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Il mistero dei poliedri regolari nella teoria platonica del «Timeo»

di Francesco Lamendola - 10/10/2011



Il «Timeo» è una delle ultime opere di Platone, come è attestato anche dal fatto che la forma dialogica viene quasi dissolta e che la figura di Socrate, che giganteggia nelle prime entro una realistica ambientazione ateniese, appare qui più distante e rarefatta, più ermetica nella sua ardua sapienza, più simile a quella di un maestro orfico o pitagorico.
Esso è universalmente conosciuto, anche da chi abbia fatto scarse letture filosofiche, per il tema fascinoso dell’Atlantide, qui descritta in alcune pagine memorabili, nel suo fulgido splendore come nella sua tragica, irreparabile distruzione; descrizione che viene ripresa nel dialogo successivo, il «Crizia» (un titolo che era il massimo del politicamente scorretto, dato che ricordava il più feroce dei Trenta Tiranni), rimasto però incompiuto.
Nel «Timeo» la riflessione filosofica di Platone si allarga a dismisura, diviene cosmica e visionaria, riflette lampi di luce corrusca, scolpisce immagini di rara grandiosità e potenza, nello sforzo supremo di cogliere l’origine del mondo e dell’universo, sfiorando il sublime: qualche cosa di paragonabile al grandioso sforzo compiuto da Dante per giungere alla visione finale di Dio, nell’ultimo canto della «Divina Commedia».
Lo slancio lirico, in questo dialogo, si intreccia e si fonde con il ragionamento matematico, in una sintesi che nessun altro filosofo, in nessuna epoca, ha saputo eguagliare, unendo l’immaginazione poetica con il rigore della precisione geometrica; e uno dei passaggi più affascinanti di questa ardua e fantastica operazione intellettuale è quello in cui Platone, per bocca di Socrate, descrive i cinque poliedri regolari (oggi perciò noti come “solidi platonici”) e istituisce una relazione fra essi e gli elementi fondamentali che entrano nella composizione dell’universo.
Ricordiamo, innanzitutto, cosa sono i poliedri regolari.
Un poliedro si dice regolare se le sue facce sono poligoni regolari congruenti ed i suoi angoloidi sono angoloidi congruenti.
Mentre su di una superficie piana si possono costruire infiniti poligoni regolari, cioè con un qualsiasi numero di lati, nello spazio tridimensionale si possono costruire solo cinque poliedri regolari, né uno di più, né uno di meno.
I matematici si sono chiesti, fin dall’antichità, perché proprio cinque e perché proprio quei cinque; è una questione complessa, che coinvolge, oltre alla matematica, la filosofia e persino il misticismo; e, più in generale, l’idea filosofica sottesa alla matematica: se, cioè, le costruzioni di quest’ultima siano puramente astratte e convenzionali o se corrispondano a delle realtà di per sé esistenti, indipendentemente dal fatto di essere individuate e, magari, raggruppate in assiomi e teoremi; ci riserviamo di tornarvi sopra in apposita sede.
I cinque poliedri regolari, comunque, detti anche solidi platonici per la ragione che abbiamo sopra esposta, sono il tetraedro, l’ottaedro, l’icosaedro, l’esaedro (più noto, semplicemente, come cubo) e il dodecaedro.
Ne diamo una rapida definizione: il tetraedro è quel solido che si ottiene facendo concorrere in un vertice tre triangoli equilateri; esso ha quattro facce, quattro vertici e sei spigoli.
L’ottaedro si ottiene facendo concorrere in un vertice quattro triangoli equilateri; esso ha otto facce, sei vertici e dodici spigoli.
L’icosaedro si ottiene facendo concorrere in un vertice cinque triangoli equilateri; esso ha venti facce, dodici vertici  e trenta spigoli.
L’esaedro o cubo si ottiene facendo concorrere in un vertice tre quadrati; esso ha sei facce, otto vertici  e dodici spigoli.
Infine, il dodecaedro si ottiene facendo concorrere in un vertice tre pentagoni regolari; esso ha dodici facce, venti vertici e trenta spigoli.
Ne risulta che le figure piane costitutive dei cinque solidi platonici sono solamente tre poligoni regolari: il triangolo equilatero per i primi tre (tetraedro, ottaedro e icosaedro), il quadrato per il terzo (esaedro o cubo) e il pentagono per il quinto (dodecaedro).
