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Non sappiamo prevedere la storia

di Edoardo Segantini - 27/02/2011




Per gli oracoli sono tempi duri. Le rivolte popolari tunisine, poi dilagate come un’onda in Egitto e in Libia, sono arrivate sostanzialmente inaspettate, ricadendo sugli equilibri energetici, sulle Borse e sulla stabilità di vaste aree del mondo, Nessuno le aveva previste in Italia, pure geograficamente così vicina. Ma anche gli altri Paesi europei e gli Stati Uniti sono stati colti impreparati. Viene perciò da chiedersi come sia possibile che, nell’era dell’informazione, sempre più ricca di dati e di immagini, sempre più tecnologica e immediata, sempre più vasta e simultanea, la nostra capacità di previsione dei fatti, anche dei macro eventi, sia così povera. Non è un problema di oggi.

Se guardiamo indietro, vediamo che la stessa insufficienza previsionale è emersa— sempre con le dovute eccezioni— anche in occasione di altri grandi fatti che hanno segnato gli ultimi decenni: dalla caduta del muro di Berlino nel 1989 all’ 11 settembre 2001 fino alla Grande Crisi finanziaria ed economica divampata nel 2008, che non è finita e a cui oggi si aggiunge la nuova instabilità originata nel Maghreb. Un’eccezione interessante, a proposito del Nord Africa, è quella dell’ «Economist» , che, il 15 luglio dell’anno scorso, cioè sei mesi prima della rivolta in Egitto, è uscito con una copertina che raffigurava la statua di un faraone con la faccia di Mubarak nell’atto di sprofondare nel deserto.

Il titolo diceva: «Sabbie mobili. Nei Paesi arabi alleati dell’Occidente arriva il cambiamento» . Dopo tre decenni di progresso economico ma di paralisi politica, recitava il fondo del settimanale britannico, il cambiamento è nell’aria. «Abbiamo deciso di puntare su quella copertina, dopo una lunga discussione, preferendola a due alternative legate all’attualità del momento, perché avevamo un’inchiesta molto ben documentata del nostro corrispondente dal Cairo — dice il direttore, John Micklethwait —. Ci siamo resi conto che il pubblico apprezza il nostro tentativo di spiegare, ogni settimana, quello che bolle in varie pentole e ci perdona anche qualche errore. In generale siamo convinti che un lavoro di previsione costante, non sporadico, aumenti la credibilità dei media» . Previsioni azzeccate, come vedremo, sono state formulate anche prima della crisi economica del 2008. Ma erano posizioni isolate e, spesso, dileggiate. Resta il fatto che, a fronte di una mole di informazioni spaventosamente abbondante — al punto da far nascere l’attività del «data mining» , lo scavo dei dati nella miniera virtuale— la capacità di leggerli sembra spaventosamente modesta.

Perché? — dice lo storico Piero Melograni, autore del saggio La modernità e i suoi nemici: «Anche se i cittadini del mondo di oggi dispongono di una quantità di strumenti informativi enormemente superiore al passato, e la capacità di padroneggiarli rappresenta un patrimonio condiviso da tutti, a prescindere da lingue, religioni, classi, provenienza, lontananza, situazioni di guerra o di pace, tuttavia fatichiamo enormemente a utilizzarli per un fine determinato: cioè comprendere l’evoluzione della storia. Ed è proprio quello che è avvenuto, sotto i nostri occhi, nei primi due mesi del 2011» . Nel libro, scritto nel 1996 e pubblicato da Mondadori, Melograni ricorda il Machiavelli nel Principe: «... ed in tutte le cose umane si vede questo, chi le esaminerà bene: che non si può cancellare uno inconveniente, che non ne surga un altro» . Per sostenere che la nostra debolezza previsionale è un portato della modernità e dell’evoluzione economica, culturale e sociale, che, mentre risolve un problema, ne crea subito un altro di superiore complessità. «Sedici anni fa— — dice Melograni scrivevo, a proposito del mondo arabo, islamico e nordafricano, che eravamo in presenza di un evento altamente drammatico, qual è la fine di una società contadina e tribale, nata diecimila anni or sono, con una nuova civiltà che stenta a configurarsi. E, quanto a saper orientare il corso degli eventi, non possiamo dimenticare — conclude — che l’umanità non si è mai affrancata dall’irrazionalità» .

