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Farmaci, psiche e società…

di Emanuele Liut - 23/06/2009

L’ “aspetto psicologico” sta assumendo nella società occidentale contemporanea, in misura verticale, una rilevanza che non ha pari storicamente parlando. Sebbene questo aspetto sia intrinseco alla storia dell’uomo, perlomeno dal momento in cui egli ha tentato di porre delle basi “razionali” all’assetto del vivere sociale, e cioè in diversi modi da sempre, essendo l’uomo, come lo definì Aristotele, il cosiddetto “animale sociale” per eccellenza; tuttavia, il fattore psicologico ha assunto una peculiarità unica nella società contemporanea la quale, schiava psicologicamente del tempo, ne è con ciò priva per una sana riflessione su se stessa.

Il punto cruciale che la differenzia in questo problema da altre epoche è il fatto che i modi dell’assoggettamento, storicamente trasversali, hanno al giorno d’oggi raggiunto una consapevolezza senza pari della loro natura prettamente psicologica. Con l’avvento degli strumenti di massa moderni, siano essi informatici, farmacologici, mediatici, finanziari uniti in un unicum inestricabile -e con il loro utilizzo sulle masse in maniera sempre più capillare e molte volte, almeno apparentemente, invisibile - il potere(sempre che si possa per davvero definire tale data la confusione che determina) ha finito per adottare delle tecniche che, finché possibile, se pur paiono rimandare più al persuasivo che al repressivo, non sono meno cruente e subdole.

Questo “movimento psico-sociale” non credo sia solo da intendere in maniera verticale ma ha assunto una certa valenza anche orizzontalmente, nei rapporti interpersonali più semplici come il rapporto uomo-donna, che per questo motivo ha finito per complicarsi in maniera sterile, sfociando nella banalità (rappresentata nell’ambito sessuale dalla pornografia).

Semplificando, esso è parte di tutti coloro che, in maniera più o meno positiva, riescono a capire “la differenza tra ciò che si pensa e ciò che si dice” e a trarne così “un vantaggio” - anche se il vero vantaggio è solo di chi comanda questa specie di “anarchia controllata” (Nietzsche la chiama “coniando un brutto termine per una cosa brutta”: misarchia).

Credo che questo aspetto sia tanto evidente, tanto quanto il disagio sociale che respiriamo ogni giorno semplicemente salendo nei mezzi pubblici di una grande città la mattina presto e osservando i “musi spenti” attorno a noi. Cercando di non farci influenzare dalla somma tristezza che nolenti ci avvolge, ci sentiamo soli e cerchiamo di non cadere in ciò che Nietzsche definì nello Zarathustra “l’ultimo grande peccato”: la compassione. . .

Questo individualismo, che è paradossalmente correlato ad un inestricabile “sentimento di appartenenza al gregge”, a causa della non-accettazione della solitudine congenita all’uomo come singolo in quanto tale, porta necessariamente l’uomo verso un’eccessiva intellettualizzazione dei problemi che l’esistere quotidiano gli pone, tutto ciò “avvantaggiato” da una realtà virtuale ad arte mal concepita (fuga dal reale, identità “internettiana”, conseguente depersonalizzazione).

E’ di conseguenza qualcosa di estremamente contemporaneo il fatto che la quotidianità, in tutte le sue sfaccettature e nei suoi spigoli, sia vissuta pigramente dalla maggior parte delle persone come problema non da risolvere ma da rimandare..

Prendiamo come esempio la questione del lavoro: la perdita di dignità, la scarsa creatività che la mercificazione di massa ha prodotto, da attività centrale e nobilissima par excèllence dell’uomo lo ha portato sempre più ad essere un problema da superare a livello di tempo vissuto, per fini miseramente finanziari: un modo per “arrivare alle 17.30″, al fine settimana o alle agognate ferie il più presto possibile; quest’ultime, ormai abituati alla routine dell’ attività macchinale, finiscono per essere un noioso spendere tempo e denaro, e gu(a)starsi per quel poco di essere, almeno apparentemente, dall’altra parte dell’apparato produttivo e scaricare su questo, in un circolo vizioso, le proprie insoddisfazioni: lo si chieda alla capacità di sopportazione di chi lavora nell’ostelleria e ristorazione; chi ha lavorato nei centri turistici di massa ne sa certamente qualcosa.

