni sensibilità. […] Nessun uomo indurito nel cuore ha mai raggiunto la salvezza,  a meno che Iddio misericordioso, come dice il profeta, non gli abbia strappato il cuore di pietra e gli abbia dato un cuore di carne. Che cos'è dunque un cuore di pietra? È quello che non s'incrina per la compunzione, non s'addolcisce nella pietà, non si commuove alla preghiera; questo cuore non si piega alle minacce e s'irrigidisce sotto la sferza. Non serba riconoscenza per i benefici, è recalcitrante ai consigli, è spietato nei giudizi, è sfacciato nelle turpitudini, è spavaldo nei pericoli, è insensibile con gli uomini e temerario con Dio; dimentica il passato, trascura il presente, non provvede al futuro: del passato ricorda solo le ingiurie, del presente non gli interessa nulla, e del futuro gli preme solo la prospettiva o la preparazione di qualche vendetta. E per riassumere in poche parole tutti i danni di questo orribile male, dirò che un cuore duro non teme Dio né rispetta l'uomo. Ecco dove ti possono trascinare queste maledette occupazioni, se continui a perderti in esse  […] nulla lasciando di te a te stesso.»

Noi moderni non chiamiamo questo male dell'anima con le parole di san Bernardo, «durezza di cuore»; lo chiamiamo «essere molto occupati», «essere troppo presi dal lavoro»; e non lo consideriamo affatto un male dell'anima, anzi, in genere lo riguardiamo con una punta di malcelato orgoglio, sottintendendo che siamo molto bravi a occuparci di così tante cose; di agire come se, per noi, la giornata non avesse ventiquattro ore, ma quarantotto, o di più ancora.
Jean Paul Sartre, che era un cattivo maestro ma anche, certamente, un uomo intelligente, osservava che «molti vivono a loro insaputa, la loro vita scorre come in un tubo»; e il filosofo William James faceva questa lapidaria riflessione: «Tutti muoiono, ma pochi vivono».
Ora, l'analisi di san Bernardo ci fornisce una chiave per interpretare questo strano e angosciante fenomeno, della vita che scorre senza consapevolezza; delle persone - sempre più numerose - le quali non si rendono neppure conto di chiudere la propria anima a tutte le sollecitazioni positive della vita, impegnate come sono a servire un disegno di superlavoro mediante il quale si illudono di dominare la situazione, di affermarsi nella società, conquistando posizioni di preminenza:  economiche, politiche o d'altro tipo.
Addirittura, la frenesia del superlavoro si è diffusa anche fra gli strati intermedi della società e, in certi casi, fra quelli più modesti, e non è più appannaggio solo dei ceti elevati; esattamente come è avvenuto per la smania consumista, la quale miete ormai le sue vittime, indifferentemente, tanto fra i membri delle classi superiori, quanto fra le fasce sociali medie e medio-basse, e perfino nel sottoproletariato. Il simbolo eloquente di quest'ultima casistica è l'antenna parabolica della televisione che svetta al di sopra del tetto di lamiera di una baracca trogloditica della periferia urbana; oppure il piccolo mendicante di un villaggio marocchino che rifiuta  da un turista occidentale il regalo di generi alimentari, ma chiede insistentemente, e quasi pretende, gomma da masticare o lattine di Coca-Cola.
L'ansia di fare è contenuta, in germe, già negli esordi della civiltà occidentale; sia i Greci, tuttavia, sia la cultura cristiana, hanno saputo tenerla a bada, poiché entrambi possedevano in grado eminente, e sia pure in forme assai diverse, il senso del limite e il senso del mistero, antidoto naturale alla sopravvalutazione dell'agire umano.
È stato con la svolta della modernità, che si colloca non tanto all'epoca del Rinascimento, ma in quella della Rivoluzione scientifica del XVIII secolo, che sono cadute le ultime barriere e l'uomo faustiano, demonico, gonfio di orgoglio, non più trattenuto dal senso della trascendenza e dalla consapevolezza della propria fragilità, ha eretto l'attivismo sfrenato e il pragmatismo becero a sistema di vita, escludendone gradualmente - di fatto, se non di diritto - tanto il timore di Dio, quanto il rispetto dovuto al suo prossimo.
