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Il socialismo è un carattere degli stati nazionali o non è nulla!

di Stefano D'Andrea - 17/06/2010

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Prendendo spunto dal caso Pomigliano, Luciano Gallino ha scritto recentemente su Repubblica: “La crisi economica esplosa nel 2007 ha fatto cadere i veli della globalizzazione. Politici, industriali, analisti non hanno più remore nel dire che il problema non è quello di far salire i salari e le condizioni di lavoro nei paesi emergenti: sono i nostri che debbono, s’intende per senso di responsabilità, discendere al loro livello”.

Ebbene, i salari e le condizioni di lavoro nei paesi emergenti non li possono cambiare né i nostri analisti, né gli industriali (nostri o stranieri), né i nostri politici. Gli agenti del cambiamento possono essere soltanto i lavoratori e i politici stranieri. Né possiamo fingere di ignorare che il passaggio che avvenisse, in uno stato straniero “in via di sviluppo”, da un regime di lavoro “da sole a sole” in cambio del mero sostentamento per la famiglia dell’operaio ad un regime di “dieci ore al giorno” per sei giorni a settimana, con salario dignitoso in relazione al basso costo della vita, potrebbe essere vissuto dagli operai di quello Stato come un evento epocale, che potrebbe soddisfarli per un paio di decenni. Quanto tempo sono durate le lotte operaie in Europa, per giungere allo Statuto dei lavoratori e ad altre leggi analoghe? Per quale ragione le lotte operaie in Cina, Messico, India o Tailandia dovrebbero avere una storia più breve? E se, almeno in alcuni stati, la storia fosse più lenta? E se, comunque, in linea di principio, fosse necessario oltre un secolo, come lo è stato in Europa?

Al contrario la discesa di livello di salari e condizioni di lavoro degli operai italiani è, come riconosce il medesimo Gallino, una conseguenza necessaria della globalizzazione – ossia, mi sento di precisare, della distruzione dei singoli ordinamenti giuridico-economici statali sovrani e della contestuale costituzione di un ordinamento giuridico globale, tramite cessione di sovranità da parte degli ordinamenti giuridici statali o, meglio, mediante “spontanea” omogeneizzazione di rilevanti profili degli ordini giuridico-economici statali. Una volta stabilito che il capitale può circolare liberamente e delocalizzare, la Fiat ha la possibilità di ricattare gli operai di Pomigliano; punto e basta. Una possibilità che in caso contrario non avrebbe; punto e basta. Una volta stabilito che gli Stati europei non possono aiutare imprese pubbliche o private ma nazionali (il divieto di aiuti di stato), la politica perde uno strumento per impedire la delocalizzazione del capitale italiano nella misura in cui l’ordinamento giuridico statale consenta quella delocalizzazione; e perde la possibilità di proteggere capitale e lavoro italiani dalla concorrenza di imprese che producono in stati in cui il lavoro costa meno. E quando il capitale può ricattare gli operai, inseriti nella competizione globale da un politica cieca che ha perseguito la globalizzazione, il lavoro è merceè merce punto e basta; è un fatto che può dispiacere ma le cose stanno così -, merce che, quindi, viene acquistata dal miglior offerente, ossia dai lavoratori di Stati in cui il salario è basso – in parte anche per il minor costo della vita – e le condizioni di lavoro meno gravose (per il capitale che acquista la merce).

Se questa è l’analisi, alla sinistra che non voglia perseguire un “folle socialismo imperialista” – pretendere che lo Stato Italiano, alleandosi con altre potenze occidentali, invada gli stati stranieri “in via di sviluppo”, almeno per instaurare in essi un regime giuridico di tutela del lavoro che sconsigli al capitale di delocalizzare – resta soltanto la strada dello stato-sociale (welfare state), che era uno Stato nazionale sociale, appunto, e non uno Stato mondiale (un megastato sociale). Propugnare la sovranità nazionale; vietare la libera circolazione del capitale o comunque sottoporla a rigoroso controllo, proteggere alcuni beni e servizi prodotti in Italia. Questa deve essere la prospettiva dei comunisti e dei socialisti e in generale dei ceti popolari.