In guisa contraria, ma inestricabile, l’altro lato della medaglia: il lavoro come ossessività del successo, rinunciando con ciò alla vita e ai suoi piaceri nel momento stesso in cui si credono raggiunti.

Malattie psicologiche e farmacologia

mentalfatigue_fondo-magazineUno dei grandi sintomi, preoccupante, del disagio, è il crescente commercio di antidepressivi e ansiolitici, il cui uso pare in Italia aver raggiunto stime preoccupanti, tanto che le assunzioni di questi farmaci si stima siano triplicate nell’arco temporale 1999-2006.

Queste “droghe legali” hanno naturalmente un buiseness ultra-milionario. Appoggiato, com’è prassi, da un sempre più forte apparato di medici (non solo specialisti ed è questo uno tra i drammi…) che -nell’ignorante ottica di risolvere facilmente i problemi di depressione oppure per favorire spudoratamente una data casa farmaceutica- prescrivono questi farmaci con una semplicità disarmante.

Per questi problemi insomma, di stampo prettamente “socio-mentale”, la psichiatria è passata, nella sua parte dominante, dall’esserne una possibile soluzione a una delle cause principali del problema.

Nello stesso rapporto sta l’apparato poliziesco repressivo con la criminalità, il quale ha in un certo senso “bisogno dei criminali” per mantenere la sua validità ma finendone infine per adottarne i metodi se non confondendosi infine con essa. Ci verrà qui in mente l’ottimo G.M. Volontè in “Indagine su un cittadino sopra ogni sospetto”. Ma soprattutto sarà istruttivo a riguardo rileggere alcuni passi de la “Genealogia della morale” di Nietzsche: sinteticamente, la paura di ciò che è male, l’”infrollimento dell’uomo moderno”, ha creato un altro male chiamandolo “bene”, di derivazione ben poco aristocratica ma bensì considerato prodotto del gregge come autodifesa dai più forti.

E paradossalmente, sono oggi proprio i più dotati, causa l’egualitarismo buonista imperante, ad essere emarginati e quindi, con ciò, maggiormente soggetti a depressione e simili. . .si veda a riguardo l’edificante articolo del prof. Peyrani che cito nel proseguo.

Ad ogni modo: l’ansia, da stato d’animo naturale o risposta fisiologica dell’organismo a una data situazione, è finita per diventare, in questa società del (falso) “sorriso sempre e comunque”, una malattia da curare farmacologicamente: una paura che i condizionamenti dettati dalle falsità cui siamo soggetti, a livello individuale e generale, ha cessato di avere la sua funzione e si presenta senza alcun motivo, anche in maniera estremamente patologica come, emblematicamente, nei cosiddetti “attacchi di panico”, patologia in aumento spaventoso. L’individuo entra così in un turbine di paura. apparentemente ingiustificata, che genera paura e senso di colpa verso la situazione in cui si trova “inspiegabilmente”.

Gli U.S.A., che seguiamo purtroppo come cagnolini, hanno una situazione ancor più grave, data l’assenza di una vera tradizione. Gli americani, grandissimi consumatori di “pasticche della felicità”(artificiale) dalle forme graziosamente colorate (testati inizialmente sui topi e poi direttamente immessi nel mercato senza alcuna precauzione) hanno provato col sangue gli effetti nefasti di un utilizzo senza senno di questi farmaci, a tutti i livelli di età, anche infantile.

Pensiamo in primo luogo al famigerato e tristemente famoso “Ritalin”, prescritto ai piccoli scolari a discrezione del medico quand’egli identificava dei disturbi di attenzione, senz’altro presenti nella gran parte dei bambini di oggi ma solo fantasiosamente catalogati come disturbo da curare con i farmaci. Come dimostrato poi da diversi documentari, i giovani assassini della Columbine e degli altri tetri “omicidi scolastici” degli ultimi anni erano tutti da lungo tempo in cura con diversi tipi di antidepressivi che, c’è da scommetterci, molti tossicodipendenti utilizzerebbero volentieri a “scopo ludico”. . .

