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Per studiare i casi di rapimento alieno è necessario fondare nuove categorie scientifiche

di Francesco Lamendola - 13/09/2010

Diverse migliaia di persone, sparse in tutti i Paesi del mondo, sostengono di essere state vittime di «abduction», di rapimento da parte di creature aliene.

Non si tratta, puramente e semplicemente, di mitomani o di individui a caccia di una facile notorietà (e a quale scopo, poi?). Parecchie di queste persone sono giunte a ricostruire la drammatica esperienza vissuta solo sottoponendosi a sofferte sedute di ipnosi regressiva, talvolta dopo aver convissuto per anni, in perfetto silenzio, con un oscuro e radicato  malessere, con incubi ricorrenti, con forme di angoscia e di panico inesplicabili. E non poche di esse non avevano mai sentito parlare degli extraterrestri o non vi avevano mai prestato attenzione, né si erano mai interessate alle problematiche legate all’ufologia.

Sovente il ricordo della tremenda esperienza (ché come tale è stata vissuta nel novanta per cento dei casi, poiché l’idea di un rapimento «felice» è una contraddizione in termini) viene a coincidere con riscontri oggettivi, a dir poco inquietanti: «missing time», vale a dire ore perdute di cui non si dà una spiegazione plausibile; scaricamento delle batterie elettriche subito prima del “contatto”, ad esempio con l’arresto inspiegabile del motore dell’automobile; bruciature o strane impronte sul terreno, là dove l’astronave aliena sarebbe atterrata; testimonianze, dirette o indirette, di amici, parenti o di testimoni casuali; infine - ed è la tipologia più impressionante - presenza di strane cicatrici sul corpo, segni di punture che prima non esistevano o perfino, in certi casi, presenza di minuscole apparecchiature inserite a livello sottocutaneo.

Oltre a questi riscontri, in un certo numero di casi si segnala anche la comparsa dei misteriosi e poco raccomandabili «men in black»: strani individui, generalmente vestiti di nero, i quali si presentano a casa dei testimoni di avvistamenti ravvicinati con astronavi aliene o dei protagonisti di contatti e rapimenti, qualificandosi come non meglio identificati agenti governativi, i quali diffidano le persone interessate dal fare alcuna pubblicità intorno alla propria esperienza e minacciano gravi conseguenze in caso di infrazione a tale consegna.

Chi ha avuto a che fare con gli “uomini in nero”, riferisce di aver provato la paurosa sensazione di non essere in presenza di creature umane, tranne che nell’aspetto e nell’abbigliamento, quest’ultimo - peraltro - vagamente “stonato” (ad esempio di foggia antiquata, pur essendo chiaramente appena confezionato); di una loro strana rigidità di postura e di linguaggio; della loro voce metallica; dell’impossibilità di vederne gli occhi, nascosti da occhiali scuri; addirittura da un calo della temperatura ambientale, come se un gelido soffio avesse accompagnato la loro improvvisa irruzione; della subitaneità della loro partenza, o piuttosto scomparsa.

Ma torniamo ai rapimenti alieni.

Di fronte a un fenomeno del genere, la scienza ufficiale e accademica preferisce voltare la testa dall’altra parte e fare finta che non esista, puramente e semplicemente; ma ci riesce con difficoltà sempre maggiore, perché, come dicevamo, moltissime persone si rivolgono per ricevere aiuto e per capire cosa sia successo loro, proprio a medici, psicologi, psichiatri e psicanalisti, cioè ai rappresentanti della scienza ufficiale e accademica. Volenti o nolenti, questi esponenti della scienza ufficiale sono così costretti a prendere una posizione in merito, tirati letteralmente per i capelli in una disputa da cui avrebbero certamente preferito tenersi ben lontani.

Le ragioni dell’imbarazzo e del fastidio della scienza accademica di fronte alla fenomenologia dei rapimenti alieni, o supposti tali, sono di duplice natura.

Da un lato, ammettere eventi del genere contrasta con il Verbo della scienza ufficiale, secondo la quale creature extraterrestri intelligenti possono esistere, anzi quasi certamente esistono, ma abitano su pianeti posti a distanze così enormi, che mai e poi mai essi potrebbero visitare la Terra in modo continuativo.

Ovviamente, questa posizione non tiene conto del fatto che i nostri eventuali visitatori extraterrestri potrebbero servirsi dei buchi spazio-temporali per viaggiare a velocità assai superiori a quella della luce (la maggiore ammessa dai nostri fisici); né, a maggior ragione, che potrebbe trattarsi di creature che non provengono da altri mondi fisici, ma da altre dimensioni del nostro stesso mondo: creature capaci di assumere le parvenze di un corpo materiale ma, in realtà, costituite di pura energia, simili a quelle che popolano le visioni dei mistici e dei sensitivi.