Interessante è anche il punto di vista di un altro storico, Aldo Schiavone, autore nel 2007 di Storia e destino. Schiavone dice che la «rimozione del futuro» è «l'autentico male che oscura e incupisce i nostri anni» . Insieme al futuro, stiamo perdendo il passato e, insieme ad esso, il senso della storia, «la storia come processo, come progetto e come durata» . Abbiamo un mare di dati e una simultaneità quasi ossessiva. Ma un presente non decifrato, avverte lo storico, «non può afferrare l’eccezionalità assoluta della condizione che si sta preparando per noi, con la sua esplosiva combinazione di rischi e di opportunità» . Il rischio vale per tutto l’Occidente. «Impressiona il fatto che la politica non sia in grado di elaborare scenari del futuro se non a breve o, come in Italia, a brevissimo termine. È vero, c’è l’imprevedibilità della storia. Ma spesso è una scusa, un alibi sbandierato per giustificare una non lungimiranza diventata ormai sistemica» . Perché? È diminuita, a parere di Schiavone, la «domanda di previsioni» da parte dei governi. «La futurologia, nella sua accezione migliore — dice lo storico — ha raggiunto il suo lungo apice durante la guerra fredda, quando sul pianeta si fronteggiavano due futuri possibili, il capitalismo americano e il blocco socialista.
Paradossalmente il 1989 ha fatto crollare l’interesse alla lungimiranza proprio quando il mondo diventava più complicato da interpretare, e dunque proprio quando ce ne sarebbe stato più bisogno» . Saltiamo nello spazio e nel tempo. Se dalle sabbie mobili del Maghreb attraversiamo l’Atlantico e ritorniamo alla prima metà del decennio scorso, notiamo che sono stati pochi, pochissimi, coloro che hanno previsto la Grande Crisi del 2008, partita dal crollo del mercato immobiliare. Previsto non in termini generici, ma nei tempi, nelle dimensioni e nella durata. Come l’economista Nouriel Roubini, oggi una star ma allora sconosciuto, che, a un convegno del 2006, disse che si stava preparando un crac immobiliare da duemila miliardi di dollari e venne preso per matto dai boss del Fondo monetario internazionale. Una simile previsione aveva fatto, ancor prima di lui, l’economista Bob Shiller, della Yale University, in linea con la teoria dell’instabilità finanziaria di Hyman Minsky.

Testimonianza interessante è anche l’intervista rilasciata a Mario Margiocco sul Sole 24 Ore, nel 2002, dallo storico dell’economia Charles P. Kindleberger, che denunciava i rischi della bolla immobiliare sei anni prima che scoppiasse. E nel passato? Nel Trecento nessuno anticipò il crac delle banche fiorentine— rette da dinastie come i Bardi, i Peruzzi e i Frescobaldi — né lo scoppio della bolla dei tulipani in Olanda tre secoli dopo. Ad Amsterdam c’è una celebre casa del Seicento che porta scolpiti, in bassorilievo, tre bulbi di tulipano. I fiori avevano raggiunto quotazioni così elevate che con tre bulbi si poteva acquistare una casa affacciata sul canale e con uno comprare una carrozza. Molti rimasero scottati, Rembrandt compreso. Citando i leggendari Monty Python, si potrebbe infine aggiungere che nessuno previde l’Inquisizione spagnola. E, restando in zona grandi comici, è di sicuro nel giusto Woody Allen quando afferma che la cosa più difficile da prevedere è il futuro. Ma, in campo economico-finanziario, la mancanza di capacità predittiva può nascondere altri interessi. Lo storico dell’economia Giovanni Vigo ricorda il banchiere Paul Warburg quando, nel 1928, disse che Wall Street sarebbe andata a fondo. Le altre banche, fortemente esposte sul mercato, lo emarginarono, dando voce al celebre economista-investitore Irving Fisher, il quale, negli stessi giorni, sosteneva che i corsi azionari avevano raggiunto un livello «permanentemente elevato» . «Gli istituti di ricerca sfornano dati su dati — dice Vigo— ma talvolta viene meno non la capacità bensì la volontà di guardare lontano. In parte è anche l’accusa che Tommaso Padoa-Schioppa lancia ai decisori politici, economici e finanziari nel suo libro La veduta corta, una sorta di involontario testamento spirituale. Nel caso della crisi del 2008, i profitti di alcuni sono stati così imponenti da spingere a rendere dura la vita di ogni aspirante Cassandra» . Vigo però ritiene che la veduta corta sia cortissima nei Paesi europei, in quanto «area in declino da oltre un secolo» . Lo storico inglese John Seeley, morto nel 1895, aveva già previsto il tramonto dell’Impero britannico nella seconda metà dell’Ottocento. «Ed è significativo l’episodio di Churchill in visita a Roosevelt nel 1934. Churchill gli parla dei problemi dell’Impero, ma al presidente degli Stati Uniti interessa molto di più capire dove va la Cina, un Paese le cui prospettive giudica formidabili. Roosevelt non era un profeta, ma il capo intelligente di una grande potenza mondiale. E aveva capito che l’Europa non era più il centro del mondo» .

