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L’invenzione del turismo

di Stefano Di Ludovico - 11/10/2011


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Uno dei tratti caratterizzanti il mondo contemporaneo, i costumi e gli stili di vita dell’uomo dei nostri tempi, rispetto a quelli delle epoche del passato è senza dubbio costituito dal fenomeno del “turismo”, ovvero la consuetudine di abbandonare, durante il tempo libero, il luogo di residenza abituale per viaggiare o spostarsi in altri posti per riposo o svago. Può sembrare, questa, una costatazione a prima vista banale e scontata, tale da non meritare attenzione o approfondimento particolari: un po’ perché il turismo, da un lato, è ormai entrato a far parte così prepotentemente delle nostre abitudini di vita che, anche volendo, quasi con difficoltà riusciamo ad individuarlo e delinearlo quale “fenomeno” a se stante della nostra generale e quotidiana esistenza; un po’ perché, dall’altro, tale fenomeno viene comunemente associato, quale sua inevitabile conseguenza, all’avvento della società del “benessere”, che contraddistingue l’età contemporanea, e quindi, in generale, visto come espressione di un “bisogno” che, dopo tutto, l’uomo ha sempre avvertito ma che, date le precarie condizioni di vita materiale in cui nelle epoche passate era costretto a vivere, non poteva certo soddisfare.

In effetti, in un mondo dove il turismo è diventato un fenomeno di massa e che coinvolge gli individui costantemente durante l’intero corso dell’anno, quasi l’attività in cui più si è impegnati accanto a quella lavorativa, vedere in esso un qualcosa di specifico, di particolare, espressione di “bisogni” non affatto “naturali” ma esclusivi della nostra epoca potrebbe sembrare alquanto paradossale, tanto che la stessa definizione e precisa caratterizzazione di tale fenomeno – come detto sopra: viaggiare o spostarsi per riposo o svago… - appare piuttosto problematica. Siamo sicuri, però, che tale fenomeno non costituisca nulla di “straordinario”, di “nuovo”, di “insolito” e che il bisogno, il piacere di viaggiare, spostarsi durante il tempo libero siano dopo tutto un qualcosa di connaturato all’essere umano come vuole una convinzione tipica dell’ottica moderna e progressista secondo cui, in generale, l’uomo è stato sempre quello che oggi stesso è, ha sempre provato ed avuto gli stessi bisogni ed interessi e solo i limiti materiali hanno compromesso in passato la soddisfazione di tali necessità? Ad uno sguardo più attento, ad un’analisi più mirata, che sappiano scrollarsi di dosso le granitiche certezze e gli inveterati pregiudizi dell’immaginario moderno, tale convinzione potrà rivelarsi infondata o se non altro molto discutibile, e la stessa superficialità con cui il fenomeno del turismo viene solitamente considerato e caratterizzato espressione, in realtà, del suo essere strettamente legato ad una visione del mondo, quella moderna, che lungi dal costituire l’unica visione possibile ed immaginabile, si presenta per molti versi come un’eccezione, un unicum, nella pur millenaria storia dell’umanità.

In verità, stando alla comune definizione sopra utilizzata, già il riconnettersi il turismo al concetto di “tempo libero” ne rende oltremodo problematico il suo presunto essere espressione di un bisogno “naturale”, “universale”, dato che la nozione stessa di “tempo libero” appare strettamente legata ad una visione del tempo, ovvero ad un modo di viverlo ed organizzarlo, specifica dell’epoca moderna ed estranea all’approccio del passato. Il “tempo libero”, infatti, non è altro che un aspetto, un momento, dell’organizzazione del tutto “artificiale” del tempo propria dell’epoca moderna (essendo il “tempo libero” il tempo che l’organizzazione “tecnica” del mondo assegna alle cosiddette attività di svago o riposo rispetto al “tempo del lavoro”), quando le civiltà del passato si caratterizzavano per un approccio “naturale”, “organico”, con lo stesso, ovvero intimamente legato ai ritmi ed ai cicli naturali di esso, approccio che non prevedeva affatto la rigida suddivisione e giustapposizione “meccanica” proprie della modernità. E se il pregiudizio modernista vuole che fosse proprio la mancanza di “tempo libero” – a partire dalle precarie condizioni materiali di vita – a precludere all’uomo del passato la possibilità di dar soddisfazione ai suoi bisogni “turistici”, il fatto che nelle civiltà premoderne esistessero classi sociali così benestanti da essere completamente “libere” dal lavoro (“lavoro” sempre inteso nel senso moderno del termine, ché in realtà tali classi svolgevano funzioni essenziali nelle società tradizionali e che solo l’ottica moderna ha ritenuto superflue) ma alle quali l’idea di lasciare i luoghi di residenza abituale per andarsene in giro per il mondo pare non passasse minimamente per la testa basterebbe di per sé a dimostrare l’artificiosità di tale bisogno. Senza considerare il fatto che è sempre la particolare visione moderna a farci pregiudizialmente pensare che gran parte degli uomini delle società del passato godessero di poco “tempo libero”: è ché la suddivisione rigida e meccanica del tempo è stata imposta solo dalla modernità, essendo in precedenza i momenti ed in genere tutte le attività della vita legati organicamente insieme, ed anche gli appartenenti alle classi sociali più umili avevano “tempi liberi” dal lavoro per molti aspetti anche in quantità maggiore rispetto ad oggi ma non per questo sentivano il bisogno di impiegare tali momenti in attività turistiche!