Dall’altro lato, riconoscere una plausibilità, e sia pure ipotetica, ai racconti degli “addotti”, significherebbe dover rivedere non solo tutte le leggi fisiche conosciute, ma anche dover ripensare di sana pianta le stesse categorie mentali che stanno alla base della scienza moderna, che sono rigorosamente materialiste, meccaniciste e riduzioniste. Insomma, sarebbe come ammettere che l’edificio speculativo scientifico attuale è valido solo entro una fascia relativamente ristretta di fenomeni, un po’ come lo è la geometria euclidea rispetto all’insieme di tutte le geometrie concettualmente possibili.

Per fare solo un esempio, e dei più semplici: la scienza ufficiale nega la possibilità della telepatia, o la limita ad alcuni casi assolutamente eccezionali; nega, comunque, che essa possa costituire una forma di comunicazione regolare e sistematica fra due creature intelligenti. Eppure, nel caso dei rapimenti alieni, gli “addotti” riferiscono di aver compreso perfettamente ciò che le creature extraterrestri dicevano loro (beninteso, se e quando volevano farlo), benché nessun suono uscisse dalle loro bocche e, in ogni caso, nessun suono nella loro lingua materna, che certamente le creature non conoscevano. E allora?

Uno dei pochi scienziati  di formazione accademica che non hanno voluto voltare le spalle a un fenomeno così imbarazzante è stato l’americano John E. Mack, professore di psichiatria alla Medical School del Cambridge Hospital e direttore del Centro per il Cambiamento psicologico e sociologico (vincitore anche, nel 1977, del Premio Pulitzer con il libro «A Prince of our Disorder», una biografia di Thomas E. Lawrence).

Studioso di mente aperta, anche per influsso del filosofo della scienza Thomas Kuhn, Mack, dopo aver studiato una ricca casistica di pazienti che gli si erano rivolti per essere aiutati a ricordare l’esperienza del rapimento, ne ha compreso le implicazioni epistemologiche e, in particolare, il fatto che accettare la possibilità di tali eventi significa inevitabilmente rivedere il rigido paradigma post-galileiano, all’interno del quale si muove tuttora la ricerca scientifica, almeno ufficialmente, per aprirsi a nuove prospettive e a nuove metodologie di ricerca.

Qui non ci soffermeremo sull’interpretazione, sostanzialmente ottimistica, che egli dà dei contatti fra esseri umani e creature aliene, interpretazione sulla quale ci sarebbe molto da eccepire, dal momento che essa non sembra tenere nel debito conto, o tende a minimizzare, gli effetti traumatici, angosciosi, terrorizzanti, dei rapimenti stessi (i quali, di conseguenza, ben difficilmente si possono conciliare con una supposta attitudine amichevole, o addirittura altruistica, da parte dei rapitori alieni nei nostri confronti).

Piuttosto, ci sembra utile riflettere sulla rivoluzione epistemologica che la realtà dei rapimenti stessi reca con sé, ponendosi tali fenomeni, oggettivamente, in contrasto con tutto il nostro attuale sapere accademico e anche con le nostre abituali categorie di pensiero: simili, a questo riguardo, tanto nel semplice profano che nello scienziato professionale.

Nella sua ormai celebre monografia «Rapiti! Incontri con gli alieni» (titolo originale: «Abduction: human encounters with aliens», 1994; traduzione italiana di Stefano di Martino, Milano, Mondadori, 1995, pp. 40-42), il professor Mack osserva:

 

«I primi casi sui quali lavorai nella primavera del 1990 confermarono ciò che Hokins, David Jacobs, Leo Sprinkle, John Carpenter e altri pionieri in questo campo avevano già scoperto. I soggetti riferivano di essere stati rapiti contro la loro volontà da creature aliene, a volte attraverso i muri delle loro abitazioni e sottoposti a procedimenti elaborati di analisi che sembravano finalizzati a scopi riproduttivi.  In alcuni casi ci sono racconti di testimoni estranei che confermano la loro assenza durante il periodo del rapimento. Questa gente non soffriva di evidenti sintomi di disturbi mentali, salvo quelli derivati dall’esperienza e ricordavano con emozioni vivide quelle che a loro erano sembrate esperienze  particolarmente reali. Oltre a ciò queste esperienze sono spesso accompagnate da avvistamenti di UFO da parte di amici, familiari o altri appartenenti alla stessa comunità, tra i quali anche giornalisti e reporter. Spesso i soggetti  riportano tracce fisicamente riscontrabili sui corpi,  quali tagli e piccole ulcere, che tendono a guarire rapidamente, e non seguono alcuno schema o modello identificabile psicodinamicamente, come avviene per le stimmate.