Settantasette anni dopo, l’argomento conserva una stringente attualità. Un esempio lo si è avuto nel novembre scorso, all’apertura dell’anno accademico dell’Università Bocconi di Milano, quando l’ospite speciale Kishore Mahbubani, rettore della Lee Kuan Yew School di Singapore, ha accusato la cultura europea di «arroganza e ignoranza» nei confronti dell’Asia. Ha detto: noi sappiamo molto di voi, studiamo la vostra cultura; voi di noi non sapete quasi niente. L’episodio è ricordato da Guido Rossi, che parla di impressionante provincialismo culturale del Vecchio Mondo. «Credo anch’io — dice il giurista, in procinto di festeggiare gli ottant’anni — che stia terminando il tempo del predominio occidentale. I Paesi asiatici compiono uno sforzo enorme per capire le altre culture senza perdere il senso delle proprie. L’Occidente s’impegna molto meno. E noi italiani sembriamo schiacciati da una sorta di appiattimento, di torpore, di eterno presente» . Non si tratta di «copiare» acriticamente l’Asia in quanto economia vincente, tanto meno nel campo delle libertà. Ma si tratta di capire i nostri tempi. Ad esempio: come si adatta il diritto alle nuove forme di capitalismo emergenti, sia in Occidente che in Oriente?
Quali regole dare a questa miscela inedita di interventismo degli Stati, di egoismo di pochi e di crescente debolezza di molti?

Il giurista, che sull’argomento sta per pubblicare un saggio intitolato Capitalismo e diritti umani, ritiene che la strada non sia quella di creare nuove leggi e nuove norme. «Ce ne sono fin troppe: un’autentica alluvione normativa, scoordinata e contraddittoria, che scende dai poteri legislativi ed esecutivi di tutti i Paesi. Penso che l’orizzonte del diritto si possa ampliare se i giudici interni e internazionali sapranno rivendicare con forza i principi delle libertà democratiche. Sia con valutazioni corrette della realtà, sia facendo appello a quel minimum di giustizia teorizzato da Giambattista Vico» . La tendenza, a partire dagli Stati Uniti, è cioè quella di far valere i principi generali alla base dei diritti dell’uomo, che poi possano estendersi a tutto il mondo. Ad esempio il principio che non si condannano a morte i minori. O che non si sfrutta il lavoro minorile. Utopie? Rossi sorride al ricordo di una vignetta di Schulz in cui Charlie Brown dice a Lucy, sotto l’ombrello, mentre diluvia: «Piove sempre sulla nostra generazione. Ma io sono ottimista» . Poi risponde: «Preferisco l’utopia futurista al catastrofismo dei Martin Rees e dei René Girard, che crea soltanto paura» .