Al di là di tali semplici considerazioni relative al “tempo” del turismo, un’analisi più attenta di ciò che questo realmente rappresenta non può che far emergere ancor più chiaramente come esso costituisca una realtà radicalmente nuova e specifica dell’epoca contemporanea. In cosa consiste, in ultima analisi, il turismo? Come detto, esso appare innanzi tutto come un modo per “riempire” il “tempo libero” dal lavoro, che può essere quello di un breve week-end come quello delle più lunghe “ferie estive”. E come viene riempito questo tempo? In pratica abbandonando gli abituali luoghi di residenza e recandosi, per svago o riposo (per “staccare”, come si suol dire) nei cosiddetti “luoghi di villeggiatura”, nei “luoghi di vacanza”, le “località turistiche” appunto, potendo queste essere costituite da “ambienti naturali” (mare, monti, laghi) o da “ambienti urbani”, cittadini, di una certa rilevanza storico-culturale (come le cosiddette “città d’arte”). L’attività turistica consiste dunque in specifiche attività di relax che la società e i suoi apparati all’uopo istituiti (la cosiddetta “industria turistica”) hanno ideato per riempire il “tempo libero” dell’uomo contemporaneo. Visto ciò, il turismo altro non risulta essere, in ultima istanza, che l’utilizzo, il “consumo”, di determinati “oggetti” (ambienti “naturali” come “urbani”) appositamente costruiti e organizzati dall’apparato produttivo per occupare il tempo libero dal lavoro. In pratica, un’attività “consumistica” come un’altra, alla fine un aspetto del più generale approccio “tecno-consumistico” al mondo proprio dell’uomo dell’epoca moderna, l’epoca appunto della Tecnica, ovvero del “consumo” strumentale del mondo fine a se stesso. Il turismo si presenta così come il prolungamento, l’estensione, anche al “tempo libero”, della logica tecno-consumistica, costituendo per molti aspetti il coronamento ultimo di tale logica: il “mare”, la “montagna”, le “città d’arte” non sono altro che “oggetti” appositamente ideati e costruiti al fine del loro stesso “consumo”, come qualsiasi altro oggetto del mondo contemporaneo, dove tutto, dal lavoro alla cultura, dall’istruzione alle attività ricreative del semplice tempo libero quotidiano, è stato reso tale dalla Megamacchina produttiva. Del resto, basta porre un attimo l’attenzione su espressioni quali “patrimonio” o “beni  ambientali”, “patrimonio” o “beni culturali”, “valorizzazione” di un territorio, di una città, con le quali comunemente si fa riferimento agli “oggetti” turistici, per rendersi facilmente conto che altro non sono questi che oggetti appunto di consumo al pari di tutti gli altri a cui ci relazioniamo quotidianamente nella nostra vita, e che solo in un’epoca come la nostra - l’epoca nata sotto il dominio della ragione tecno-consumistica – si poteva arrivare a considerare un ambiente naturale o la cultura come un “patrimonio” o un “bene”; espressioni, queste, assenti dal vocabolario stesso dell’uomo delle civiltà del passato che, evidentemente, in tutt’altro modo era solito concepire simili realtà.