Ma l'immersione totale nel fare, la dispersione nel quotidiano, hanno quale inevitabile risultato - come ammonisce san Bernardo e, prima di lui, il profeta Ezechiele - l'indurimento del cuore e la perdita dell'anima a se stessa. Quel che si guadagna all'esterno, lo si perde all'interno; e tanto si costruisce fuori di sé, quanto si smarrisce della propria essenza più profonda, della propria autentica umanità.
Ne consegue quell'indurimento del cuore che, nell'ottica cristiana, è il peccato numero uno; mentre, per la mentalità moderna, non solo non è un peccato - del resto, la modernità ha abolito la categoria del peccato, così come ha soppresso il concetto di anima - ma è, al contrario, un qualcosa di cui vantarsi, un segno della propria vitalità e della propria intraprendenza.
Avere un cuore di pietra; sopprimere il proprio cuore di carne e sostituirlo con un cuore di pietra: ecco il peccato che l'uomo commette contro se stesso, contro Dio e contro il prossimo: e lo commette immergendosi nelle mille occupazioni che non gli lasciano più il tempo e il modo di vedere la bellezza del mondo, di dedicarsi agli affetti disinteressati, di coltivare la propria anima e di evolvere verso la luce della verità.
Nella profezia di Ezechiele (36, 25-27; traduzione della Bibbia di Gerusalemme), lo stesso Yahwé dice agli uomini:

«… Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; io vi purificherò da tutte le vostre sozzure e da tutti i vostri idoli; vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo i miei statuti e vi farò osservare e mettere in pratica le mie leggi…»

Ma l'uomo post-moderno, quello che altrove abbiamo definito il QUARTO UOMO (cfr. il nostro precedente articolo «L'uomo post-moderno è il figlio della dilatazione illimitata del desiderio», consultabile sul sito di Arianna Editrice), desidera ritrovare il proprio cuore di carne - un cuore di carne, che sente - o preferisce mantenere il cuore di pietra, duro e insensibile?
Ci sono dei vantaggi, e sia pure dei vantaggi perversi, nel possedere un cuore di pietra, anziché un core di carne; e questa è la ragione per cui non è facile rispondere affermativamente alla  domanda che abbiamo formulato.
Un vantaggio è che non si corre il rischio di esporsi alle ferite, alle delusioni, all'ingratitudine e al tradimento di coloro ai quali si apre il proprio cuore; un altro, è che non si viene trattenuti da troppi scrupoli morali nel perseguimento dei propri obiettivi; un altro ancora è che non si deve rendere conto a nessuno, e nemmeno alla propria coscienza, delle azioni meschine o ciniche o cattive,  commesse a danno degli altri.
Certo, a ben guardare, ciascuno di questi vantaggi è controbilanciato da pesanti effetti negativi: il non fidarsi di nessuno preserva dalle delusioni, ma rende impossibili le autentiche gioie della vita affettiva; la mancanza di scrupoli agevola sul piano pratico, ma porta a un isolamento sempre maggiore, perché suscita il timore o la diffidenza altrui; infine, il non dover rendere conto agli altri predispone al delirio di onnipotenza, e il non dover rendere conto a se stessi sprofonda l'anima sempre di più in un pozzo oscuro, dal quale sarà poi difficilissimo risalire.
In genere, si arriva all'indurimento di cuore attraverso un itinerario che procede per gradi, giorno dopo giorno, le cui tappe possono essere così ravvicinate, da dar quasi l'illusione che non sia  avvenuto proprio niente di speciale, e che la vita di quella tale persona proceda in modo assolutamente normale e abitudinario.