Ebbene: i primi quattro poliedri regolari corrispondono, per Platone, ai quattro elementi costitutivi dell’universo: la terra, l’acqua, l’aria e il fuoco; e precisamente il cubo alla terra, l’icosaedro all’acqua, l’ottaedro all’aria e il tetraedro al fuoco. Ne resta uno, il dodecaedro, che Platone sostiene essere stato utilizzato dal dio per decorare l’universo.
Riportiamo la parte centrale del discorso platonico sui poliedri regolari , nella traduzione di Enrico Pegone (da: «Platone, tutte le opere»; Roma, Newton & Compton, 1997, vol. IV, pp. 591-97):

«In primo luogo è chiaro a chiunque che fuoco,  terra, acqua e aria so corpi: e ogni specie di corpo ha anche profondità. Ed è assolutamente necessario che la profondità includa  la natura del piano; e la superficie piana e rettilinea è formata da triangoli. Tutti  i triangoli derivano da due triangoli, ciascuno dei qual ha un angolo retto e due acuti; e di questi triangoli l’uno ha  dall’una e dall’altra parte, una parte uguale di angolo retto diviso da lati uguali, l’altro due parti disuguali di angolo retto diviso da parti disuguali [cioè il triangolo isoscele e quello scaleno]. Questo è il principio che noi stabiliamo per il fuoco e per gli altri corpi, procedendo secondo un ragionamento necessario e verosimile: quanto ai principi superiori a questi, li conosce il dio, e, fra gli uomini, chi a lui è caro. Ora bisogna dire quali sono i quattro bellissimi corpi, fra di loro dissimili, di cui alcuni possono , dissolvendosi generarsi reciprocamente,: se scopriamo questa cosa, abbiamo la verità intorno alla nascita  della terra e del fuoco e di tutti gli altri elementi  che secondo una proporzione stanno nel mezzo. […]
lasciando da parte  gli altri triangoli, stabiliamo dunque che fra i molti triangoli uno sia il più bello, e cioè quel triangolo che ripetuto forma un terzo triangolo, cioè l’equilatero. […]
Ora definiamo meglio quello che prima si è detto in modo oscuro. Infatti ci sembrava che i quattro elementi traessero tutti origine  uno dall’atro, ma questa visione non era corretta.  I realtà i quattro elementi derivano dai triangoli che abbiamo scelto, e cioè tre si formano da quello che ha i lati disuguali, mentre il quarto è formato esso soltanto al triangolo isoscele. Non possono dunque dissolversi tutti quanti reciprocamente, in modo che da un grande numero di corpi piccoli nasca un piccolo numero di corpi grandi, e viceversa, ma questo vale soltanto per i primi tre: poiché derivano tutti da un solo triangolo, quando i più grandi si dissolvono, se ne formeranno molti e piccoli, i quali accolgono le figure a loro appropriate, e quando, invece numerosi corpi piccoli si dividono nei triangoli, derivando un solo numero di una sola massa, costituiranno un’altra grande specie.  Dunque, quanto si è detto sula loro reciproca generazione sia sufficiente. Quello che si deve qui di seguito spiegare è come si sia formata ciascuna specie di essi, e dalla combinazione di quanti numeri.  Si comincerà dalla prima specie, che è ordinata nel modo più semplice:  elemento di essa è il triangolo che ha l’ipotenusa  lunga il doppio del lato minore. Se si accostano due triangoli di questo tipo secondo la diagonale,  e per tre volte si ripete l’operazione, e le diagonali e i lati piccoli convergono nello stesso punto, come in un centro, dai sei triangoli nasce un solo triangolo equilatero: e se si compongono insieme quattro triangoli equilateri,l formano per ogni tre angoli piani un angolo solido che segue immediatamente il più ottuso degli angoli piani. Formati questi quattro angoli, abbiamo la prima specie di solidi [ossia il tetraedro, corrispondente al fuoco], che può dividere l’intera sfera in parti uguali e simili.  La seconda specie si forma dagli stessi triangoli, riuniti insieme in otto triangoli equilateri, in modo da formare un angolo solido da quattro angoli piani:  e quando vi siano sei angoli di questo tipo, il corpo della seconda specie è così compiuto [ossia l’ottaedro, corrispondente all’aria].  La terza specie è formata da centoventi triangoli connessi insieme, da dodici angoli solidi, compresi ciascuno da cinque triangoli equilateri piani, e ha per base venti triangoli equilateri [ed è l’icosaedro, corrispondete all’acqua]. E l’uno dei due elementi, dopo aver generato queste figure, terminò la sua funzione. Il triangolo isoscele generò la natura della quarta specie, che è formata da quattro triangoli isosceli con gli angoli retti congiunti nel centro, così da formare un tetragono equilatero: sei di questi tetragoni equilateri, accostati insieme, formano otto angoli solidi, ciascuno dei quali è formato dall’armonica combinazione di tre angoli piani eretti. La figura del corpo che così è formata è quella cubica, ed ha per base sei tetragoni equilateri piani [e il cubo è la forma della terra]. Vi era ancora una quinta combinazione [ossia il dodecaedro], di cui il dio si servì per decorare l’universo.»

