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Colpa e divino

di Emilio Michele Fairendelli - 17/07/2009

a Arno Mandelbaum

 

 

lev  tahor b’ra-li Elohim

crea per me un cuore puro, Signore

 

Salmo 51,12

 

I

colpa-e-sensi-di-colpaNel suo saggio del 1957 Schuld und Schuldgefühle (Colpa e sensi di colpa) Martin Buber chiarisce l’impossibilità di ridurre la colpa ad una dimensione soggettivo-psicologica: essa abita infatti una dimensione ontica e, in ultima analisi, cosmologica.

Per Buber la colpa si instaura quando viene turbato un ordine esistenziale, un ordine condiviso con altri esseri umani o con istanze di varia natura e riconosciuto, dalla parte più alta della nostra coscienza, come un ordine vero, essenziale, fondato.

Il turbamento di quest’ordine produce una rottura nelle cose e nell’economia di verità del mondo ed esige il proprio Tikkun, una riparazione.

L’apparire del senso di colpa e la sua elaborazione sono il modo in cui la coscienza umana prova a stabilire la sua orbita intorno a questo centro che non potrà attrarre che per sempre: la riparazione di un ordine infranto.

Ogni colpa del tempo, dalla più incerta alla più turpe, dalla più primitiva alla più articolata e complessa, alla più personale e definitiva è dovuta all’uscita da un mondo originario di verità e giustizia e ci riconduce, al termine di ogni narrazione, all’istante immediatamente precedente Genesi 3.

Una colpa originaria, che tutte le altre determina o meglio in virtù della quale le altre diventano possibili.

Una consulenza di tipo filosofico (!)  deve quindi secondo Martin Buber essere offerta a chi si sottopone ad analisi, accompagnando il lavoro essenziale, quello di una corretta individuazione, un rischiaramento della propria colpa nella dimensione esistenziale.

Lo Stavrogin de I demoni e Josef K. ne Il Processo sono individuati da Buber come coloro che non sapendo riconoscere l’essenza della propria colpa, non riuscendo a nominarla subiscono la sconfitta più totale: perdono l’ora dell’essere umano.

Stavrogin si uccide per una disperazione ritenuta mai sperimentabile e che invece lo sommerge come una marea che monta aldifuori di lui, che non è e non può essere in lui, Josef K. è colto dalla sentenza davanti ad una porta che, solo apparentemente chiusa, egli rifiuta di varcare.

II

Fin qui Martin Buber nel 1957.

Da questa struttura della colpa, profondamente vera, dipartono  raggi che conducono lontano:

Il percorso della colpa e il personaggio che verrà

i-demoniSulla via intuita da Buber Stavrogin e Josef K. sono preceduti, nella modernità, da Amleto.

In Amleto la colpa (orrenda, insopportabile, tale da condurre alla pazzia dell’uomo e al crollo del mondo e del suo ordine, dichiarato dall’arrivo tra i morti e le rovine di Fortinbras) è ancora esterna all’uomo. È la colpa vista, incontrata.

Il Principe è innocente, tanto da poter vedere lo spettro del padre.

Non per strategia (la finzione della follia è follia essa stessa) ma sapendo che quella colpa, quel male abitano anche lui ed ogni cosa  e genereranno altre colpe e altro male egli impazzisce:

The time is out of joint: oh cursed spite

That ever I was born to set it right

 

Il tempo è fuori di sesto: che destino maledetto

essere nato per ripararlo

 

Hamlet, 1. 5

Presto dal cammino di vendetta di Amleto sorgeranno nuovi eventi e nuove colpe, non importa se sui corpi dei morti: esse sono per i giorni che verranno, per i nuovi nati.

La colpa abita infatti, da Genesi 3, l’Uomo e il mondo.

Con Stavrogin la colpa è in noi: egli sta sul limite in cui un uomo può essere integralmente criminale, è indifferente ad ogni opzione,  tra le quali non riesce a distinguere.

Egli non ha alcun progetto, nemmeno al fianco di Satana.

Ciò che infine lo perde è l’incapacità di nominare la sua colpa – pure così primitiva, così facile da vedere, da isolare e da redimere – l’impossibilità di pronunciare il suo vero nome.

In Josef K. il percorso della colpa  prosegue verso il centro dell’uomo.

La colpa è ora oscura, non agita dall’uomo ma come tracimante dalle cose, scende su tutto da un cielo di piombo e opprime così tanto da paralizzare ogni azione, ogni cammino.