Per non parlare dei numerosi tentativi, riusciti o meno, di suicidi adolescenziali. Naturalmente, per produrre questi effetti si deve legare all’utilizzo delle droghe suddette delle derive ideologiche di stampo “nazist-americano” e militare, ad ogni modo fanatico: conseguenza della solitudine condita da “incubi hollywoodiani” in cui imperversano i soggetti in questione.

Ad ogni modo, se è quindi indubbio che queste malattie esistano e siano in maniera diversa trasversali alla storia, intese in un senso più umano come ‘male di vivere’, nocciolo stesso dell’esistenza o anche dell’indagine filosofica (pensiamo al valore decisivo dell’angoscia in Heidegger o ai dubbi teologici di Pascal), è altrettanto chiaro che al giorno d’oggi esse sono tra i prodotti meglio riusciti di questa società pseudo-globalizzata la quale, sradicando le culture, ha finito per mercificare ogni cosa, dal lavoro all’amore.

Una delle ragioni va trovata nel fatto per cui, con l’indebolirsi della credenza nel dio oppiaceo del cristianesimo e simili (o dell’innalzarsi di suoi veri e propri simulacri - già essendo poi il cristianesimo, di per sé tale) e delle credenze ad esso correlate -senza però una nuova instaurazione di valori vitali regolatori-, nel relativismo nichilista che contraddistingue la società di oggi gran parte degli uomini si è trovata spaesata e senza gli appoggi che precedentemente, pur con tutte le contraddizioni trovava, oltre che nella religione, nella famiglia, nella società civile e nello stato.

Realtà psicologica e condizionamento socialeLimitarsi all’aspetto farmacologico è quindi bel lungi dall’esaurire una questione che abbraccia invece tutti i campi dell’umano. Parlare dell’aspetto psicologico significa parlare innanzitutto dei molteplici - e più o meno espliciti- condizionamenti a cui l’uomo di oggi è soggetto, magistralmente descritti dal prof. Vittoriano Peyrani su “Rinascita” del 29 novembre 2008.

 

Nel suo articolo egli ben spiegava come la maggior parte delle persone, assuefatte alle “ragioni” instaurate in essi attraverso le varie tecniche dell’”educazione” odierna, preferiscono mantenere le loro credenze, anche palesemente false e deleterie, arrivando piuttosto ad arrabbiarsi con l’interlocutore piuttosto di rivolgere verso se stessi le fatidiche domande, piuttosto “che rivedere tutte le basi delle proprie convinzioni”, la qual cosa, com’è ovvio, richiede un ‘rinnovamento spirituale’ che non si può acquisire dall’oggi al domani ma che richiede esercizio e accettazione della vita come incessante divenire- un caos che solo ferrei principi può riuscire a dominare.

Una rigidità però estranea alla società di oggi, la quale preferisce la “rigidità” di un ossessivo “politicamente corretto”, pena il “pericoloso e faticoso mettersi fuori dal gregge, isolato in un mondo ostile”.

Quale libertà invece noi scorgiamo solo nell’avventurarci attraverso questo muro, apparentemente invalicabile! Pensare con la propria testa non significa invece, necessariamente, pensare alla socialità che è, nonostante tutto, inestricabile dal vivere umano, animale e naturale, nel rispetto delle differenze, non solo etniche e culturali, ma dei ruoli che ognuno sa assumersi? Indipendentemente dall’altezza del ruolo, con la stessa umiltà?

E ad ogni modo, viene pure da chiedersi: non è questo mondo comunque in sé ostile anche aldiquà? Non è proprio questa malcelata ostilità tra gli uomini -dettata da un individualismo sterile- in sé nociva all’individuo stesso in quanto “animale sociale”?

Da un lato quindi la socialità di oggi diventa per l’uomo medio contemporaneo un apparentemente comodo rifugio dai mali psicologici e fisici, più o meno reali, che i condizionamenti generanti infine la realtà che viviamo ci impongono. D’altro punto di vista, anche a causa di una tecnologia mal utilizzata, su tutte lo spopolare della cosiddetta realtà virtuale, essa diventa un rinchiudersi nel guscio di un’individualità lacerante - e appunto, nello stesso tempo, “funzionale al gregge” - e con ciò causa principale dei mali psicofisici dell’uomo globalizzato e sradicato dalla sua cultura.

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