In breve stavo trattando con un fenomeno che mi rendevo conto non poteva essere spiegato secondi i parametri della psichiatria, giacché era semplicemente “non possibile” nella struttura del pensiero occidentale.. Potevo allora allargare il campo di indagine e sfruttare la psicologia oltre i limiti ragionevoli, trascurando quei fenomeni che non erano passibili di spiegazione psicologica, come le prove fisiche e il fatto che questi fenomeni fossero presenti nei bambini e persino negli infanti; cioè avrei dovuto insistere su una interpretazione psicologica che si adattasse all’ideologia scientifica occidentale. Altrimenti dovevo aprimi alla possibilità che la nostra struttura comunemente accettata della realtà fosse troppo limitata e che un  tale fenomeno  non potesse essere illustrato sulla base dei suoi parametri ontologici. In altre parole per comprendere cosa stava succedendo era necessario stabilire un nuovo parametro scientifico.

Con questo dilemma avvicinai Thomas Kuhn, autore del classico “The Structure of Scientific Revolutions” (1962) che analizza come cambiano gli schemi della scienza, per ottenere il suo consiglio riguardo alle mie ricerche. Conoscevo Thomas Kuhn da quando eravamo ragazzi, perché i suoi genitori e i miei erano amici a New York e io spesso avevo partecipato ai ricevimenti natalizi nella casa dei Kuhn. Trovai che il parere ricevuto da lui e da sua moglie Jehane, molto competente nel campo del folklore e della mitologia, mi fosse molto utile. Il particolare che constatai più illuminante fu l’opinione di Kuhn che i parametri scientifici occidentali avevano assunto la rigidità di una teologia, che questo sistema di pensiero era retto da strutture, categorie e polarità di linguaggio come reale-irreale, esiste-non esiste, oggettivo-soggettivo, interiore-esteriore, accaduto-non accaduto. Suggerì che nel proseguire le mie indagini rinunciassi per quanto mi fosse possibile a tutte queste formule linguistiche e raccogliessi semplicemente le informazioni così come venivano, evitando di considerare se quello che venivo a sapere si adattava alla visione comunemente accettata. Più tardi avrei potuto esaminare ciò che avevo raccolto considerando se fosse possibile qualche formulazione teoretica coerente. Questo, a grandi linee, è stato lì’approccio che ho cercato di seguire.»

 

In buona sostanza, Mack fa notare che la scienza occidentale è fondata su un modello concettuale rigidamente dualistico, in base al quale - ad esempio - un fenomeno o è interiore e soggettivo, oppure è esteriore e oggettivo; “tertium non datur”. Naturalmente, solo il secondo interessa lo scienziato accademico, perché solo esso è suscettibile di misurazione, di riproduzione in laboratorio, di catalogazione.

È proprio per questa ragione che, in Occidente, si è creata una così netta separazione e una così totale incomunicabilità fra la comunità scientifica e la sensibilità popolare, riguardo a problematiche come quelle relative al preternaturale e al soprannaturale. Come ai tempi del beffardo Zola, lo scienziato accademico fa spallucce quando si parla di Lourdes e a stento trattiene un sorrisetto canzonatorio (se pure lo trattiene, per buona educazione); per non dire delle stimmate di padre Pio da Pietrelcina o degli esorcismi somministrati da sacerdoti cattolici in presenza di una presunta possessione diabolica.

Eppure, forse la giusta chiave di lettura del fenomeno dei rapimenti alieni è proprio quella che passa per un abbandono della rigida contrapposizione fra dentro e fuori, fra soggettività e oggettività: perché vi sono delle categorie di fenomeni che non appartengono interamente a nessuno dei due ambiti, o meglio, che appartengono simultaneamente ad entrambi.

Questo aiuterebbe a capire come certi “addotti” sostengano di essere stati rapiti durante il sonno, in casa propria, nel proprio letto; per ritrovarsi poi all’interno di un ambiente alieno, presumibilmente una astronave.

È chiaro, tuttavia, che ammettere - anche solo come ipotesi di lavoro - una possibilità di questo genere, significa doversi allontanare dalle riposanti certezze materialiste che tutto semplificano e sulle quali si è retta, finora, la scienza moderna; ed è sempre cosa malagevole, psicologicamente e intellettualmente, dover lasciare la strada nota per quella sconosciuta.

D’altra parte, ci permettiamo una piccola, impertinente domanda: non dovrebbe essere proprio questo l’abito mentale caratteristico del vero scienziato: lo slancio perenne oltre i confini del conosciuto, l’audacia di rimettere sempre in discussione le “verità” stabilite?