Bastano queste semplici considerazioni a smentire la vulgata modernista sulla presunta “naturalezza” del turismo: se questo infatti non è altro che un aspetto della più generale logica tecno-consumistica propria della civiltà moderna, non si vede come possa essere espressione di un bisogno da sempre insito nell’animo umano, a meno che non si voglia ingenuamente ed acriticamente dar credito all’ideologia economicistica imperante secondo cui è lo stesso homo consumans a rappresentare l’“uomo universale”, cosicché tutte le società e civiltà del passato, dietro le “maschere” religiose, simboliche, etiche e politiche che le caratterizzavano, celavano anch’esse quel fondamento economicistico-strumentale che è alla base della società moderna. In realtà, come la ragione tecno-consumistica rappresenta uno specifico portato del mondo contemporaneo, ragione del tutto estranea al mondo premoderno che su altre logiche si fondava, così il “turismo” appare una costruzione, un’“invenzione”, propria del solo uomo moderno e che i nostri antenati, legati a quelle logiche “altre”, non avrebbero mai potuto concepire.

Visto ciò, il turismo costituisce qualcosa di totalmente “artificiale”, “innaturale”, fondato in ultima analisi su bisogni altrettanto artificiali e innaturali, ovvero bisogni indotti come qualsivoglia bisogno e attività ad esso connessa propri della civiltà della Tecnica. Come l’apparato produttivo, in generale, crea continuamente oggetti atti solo ad essere consumati, quindi artatamente modellati, imbellettati e infiocchettati in modo da stimolare il desiderio del consumatore, così l’industria turistica crea “ambienti”, “luoghi” e “situazioni” del tutto artificiali la cui unica ragion d’essere è di venir consumati durante il tempo libero. Cosa altro sono infatti le “località turistiche” se non ambienti del tutto “artificiali”, sapientemente e accuratamente “costruiti” e “preparati” per il consumo del “turista”?  E ciò costituisce una riprova dell’impossibilità, nelle epoche passate, dell’insorgenza di un qualcosa di solo lontanamente paragonabile a ciò che oggi identifichiamo con il turismo. L’uomo, intere comunità, hanno sempre vissuto lungo le coste, in valli e montagne, si sono sempre circondati, nelle loro città, di monumenti e bellezze artistiche: come mai però a nessuno, prima dell’avvento della società tecno-consumistica, è mai venuto in mente di attrezzare ombrelloni e sedie a sdraio, piste da sci e skilift, musei e visite guidate a chiese e monumenti? Possibile che nessuno si fosse accorto del “piacere”, del “relax” che simili attività comportano? Già, possibile: evidentemente perché tale “piacere” è un piacere concepibile solo nel contesto della società tecno-consumistica, che ha trasformato quegli “oggetti” in un qualcosa di radicalmente “altro” rispetto a ciò che essi erano e al modo in cui essi erano vissuti nelle società del passato. E così all’uomo di tali società espressioni tipo “a me piace il mare”, “a me invece la montagna” – piaceri che oggi contribuiscono in modo determinante a qualificare la personalità stessa di ciascuno di noi – sarebbero apparse espressioni senza senso, anche a chi magari lungo il mare o in montagna ci viveva da sempre! L’industria turistica ha creato così realtà completamente artificiali, come i bisogni ad esse relativi, realtà e bisogni che di “naturale” non hanno in verità nulla: paradossalmente, lo stesso turismo “ambientale”, il cosiddetto “piacere della natura”, che di primo acchito potrebbe essere considerato segno evidente della “naturalezza” del bisogno “turistico” quale bisogno di evasione dall’“artificiosità” della vita che siamo oggi costretti a vivere durante il “tempo del lavoro”, partecipa pienamente di tale “artificiosità”, essendo la “natura” in cui si esplica tale turismo anch’essa un ambiente artatamente costruito e predisposto per un consumo fine a se stesso e che di naturale non ha quindi proprio un bel niente! Semmai “naturale”, ovvero non mediato dall’artificiosità della logica tecno-consumistica, era il rapporto che l’uomo premoderno aveva con il suo ambiente di vita, e il “piacere” e la “bellezza” che questo poteva rappresentare coincidevano con il semplice viverci stesso da parte dell’uomo – erano un “piacere”, una “bellezza”, per così dire intrinseci, strutturali all’oggetto stesso – e non certo con il far di questo ambiente un parco giochi all’aperto o per picnic! E il discorso potrebbe estendersi al cosiddetto turismo “culturale”, il turismo d’arte per i palati sopraffini, visto che nessun “centro storico”, nessuna chiesa, sono mai stati costruiti per soddisfare il bisogno turistico di svago o riposo - neanche solo in relazione al “piacere” della fruizione “estetica” di tali oggetti –, magari all’interno di un “pacchetto” in cui l’agenzia di turno ha inserito tutta un’altra serie di piaceri e attrazioni che di culturale o artistico hanno ben poco! Anche qui, la “bellezza” di tali oggetti è in realtà - e in tal modo era vissuta dagli uomini delle epoche che li hanno originariamente concepiti - una bellezza intrinseca, “ontologica”, propria di una visione “tradizionale” dell’abitare e del costruire del tutto estranea alla visione dell’uomo moderno e all’uso “strumentale” e “consumistico” con cui esso si pone di fronte a simili realtà.