Più avanti Platone, sempre per bocca di Socrate, spiega perché esista questa corrispondenza fra i poliedri regolari e gli elementi dell’universo; e precisa che tale corrispondenza è basata su di un ragionamento verosimile, che non pretende di essere vero al cento per cento.
Alla terra egli assegna la figura cubica perché, dice, fra le quattro specie di elementi, la terra è quella meno soggetta al movimento e, pertanto, quella che necessita della maggiore solidità: per cui, essendo il quadrato più stabile del triangolo, è logico che il solido generato dal quadrato, ossia l’esaedro o cubo, presenti maggiore stabilità di qualunque altro.
L’acqua, dopo la terra, è l’elemento meno soggetto al movimento; il fuoco è il più mobile e l’aria quello intermedio fra essi.
Ora, fra i rimanenti poliedri regolari, quello che ha il minor numero di basi triangolari è anche il più soggetto al movimento: per cui il tetraedro, che ha quattro facce, è la forma del fuoco. L’ottaedro è la forma dell’aria perché è il solido che ha un numero di facce triangolari maggiore del cubo (otto); e l’icosaedro è la forma dell’acqua perché ha un numero di facce triangolari ancora più grande (venti).
Il dodecaedro, poi, che possiede dodici facce pentagonali e quindi non rientra in questo schema di ragionamento, risulta essere il solido regolare preferito da Platone, tanto che egli lo dice prescelto dal dio per abbellire l’universo, né la cosa deve suscitare alcuna meraviglia: si ricordi che, per la mentalità greca, ha natura più nobile ciò che non deve soddisfare alcuna esigenza o necessità pratica, così come è più nobile il lavoro intellettuale, puro e disinteressato, di quanto non lo sia il lavoro manuale, finalizzato alla produzione di qualche bene o servizio.
Certo, si può pensare che Platone abbia un po’ esagerato, nel «Timeo», quanto a voler istituire una relazione precisa fra gli elementi di cui è formato l’universo e i poliedri regolari; ma che dire, allora, dell’astronomo Keplero, che vide in essi addirittura la ragione delle orbite dei pianeti (cfr. il nostro precedente articolo: «La teoria delle sfere di Keplero è un classico esempio di pseudoscienza?», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 30/09/2011).
Del resto, fin dall’antichità questi solidi regolari, così affascinanti nella loro misteriosa bellezza, avevano acceso la fantasia di quanti, come Pitagora, erano propensi a vedere nel numero e negli enti della matematica una cifra nascosta delle leggi universali, una sorta di linguaggio ermetico e parallelo a quello derivante dall’esperienza sensibile.
In effetti, esistono sia una spiegazione intuitiva, sia una spiegazione matematica per il fatto che i poliedri regolari siano cinque e solamente cinque.
La prima è che soltanto il triangolo equilatero, il quadrato e il pentagono possono essere facce di poliedri regolari, perché nel vertice di un poliedro devono convergere almeno tre facce che non stiano sul medesimo piano, per cui la somma dei loro angoli deve essere inferiore a un angolo giro; la seconda si fonda sulla formula di Eulero, che mette in relazione il numero delle facce, degli spigoli e dei vertici di un poliedro semplice.
Naturalmente, quel che pensava Platone dei solidi regolari va inscritto entro il quadro di riferimento della geometria euclidea; Euclide stesso si è occupato di essi, dalla tredicesima alla diciassettesima proposizione del tredicesimo libro degli «Elementi»; ma in un ipotetico spazio a quattro dimensioni, i soldi regolari sarebbero sei, mentre da cinque dimensioni in su, non ve ne sarebbero che tre.
E cosa dire di quei cristalli che, come il cloruro di sodio o il fluoruro di calcio, spontaneamente si dispongono in forma di poliedri regolari? Qui sembra aleggiare realmente un mistero…