Si prova una nausea indicibile.

Tutto questo porta Josef K. verso la vera immagine, la forma di questa colpa inspiegabile ma in lui, uomo al fondo del tempo del regno della quantità e del ferro, l’energia non è sufficiente: non può che soccombere.

Siamo entrati ora chiaramente nella colpa metafisica, quella di cui soffre la Manifestazione in virtù di un vizio e una caduta originarie: una colpa che, se è,  appartiene ad ogni cosa.

Per comprenderla occorre uscire da se stessi, innalzarsi, abbandonare la mente, provare ad entrare al centro di noi, nell’Anima o nei suoi vestiboli dove l’unità originaria e il suo mistero possono essere almeno invocabili.

la-colonia-penaleNel racconto Nella colonia penale Kafka è ancora più chiaro.

La punizione dei colpevoli è inflitta da un erpice dotato di aghi che scrive sul corpo disteso su una sorta di letto del condannato il comandamento che questi ha violato.

E’ tuttavia solo un accorgimento tecnico – un secondo ago che non incide ma getta acqua sui solchi per lasciare la scritta sempre pulita e leggibile – ad impedire che il corpo di tutti i condannati non si riduca a una sola carne tremante, senza nome e  distinzioni, coperta da un velo di sangue.

Senza questo accorgimento – quante volte non avrà funzionato pefettamente, quel secondo ago, nella colonia immaginaria di Kafka! – la colpa sarebbe dunque unica, chiara e tremenda: il corpo stesso.

Quale personaggio la letteratura attende in questi tempi ultimi, capace di giungere al termine del percorso della colpa, di lasciarlo, di compiere un rischiaramento che illumini la dimensione  individuale e relazionale della colpa tanto quanto quella verticale, metafisica?

Capace, forse, di indicare il lontano orizzonte di una via di reintegrazione.

E’ già all’opera, il suo autore?

La  colpa originaria: Max Théon

Una visione straordinaria, ben più complessa di quella in Genesi 3 – che tuttavia dice, a ben guardare, tutto l’essenziale -  della colpa originaria, sorgente di ogni altra colpa, è fornita in alcuni testi di Max Théon, in particolare in The sixth cosmic epoch (La sesta epoca cosmica).

Théon, probabilmente nato a Varsavia nel 1850 come Louis Maximilian Bimstein, probabilmente figlio del rabbino Leon Judas, è un occultista attivo in particolare verso la fine dell ‘800 e i primi due decenni del ‘900.

Coinvolto nella Hermetic Brotherhood of  Luxor, maestro occultista in Algeria di Mirra Alfassa (nota dopo pochi anni come la Madre nell’Ashram di Sri Aurobindo) sposa a Londra nel 1885 una giovane poetessa  irlandese, Miriam Lin Woodroffe (?).

Questa donna, poi Alma Théon (per i discepoli l’Alma), donna dotata di poteri psichici straordinari, diventerà con Théon il polo femminile di un sistema binario unico, poderoso: sarà lei, guidata da Théon, a viaggiare nei mondi  astrali e attraverso i livelli dell’Essere; insieme, con modalità di scrittura automatica, produrranno testi  – alcuni perduti o distrutti, tutti riservati alla lettura di pochi – che descrivono le epoche della Manifestazione (secondo Théon la nostra è appunto la sesta, quella che precede la settima, l’epoca del grande giubileo).

Per Théon la Manifestazione  non origina direttamente  dal Supremo (che resta, ebraicamente, impensabile per la coscienza dell’uomo nel suo stato attuale) ma attraverso l’azione di entità chiamate Formatori.

Sono gli attori della rottura dell’unità originaria.

Ne La sesta epoca cosmica, testo di una forza visonaria quasi insostenibile, l’azione dei Formatori è descritta a partire dall’embrione cosmico, ancora uno e passivo – nel senso di perfetto, ricettivo nei confronti del Divino supremo di cui è figlio – prima che al suo interno si formi la concezione di ciò che è esterno e che l’embrione acquisti una concezione attiva, lasciando che la sua Luce e la sua Intelligenza si lancino all’esterno toccando ciò che Théon chiama la sostanza cosmica infinita ed eterna, attivando così la Manifestazione e determinando le prime formazioni individuali di Luce e Intelligenza, che si moltiplicano, e la cui immagine sono per noi le ali radianti dei Serafini.