In poche parole, ciò con cui il turismo mette a contatto non sono certo la natura, l’arte o la cultura, ma soltanto paesaggi artificiali, soltanto “cartoline”, atte a soddisfare il bisogno di consumo dell’uomo contemporaneo al pari di tutti gli altri ninnoli e gingilli da vetrina vari che la Megamacchina produttiva sforna a ritmo continuo per la sua auto-riproduzione e di cui l’uomo del passato non aveva alcuna necessità. E come il bisogno di consumare è espressione del “nichilismo” e del vuoto esistenziale che dominano l’orizzonte dell’uomo moderno dopo il tramonto del mondo tradizionale con i riferimenti ed i valori “forti” che lo reggevano, il bisogno di turismo, di “viaggiare”, di spostarsi continuamente da un posto all’altro, cela l’assenza di prospettive e di interessi autentici in cui l’uomo moderno si ritrova appena, smesso di lavorare, ha un po’ di “tempo libero”. Non avendo più alcun saldo riferimento, valore, con cui dare senso alla sua vita, esso non sa far altro che riempire il vuoto “interiore” tramite il consumo di oggetti “esteriori”, recandosi in altri posti e visitando nuovi ambienti, che lo distraggano dalla “noia” di dover restare nell’abituale luogo di residenza dove, evidentemente, non trova alcun senso e alcun piacere a permanere. Il turismo si rivela essere così, nella sua essenza più profonda, una “fuga”, uno scappare da quella che dopo tutto dovrebbe essere la nostra “casa”, quindi i nostri affetti, i nostri interessi, le nostre radici; “casa” dove pertanto non ci sentiamo a nostro agio: la frenesia con cui l’uomo moderno abbandona la sua residenza non appena se ne presenta l’occasione, non appena ha un po’ di “tempo libero” – tanto che ormai i più passano il tempo lavorativo a “programmare” la prossima vacanza – la dice lunga sul nichilismo assoluto che domina la sua esistenza quotidiana e l’insoddisfazione di fondo che il vivere a contatto con quello che dovrebbe essere il suo mondo gli procura. Costretti a vivere, “gettati”, come siamo, in metropoli alienanti e spersonalizzanti, dove regna incontrastato l’anonimato più totale e dove ormai “abitiamo” solo fisicamente e non più umanamente ed affettivamente anche riguardo ai rapporti familiari ed intimi, non sappiamo far altro che riempire tale vuoto con il “consumo” di altri ambienti ed altri posti, di per sé altrettanto alienanti, spersonalizzanti ed anonimi e che l’industria turistica cerca invece di spacciarci come attraenti, ristoratori e rigeneratori. Come accennato, in tal senso il turismo rappresenta solo un prolungamento, un’estensione dell’attività consumistica, dello “shopping”, in cui siamo immersi ogni giorno, la sola con la quale sappiamo riempire il “vuoto” del nostro tempo libero anche quotidiano. Nel passato, invece, quando la vita era fondata su un orizzonte di senso saldo e condiviso di cui la propria “casa”, la propria “città”, costituivano il “centro”, ovvero le radici dell’identità stessa di ciascuno, il tempo libero era utilizzato proprio per conoscere, vivere, apprezzare meglio e più profondamente tale “centro”, con le sue relazioni ed i suoi affetti, e nessuno, guarda caso, aveva voglia di scappare! Come diceva Herder, proprio agli arbori del pieno dispiegamento della civiltà moderna, “l’età in cui si desidera emigrare e in cui la speranza è riposta nei viaggi all’estero è già un’età di malattia, di enfiagione, di pienezza malsana, è già presagio di morte”.