Domandiamo. Negli anni in cui veniva costruito lo stato sociale italiano, l’ordinamento giuridico italiano prevedeva la libera circolazione dei capitali? No. Prevedeva la libera circolazione delle merci? Prevedeva la libera circolazione dei lavoratori? No. Conteneva norme che imponevano dazi e barriere all’ingresso delle merci? Si. Prevedeva aiuti di stato? Si. Consentiva o imponeva monopoli pubblici? Si. Imponeva la concorrenza? No. Prevedeva una moneta nazionale e una banca centrale (al 95%) pubblica? Si. concedeva la possibilità di svalutare la moneta per rendere più competitivo il sistema produttivo? Si. Tutte queste condizioni – che sono condizioni dello Stato sociale, anche se ciò non è chiaro nemmeno a illustri economisti – sono in gran parte venute meno. E gli ordinamenti giuridici europei che, sia pure con diversità di istituti e e di graduazioni, hanno costruito lo Sato sociale, negli anni in cui lo costruivano, prevedevano limiti alla circolazione dei capitali, delle merci e del lavoro, la possibilità di monopoli pubblici e privati e una moneta nazionale? Pur non conoscendo i necessari dati normativi, credo che la risposta sia positiva.

Sembrerebbe, dunque che esista un nesso storico e logico inscindibile tra sovranità nazionale e carattere sociale o addirittura  socialista di un ordinamento giuridico.

Chi attende che le riforme necessarie per tutelare il lavoro degli italiani vengano realizzate al livello mondiale è un imbecille. Chi attende che vengano realizzate al livello europeo ignora o finge di ignorare che tutti gli istituti che consentivano lo stato sociale italiano sono stati smantellati dall’Europa. L’Europa è libera circolazione delle merci, dei capitali e del lavoro; cessione di sovranità da parte degli Stati; divieto di aiuti di stato; perdita della moneta nazionale e della possibilità d svalutare; terrore dell’inflazione; concorrenza e divieto dei monopoli; patto di stabilità e niente altro. L’Europa – quella che esiste, ossia il cosiddetto ordinamento giuridico europeo, non quella desiderata, che non esiste e che ancora taluni favoleggiano e addirittura invocano senza precisare che per edificarla servirebbero minimo altri trenta anni – è intrinsecamente e geneticamente antisociale e non potrebbe essere diversamente, perché essa è fondata sulle regole opposte a quelle che hanno consentito la costruzione dello Stato sociale europeo.

Eppure l’idiosincrasia della sinistra per il concetto di Stato nazione è tale che essa da anni sostiene tesi incoerenti e, alla fine, come i fatti stanno a dimostrare, suicide. Un tempo avevamo il Partito social democratico Italiano, il Partito socialista Italiano e il Partito comunista Italiano. E quei partiti, assieme alla Democrazia Cristiana, hanno costruito lo Stato sociale, sviluppando in parte principi già affermati dal Fascismo Italiano. Oggi abbiamo la “Sinistra Europea”, quelli che vogliono “globalizzare i diritti” (presuntuosi che non si accorgono che essi stanno perdendo i diritti che avevano), i new global, che hanno rifiutato l’iniziale formula no global, i teorici della inesistente moltitudine e dell’impero diffuso, quelli che ci dicono che Marx è tornato, perché in Cina cominciano le lotte operaie (e noi dovremmo restare ad aspettare l’evoluzione di quelle lotte!), quelli che invocano una Europa che non esiste. Teorici senza l’analisi concreta della situazione concreta, sognatori, illusi, ingenui, stupidi e radical chic. Questa sinistra è fortemente antipopolare, gravemente antisocialista, singolarmente attratta dagli Stati Uniti che dovrebbe osteggiare.

 Per quale ragione abbiamo dovuto far morire la maggior parte delle aziende che componevano il distretto tessile di Prato? Uno scambio “emersione del sommerso dietro protezionismo” non era pensabile? E’ meglio che i cittadini italiani comprino a debito (posto che cominciano a perdere lavoro, a veder ridotti salario e pensione, e a dover acquistare servizi un tempo forniti dal welfare state) le merci prodotte all’estero, magari da capitale italiano libero di circolare in modo che possa valorizzarsi al meglio?

Per quale ragione uno che si dice comunista o socialista ammette che il plusvalore estratto dal lavoro di lavoratori italiani anziché dover essere reinvestito in Italia (con tutto ciò che segue in termini di occupazione, imposizione, servizi pubblici) possa liberamente essere investito in altro stato? Vi sembra ammissibile che il plusvalore ricavato dalle piantagioni sudafricane, pagando ai lavoratori due euro al giorno, possa essere reinvestito nelle borse statunitensi o inglesi? Se siete favorevoli alla libera circolazione del capitale, delle merci e del lavoro non siete né comunisti né socialisti: siete filocapitalisti oppure ingenui. Se siete contrari alla libera circolazione del capitale, delle merci e dei lavoratori allora forse siete socialisti. Tutto il socialismo che abbiamo conosciuto fino ad ora, di qualsiasi genere e specie, è stato realizzato all’interno di Stati nazionali, tra l’altro di dimensioni non grandissime. Il resto sono sogni, stupidità, illusioni e menzogne.