Il ritorno verso l’embrione cosmico è, per queste formazioni di Luce, impossibile – per quanto desiderato – per precisa legge spirituale, essi non possono che procedere per esteriorizzazioni progressive, sempre di più scendendo nel grossolano della sostanza, sempre più lontano dalla loro origine, sempre più velandosi Luce ed Intelligenza.

Allo stesso modo nei processi biologici le cellule si dividono, e dividono, verso la pluralità, verso la vita e verso la morte – solo la singola cellula è teoricamente immortale – senza che sia possibile alcun ritorno,  ritorno che la natura della Manifestazione non prevede.

I Formatori comprendono l’irreparabilità della loro perdita, e ne soffrono: il grido di dolore per l’impossibilità del ritorno di uno dei primi esseri individuali di Luce, all’inizio del testo, è commovente.

La concezione di Théon è molto simile alla concezione cabbalistica di Isacco Luria: si parla di una condizione cosmica che non era inevitabile, dovuta ad un qualcosa che non è andato come doveva, ad un errore, se così possiamo dire, tecnico: in Luria l’emanazione della Luce voluta da una Unità originaria collassa per ragioni insondabili e la rottura dei vasi lascia a terra le scintille del Divino, che l’uomo è chiamato a ricomporre.

E’ importante ripetere che tutto questo non è un’ azione diretta del Supremo, il Divino.

Il suo volto non è per noi nemmeno pensabile: intuiamo solo la Sua presenza, la Sua imminenza, il Suo Essere.

Egli, che tutto include e sostiene, ha il Suo Trono nel cielo dei cieli e i Suoi piani ci sono preclusi; si tratta qui solo della narrazione dell’origine del nostro tempo, della Manifestazione in cui siamo immersi.

La caduta dei Formatori, sempre più lontani dalla Luce e dall’Origine, dapprima Angeli, poi Entità, poi materia involuta costretta allo yoga del mondo nella sostanza universale, determina i pesi che l’uomo è chiamato a vivere e redimere.

La colpa che l’uomo commette, qualunque tipologia di colpa, discende dai Formatori e dalle modalità della loro caduta nella materia, dalle loro individuazioni.

Noi non possiamo parlare con precisione della loro colpa: furono davvero colpevoli Adamo ed Eva, nel giardino?

Sentiamo e sappiamo che quanto i Formatori provarono uscendo dall’Unità  – infelicità, disperazione, il dolore  di non poter ritornare, di potere procedere solo cadendo e degradando, la perdita dell’Origine e della Luce -  è simile, in senso analitico, agli effetti di una colpa non individuata e non risolta e che tale realtà della coscienza non può determinare che comportamenti lontani dalla Verità: nuovo disordine, nuove colpe, dal punto più alto a quello più basso della coscienza di questa Manifestazione.

Noi portiamo tutto questo, insieme alla scintilla del Supremo che sta in noi, dentro al petto e poco sotto il cuore del corpo fisico: per questa scintilla, in Théon come in Luria, l’Uomo è chi può davvero trasmutare, è l’evolutore supremo di questo piano materiale.

La dimensione etica ed esistenziale non è che uno specchio di tutto ciò che sta aldisopra.

In alto come in basso – la verità ermetica – ha valore assoluto anche in questa dimensione.

Dunque illuminiamo gli effetti delle nostre colpe, dei nostri tradimenti, della nostra mancanza di fede e di coraggio sul piano delle relazioni con altre Anime, con altri ordini, con altre istanze; contemporaneamente, su un piano diverso,  interiore, assoluto, di grido verso il Supremo e verso Lui solo, meditiamo, pur non conoscendola appieno, la colpa originaria.

Ci pare forse oggi impossibile giungere ad una Verità su un argomento come questo ma presto non sarà così: tempi straordinari si avvicinano.

La colpa originaria: rischiariamola,  come direbbe Buber.

E’ la ragione per cui questo mondo è stato creato.

Riparare  e  questione karmica

 

Rischiarare le proprie colpe, stabilire quale ordine stabilito si è leso, quale rapporto esistenziale, comprendere cause e nessi.

Tutto ciò può essere agito, con i suoi tempi e le sue regole, in modo relativamente facile: occorre solo essere umani.

Gli effetti della colpa sono più intrattabili perché aldifuori di noi.

Posso  uccidere un uomo e la mattina successiva operare in me una rivoluzione tale da non avere quasi più alcun rapporto con quell’assassino, comportarmi in modo equanime  e superiore di fronte ad ogni cosa: la mia punizione, la disperazione dei colpiti, il pensiero di quanto è accaduto.