Non è un caso, così, che le aree ed i paesi del pianeta in cui il “turismo” non ha ancora attecchito sono le aree ed i paesi non del tutto omologati alla logica tecno-consumistica della modernità e quindi ancora legati, per molti aspetti, a valori e visioni del mondo di tipo tradizionale. Vedi ad esempio i paesi islamici: come nelle nostre città d’Occidente è possibile incrociare abitualmente “turisti” delle più svariate nazionalità e culture (europei, americani, giapponesi, ecc.) ma raramente “musulmani”, allo stesso modo i paesi islamici sono i più refrattari ad aprirsi al turismo, ovvero a fare delle loro città e del loro territorio delle “località turistiche” (ovviamente ci riferiamo a quei musulmani e a quei paesi saldamente legati, appunto, alla loro genuina tradizione e non ancora omologatisi alla mentalità occidentale). Ciò perché orientando i musulmani la loro esistenza su valori e punti di riferimento forti che appagano pienamente il loro bisogno di senso anche a livello di vita quotidiana, non c’è alcun interesse a cercare altrove, in giro per il mondo, quello che noi occidentali abbiamo perso a casa nostra, dentro di noi: come i nostri antenati, di mettersi a fare i “turisti” essi non provano alcun bisogno! Così non passerebbe mai loro per la testa di fare dei loro mari, dei loro monti e delle loro città degli oggetti di consumo; per non parlare dei loro luoghi di culto: fare di una moschea un posto come un altro da far “visitare” a dei turisti sarebbe per un musulmano una cosa semplicemente assurda e blasfema! E anche nei paesi islamici “apertisi” alla mentalità occidentale visite del genere sono possibili in modo molto circoscritto e solo a certe particolari condizioni. Allo stesso tempo è esperienza di molti turisti occidentali l’essersi ritrovati guardati storto o addirittura presi a sberle perché sorpresi – magari anche a scattar foto, il gesto tecno-consumistico “turistico” per eccellenza – in strade o luoghi di città mediorientali posti fuori dagli itinerari turistici “autorizzati” e nei quali ci si era inavvertitamente avventurati! O magari additati al pubblico ludibrio perché beccati in una spiaggia – che ovviamente si era trovato inconcepibilmente “abbandonata” – in mutande a prendere il sole o a fare il bagno in acqua, dato che per i locali, come ancora per i nostri nonni, mostrare di avere simili “bisogni” può significare solo che si è usciti di senno! Per noi occidentali tutto ciò è invece solo indice di “arretratezza”, di “inciviltà”, visto che tali paesi, evidentemente, non sanno “valorizzare” il loro pur splendido “patrimonio” ambientale e artistico, e ciò la dice lunga su quale sia il nostro criterio di “progresso” e di “civiltà”, criterio in base al quale si considera “civile” il rendere ogni cosa, da una spiaggia ad un luogo di culto, un oggetto di consumo e non il viverla e rispettarla per quello che è!

E a proposito di cosa è e dovrebbe essere ritenuto “civile”, ovviamente il turismo “culturale” viene comunemente preso ad esempio del progresso e appunto del maggior grado di “civilizzazione” della nostra epoca rispetto a quelle del passato, offrendo tale tipo di turismo a fasce di popolazione sempre più ampie la possibilità di “acculturarsi”, “istruirsi”, attraverso i viaggi e le visite nei luoghi d’arte e di cultura. Quale epoca, infatti, se non la nostra, ha sviluppato come nessun’altra il senso della “salvaguardia”, della “protezione” delle testimonianze e dei resti del passato? In realtà, a guardar bene, la cosiddetta “cultura museale”, che di tale sensibilità è espressione, è anch’essa, come il fenomeno generale del turismo di cui è solo una variante, il portato dell’epoca “nichilistica”, ovvero di un’epoca, la nostra, che, avendo perso ogni valore e riferimento tradizionali e presentandosi quindi come un’epoca di “morte”, non sa far altro che raccogliere e preservare, secondo un caratteristico spirito “collezionistico”, ciò che le civiltà “vive” e vitali del passato hanno saputo creare non sapendo essa creare più nulla. Come dimostrano molti studi di antropologia e di etnologia (basti pensare ad esempio alle ricerche svolte in tal senso da Mircea Eliade), il bisogno di riordinare, rileggere e valorizzare nella loro totalità le esperienze e le vicende del passato è proprio di chi si appresta a morire e a lasciare questo mondo, di comunità che, per una ragione o per l’altra, sentono come prossima la propria fine, la propria estinzione, bisogno che quindi è alla base di riti funebri di diverse civiltà e culture. Anche a