Si incomincia con dei comportamenti che non appaiono affatto disdicevoli; e, mano a mano che l'indurimento del cuore aumenta, sotto la pressione dell'eccesso di lavoro e di attività d'ogni genere, la persona che ne è protagonista tende ad autogiustificarsi - se pure è consapevole di quanto sta accadendo - con la motivazione che le cose da fare sono tante, e tutte necessarie: e magari potesse farne a meno, trascurarne qualcuna; ma purtroppo…
Quello che gli altri notano, e per primi coloro che le vivono accanto, non è tanto una riduzione quantitativa del tempo in cui ella è presente per loro, quanto una riduzione qualitativa di esso; una diminuzione, cioè, della sua disponibilità affettiva: perché il primo effetto negativo dell'eccesso di attività è quello di ottundere la sensibilità affettiva e di suggerire istintivamente una visione mercificata del tempo.
I primi ad accorgersi del cambiamento - se di un cambiamento si tratta, e non di un comportamento abituale - saranno i bambini, per i quali il padre o la madre non troveranno più neppure quei pochi minuti, alla sera, per sedersi ai bordi del lettino e raccontare una fiaba; poi il compagno o la compagna di vita, cui verranno a mancare quelle piccole attenzioni che non richiedono tempo ma, appunto, disponibilità affettuosa e consapevolezza; indi i genitori, specie se anziani e soli; infine gli amici.
Mano a mano che il cuore si indurisce, la persona tende a disumanizzarsi, in genere senza rendersene conto. All'amico che ha dovuto affrontare una prova difficile, dirà, incontrandolo per caso: «Sai, ti ho pensato tanto; ti volevo anche telefonare: ma sono stato così occupato, capisci, così occupato…»; e al figlioletto, che ha atteso invano di vedere  il genitore al saggio di pianoforte, o di ginnastica artistica, o d pattinaggio, dirà: «Mi dispiace tanto, piccolo; ero davvero troppo pieno di lavoro, me ne sono proprio dimenticato; ma vedrai che saprò farmi perdonare. Cosa mi dici di quel bel giocattolo, di cui mi parlavi l'altro giorno? Lo desideri ancora?».
Come se un regalo, per quanto costoso, potesse sostituire la presenza del padre o della madre in un momento importante della vita del figlio (e a prescindere da certe esagerazioni consumistiche, che rendono il regalo un vero e proprio obbligo sociale, ma sostanzialmente staccato da un autentico dialogo e da una relazione affettiva profonda tra genitore e figlio).
In breve, l'uomo o la donna dal cuore di pietra procedono per la propria strada, come una monade isolata e chiusa in sé, senza rendersi conto di quanto il loro modo di fare incrini e danneggi irrimediabilmente la qualità dei loro rapporti con l'altro, di quanto offuschi la bellezza del mondo e di quanto intorbidi la consapevolezza di se stessi.
Abbiamo detto che all'indurimento del cuore si arriva, generalmente, per gradi. Ciò significa che, per evitarlo, è necessario conservare la sana abitudine a una visione qualitativa e, nei limiti del possibile, disinteressata del proprio tempo; al dialogo quotidiano con la propria anima; alla attenzione nei confronti del prossimo, che non può essere fatta di buone intenzioni, ma deve tradursi in atti e comportamenti concreti; infine, per chi ci crede - ma, a nostro avviso, si tratta della cosa più importante di tutte - a un colloquio incessante con ciò che sta al di sopra noi: con l'Essere da cui proveniamo e verso il quale siamo diretti.
Se, tuttavia, nonostante le buone abitudini e le rette intenzioni, una persona si lascia attirare inavvertitamente nel meccanismo perverso dell'indurimento del cuore, non esiste via d'uscita che non passi attraverso un radicale ripensamento del proprio stile di vita, ciò che in termini religiosi si chiama, propriamente, conversione: il che avviene quando la creatura umana, riconoscendosi fragile e inadeguata, si spoglia dell'orgoglio faustiano e si abbandona con fiducia nel grembo dell'Essere.