Tuttavia, all’appello del Signore mancherà un uomo, vi sarà una donna che lo piangerà, dei figli orfani.

E non basterà, qualora si ottenesse in modo compiuto, il perdono degli offesi; il danno infatti, a più livelli, si trasmetterà per generazioni, sorpasserà me e la mia coscienza, la loro.

Occorre dunque per prima cosa accettare: ogni danno è irreparabile, esattamente come è insondabile la sua economia nel gioco del mondo.

Accettare, anche di fronte al perduto per sempre, all’orrendo.

Quando noi diciamo che siamo i responsabili di ogni nostra azione e ne paghiamo senza sconti tutte le conseguenze diciamo una verità che va precisata: ne verranno pagate tutte le conseguenze.

Ogni ordine infranto richiede la sua riparazione.

Ma quando avverrà? E come?

Noi lo ignoriamo.

Chi pagherà quell’omicidio, quel tradimento, quella menzogna orrenda, quella assenza?

Tu stesso, domani? Una figlia di figli, tra generazioni?

Cosa non si compirà, in ragione di quello?

Chi giudica nei mondi più alti la vera forma delle colpe? E’ uguale la tua colpa, o la sua, o quella di chi stupra perché fu stuprato, di chi uccide perché vide ucciso il padre, di chi vive le colpe di un avo perché egli possa essere ricordato, redento, o perché semplicemente queste esauriscano il loro raggio, il loro potere?

Produciamo karma o ne siamo agiti? Entrambe le cose?

Questo karma è universale e mai individuale, come ha chiarito Sri Aurobindo.

Nella comprensione di questa universalità non sta forse il grado più alto della compassione?

La verità è che tutto non è che una dialettica del Divino che ha generato i mondi e in questi e su questi regna, dal centro del grano di polvere come dal Suo Trono a distanza infinita.

Secoli fa la folla che si radunava in occasione delle esecuzioni capitali non cercava solo una emozione macabra e sensuale ma intendeva, oscuramente,  rendere omaggio al condannato perché sentiva che commettendo i suoi crimini egli aveva assunto su di sé una parte del male che ribolle nell’oceano del mondo.

Questa comprensione del male come presenza ineluttabile, necessaria, karmicamente determinata, non tocca in alcun modo il piano etico e relazionale.

Tutto non può che avvenire nel modo in cui avviene ma tutto, e contemporaneamente, nell’Uno e nel suo divenire,   è anche nelle nostre mani e può essere modificato, liberato, nobilitato.

Costituita questa unica dimensione ogni mancanza individuale, ogni comportamento che ferisca un ordine di verità appare ancora più bruciante,  più tremendo.

Io posso agire oggi, posso agire correttamente o no, posso liberare o far soffrire, mentire o aprire il mio cuore, tradire o risplendere, costruire o distruggere, aiutare o uccidere.

In questo sta la mia libertà, la mia possibilità di contribuire alla ricomposizione delle scintille del Divino.

Cosa dovettero vedere i Formatori, nella loro caduta infinita e disperata, se non che anche le zone più scure e materiali potevano esistere solo perché un poco della Luce prima vi scendeva?

Questo li avrà confortati almeno un poco? Avrà fatto loro intuire, anch’essi figli, creature, il senso della loro caduta?

La comprensione di questa dimensione rende impossibile una riparazione alla colpa: essa prosegue sfericamente, in ogni direzione, i suoi effetti nello spazio e nel tempo, parte dello yoga del mondo: anche ora – ogni mia colpa – mentre scrivo.

L’unica vera preghiera è quella di chi non attende alcuna risposta, quella di chi chiede, per  assoluta necessità interiore, il rito e la parola: questi agiranno sul suo io e forse egli, per gli atti che verranno, a cui sarà chiamato da domani, sarà un altro uomo.

Solo questo verrà dato e così, anche nella dimensione verticale, quella che ci lega al Supremo, sarà reso più sopportabile il silenzio che l’Alto oppone a ogni nostra invocazione, più vicino il pensiero, la speranza  nel giorno della Sua risposta.

Quando il male è stato compiuto e la sua rete gettata sul futuro, di fronte a colui cui abbiamo mentito, a chi abbiamo tradito e colpito nell’ordine più alto dell’Amore, a chi sappiamo non vedremo mai più per l’ampiezza della ferita aperta, accettando ogni conseguenza e  nominando ogni propria colpa, occorre mettere il ginocchio a terra, piegare il capo e dire: perdonami.