livello di semplice esperienza personale, ancora oggi ciascuno di noi, all’avvicinarsi dell’ultima ora, sente il bisogno di rivedere tutto il suo passato a mo’ di bilancio di una vita. Di più, gli studi suddetti ci mostrano come tali riti caratterizzino soprattutto culture prive di orizzonte “storico” (come sono un po’ tutte le civiltà tradizionali in cui domina solitamente una visione “ciclica” del tempo); di per sé, ovvero nelle fasi ascendenti e vitali del loro ciclo, tali culture di far tesoro degli eventi e delle testimonianze del passato non rivelano alcun bisogno (sono infatti culture prive di “memoria storica”, essendo la loro una “memoria mitica”). Non è un caso così che la cultura museale si sia affermata in Occidente parallelamente a quella “storicistica”, essendone alla fine un suo specifico portato, a partire dagli inizi dell’Ottocento – non per nulla lo stesso secolo che vedrà la nascita del “turismo” – ovvero a partire dal tramonto del mondo tradizionale e l’avvento di quello moderno, sentito evidentemente dai suoi stessi fautori e sostenitori come il mondo della “decadenza”, il mondo dell’imminente “fine della civiltà”, e che quindi avverte l’insopprimibile e “nobile” bisogno di far riemergere dall’oblio tutto il passato, tutto ciò che la civiltà ha in precedenza prodotto e costruito, restaurandolo e imbalsamandolo per contemplarlo l’ultima volta prima del crollo finale. Tale visione si riflette nelle grandi filosofie della storia dell’Ottocento (hegeliana, marxista, positivista), che difatti presuppongono tutte il concetto di “fine della storia”, di “epoca ultima”, che viene fatta coincidere proprio con la nostra, epoca oltre la quale lo “spirito umano”, avendo “detto” già tutto, non sarà in grado di dire più nulla, ovvero di creare e realizzare alcunché. Lungi dall’essere espressione di “civilizzazione”, la cultura museale testimonia in realtà la fine di ogni “civiltà”! O meglio, per dirla con gli autori della decadence e del “tramonto dell’Occidente” d’inizio Novecento, la cosiddetta Zivilisation di altro non è segno che della morte di ogni autentica “civiltà”, di ogni autentica Kultur! Come affermava Jünger, “il mondo diventa brutto e pieno di musei”…

A tal proposito, può essere interessante ricordare ciò che accadde qualche anno fa in Afghanistan, quando i Talebani allora al potere decisero la distruzione di alcune gigantesche statue del Buddha presenti nel loro paese: tutto il mondo “civilizzato” fu attraversato da un’ondata di sdegno e gridò allo scandalo, arrivandosi a mobilitare anche l’ONU che considerava quelle statue “patrimonio” dell’umanità. Agli occhi dell’Occidente, la decisione dei Talebani costituiva un’ulteriore prova dell’“inciviltà” e della “barbarie” di tale gruppo politico, dato che la “civiltà” avrebbe preteso l’immediata “musealizzazione” di quei reperti e quindi la loro trasformazione in attrazione turistica. Il paradosso è che tale bisogno di “musealizzare” era proprio di chi – occidentali con funzionari ONU annessi –, ormai completamente secolarizzato, nel buddismo come in qualsivoglia altra Tradizione altro non poteva vedere, di per sé, che un ammasso di superstizioni e assurdità, mentre chi come i Talebani era ancorato ad una visione tradizionale del mondo – quindi, nella sua dimensione “interna”, “sostanziale”, non difforme da quella buddista – di tale “musealizzazione” non vedeva alcuna necessità e non trovava nulla di scandaloso nel sopprimere le testimonianze esteriori e materiali di quella visione. E ciò in piena conformità con quella che è sempre stata la mentalità tradizionale: ogni civiltà del passato si è sempre affermata “distruggendo” le civiltà precedenti ed edificando i suoi “monumenti”, i segni esteriori della sua affermazione, sulle rovine della precedente (essendo unica la “sostanza” interna di ogni Tradizione, agli “accidenti” esterni non si dà più di tanta importanza); mentre l’esanime civiltà storicista e nichilista moderna, che sul rifiuto e sulla distruzione della “sostanza” di ogni Tradizione si è edificata, altro bisogno non sa provare che conservare le sembianze esteriori delle civiltà tradizionali del passato per farne oggetto di consumo! E così i Talebani che sono espressione di una grande civiltà – quella islamica – sarebbero “incivili”; noi che quella civiltà, come quella buddista, consideriamo solo un insieme di ridicole superstizioni saremmo “civili” perché di tali Tradizioni facciamo delle attrattive turistiche buone a distrarci dalla noia di un’esistenza sempre più vuota ed insensata!

Lungi dal rappresentare una forma “immediata”, “popolare”, “di massa”, di fruizione culturale, di “acculturamento”, il turismo ci mette in verità in contatto con una realtà del tutto esteriore, artificiale, costruita ad hoc, per un utilizzo meramente “consumistico”, una realtà quindi “falsa”, “subdola”, che di un’autentica “cultura”, sapienza, rappresenta l’opposto, il suo rovesciamento. E coinvolgendo ormai tutto l’ambiente circostante – da quello naturale a quello urbano – il turismo viene a rappresentare la totale “falsificazione” della realtà; la trasformazione di questa in una colossale “finzione”, in uno “spettacolo” permanente concepito al solo fine di indurre gli individui alla sua fruizione. A meno che non si voglia ingenuamente pensare che ciò che al turista viene presentato, offerto, ciò che in vista della sua visita viene organizzato, predisposto – sia esso una spiaggia, una montagna, una città d’arte, o l’insieme di tali realtà abilmente riunite insieme nei cosiddetti “pacchetti” che il turista fa spesso suoi senza nemmeno sapere bene dove concretamente si appresti ad andare – corrisponda all’effettiva realtà, all’effettivo essere di quei luoghi, di quei posti, quando invece, come in relazione a tutti gli oggetti dell’industria consumistica, questi vengono artatamente costruiti e manipolati apposta per il loro uso “turistico”. Ecco quindi in cosa consiste l’esser “civile”, “avanzato”, dei paesi che, come auspicano e sollecitano i corifei del progresso e della modernità, sanno “sfruttare”, “valorizzare”, il loro “patrimonio” ambientale e culturale: trasformare tutto il loro mondo in una “cartolina”, in uno “spettacolo”, in un ninnolo da vetrina! E anche la presunta “varietà” di luoghi, culture, costumi con cui il turista entrerebbe in contatto – “varietà” che costituisce la ragion d’essere stessa del turismo, ovvero la ricerca continua di novità rispetto alla monotonia rappresentata dal dover risiedere sempre nello stesso posto, e considerata sinonimo di arricchimento culturale – non deve trarre in inganno: essa è la varietà propria della logica tecno-consumistica stessa, che si afferma e si impone proprio a partire dall’inesauribile capacità di creare oggetti sempre nuovi e diversi pronti a sostituire e soppiantare i precedenti per mantenere in vita e riavviare il meccanismo; la logica dell’usa e getta, essenza stessa della società consumista. Così, dietro l’apparenza dei mille costumi, usi e tradizioni con cui il turista si illude di entrare in rapporto, si nasconde l’omologazione e l’appiattimento dell’unica logica che è sottesa a tale varietà, quella appunto tecno-consumista. E più tale logica avanza, estendendo la sua influenza tentacolare ormai all’intero pianeta, più le autentiche, molteplici e diversificate tradizioni, culture e civiltà tendono a scomparire e il mondo a trasformarsi in un unico grande supermercato. Ciò con cui il turismo ci mette in contatto nei vari paesi e nelle varie località dove esso ci conduce è infatti mero “folklore”, folklore che di un’autentica cultura è solo la morta parodia, non essendo altro che il recupero di esanimi tradizioni che gli abitanti del posto, evidentemente omologati anch’essi agli stili di vita occidentali, non vivono in realtà più e che l’industria turistica stessa si è adoperata a riesumare proprio ad uso e consumo dei visitatori di turno. Così, più le diverse e variegate culture che arricchivano il mondo vanno scomparendo, più aumenta il folklore; più ad ogni latitudine si mangia e ci si veste allo stesso modo, più aumentano i ristoranti etnici e le feste in costumi tradizionali! E là dove, come nei paesi islamici, quelle autentiche culture sopravvivono e resistono, oppongono al “turismo” un netto rifiuto, avvertendolo e considerandolo a ragione come un qualcosa che con la conoscenza e l’apprezzamento effettivi di un dato mondo e di una data tradizione non ha nulla a che vedere!

Con il suo diffondersi a livello mondiale, il turismo va a rappresentare il culmine del processo di trasformazione tecno-consumistica del pianeta, pianeta ormai ridotto a “villaggio turistico” globale, non essendoci praticamente più nulla, dai mari ai monti, dalle città alle campagne, dai luoghi di culto a qualsiasi cosa o oggetto anche di uso quotidiano che l’industria turistica non abbia preso d’assalto: come noto, oggi è di moda – pardon, segno di “civilizzazione”!... – fare “musei” di tutto, delle opere d’arte come degli attrezzi agricoli, delle scoperte scientifiche come degli utensili da cucina! E più aumentano il vuoto, la noia, l’insensatezza della nostra esistenza e con questi il grigiore, la bruttezza, la mostruosità dei luoghi dove siamo costretti a vivere, più cresce la voglia di partire, scappare, fuggire: come molti al giorno d’oggi non hanno remore – non rendendosi conto dell’assurdità di ciò che dicono – ad affermare che il loro hobby preferito è quello di “fare shopping”, uno dei piaceri, dei passatempi più gettonati dell’uomo moderno è quello di “viaggiare”, non si sa bene dove, perché e per far cosa, soltanto che si vedano, manipolino e consumino oggetti diversi da quelli con cui abbiamo a che fare abitualmente. Soprafatti dalla ferrea e inesorabile logica della Tecnica, il fine si è completamente risolto nel mezzo! E sempre più capita di sentire, nelle interviste televisive, gente dichiarare che nel caso di vincita milionaria alla lotteria di turno altro non saprebbe fare con l’ingente somma in palio che “viaggiare tutta la vita!”: pare così che all’uomo della nostra epoca non resti altro orizzonte, altra prospettiva di vita che quella del consumismo fine a se stesso una volta liberatosi completamente dalla necessità del lavoro! Ecco le “magnifiche sorti e progressive”! Ci si illude di dare un senso alla propria esistenza in questo modo, di riempire il vuoto che sentiamo dentro con la ricerca compulsiva e l’effimero possesso di un’artificiale realtà esterna, chiamata a surrogare l’assenza di ogni autentica e salda identità interna. Ci si illude che il viaggio, la scoperta, la conoscenza, consistano nell’abbandonare la propria casa, la propria terra, il proprio mondo, per perdersi in una vana e vacua curiosità verso l’esoticità, l’originalità, la diversità fini a se stesse ed artatamente costruite. E più la Tecnica facilita ogni spostamento e rende raggiungibili i posti più impensabili, più l’uomo moderno si dimostra incapace di intraprendere il solo viaggio atto a dar davvero senso alla sua esistenza, quel “viaggio”, quel “cammino interiore”, che dovrebbe condurlo a conoscere innanzi tutto se stesso e il suo vero destino. Come diceva Goethe, “fare un viaggio di scoperta non significa vedere nuovi posti, ma avere nuovi occhi”: occhi con i quali tornare a guardarci innanzi tutto dentro e a guardare negli occhi chi ci è vicino; occhi che ci guidino alla progressiva e continua scoperta di noi stessi e di ciò che prossimamente ci circonda. Così, non si tratta tanto di programmare meglio i nostri viaggi; “nuovi occhi” non significa scegliere con maggiore serietà e discernimento le mete delle prossime vacanze: anche le nuove ed emergenti forme di turismo “alternativo”, quello che suole definirsi “turismo consapevole” o “turismo etico” che dir si voglia, del vuoto orizzonte tecno-consumistico rischiano di rappresentare soltanto la variante “etico-umanitaria” finché non ne rimettono in discussione la logica di fondo, al pari, in generale, di tutto il cosiddetto “consumo etico”, del “consumo critico”, che, rimanendo all’interno del medesimo orizzonte, finiscono, anche solo a livello linguistico, per costituire soltanto dei paradossali ossimori. I “nuovi occhi” potranno essere solo quelli in grado di condurci, contro il frenetico ed insensato spostarsi da un posto all’altro proprio dei nostri tempi, verso nuovi punti fermi, verso nuovi “centri” di riferimento, i soli capaci di ridare significato autentico al nostro esistere ed arricchirlo della vera conoscenza. In un mondo sempre più disorientato che ha fatto della “mobilità” il suo paradigma, sarà proprio la capacità di restare “immobili” che potrà offrirci un nuovo “orientamento”. Perché, come dice la massima buddista, “chi sta fermo, va; chi va, sta fermo”.