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Perché Walter Scott non destina Rebecca in moglie a Ivanhoe?

di Francesco Lamendola - 04/01/2012

 

 

Da quando Walter Scott pubblicò il suo romanzo probabilmente più famoso, «Ivanhoe», nel 1819 (appena quattro anni dopo che i “quadrati” di Wellington hanno infranto, sulla pianura di Waterloo, l’ultimo sogno napoleonico di dominio mondiale), il successo di pubblico che gli arrise non è praticamente venuto mai meno, facendo di quell’opera un vero e proprio classico della letteratura e il prototipo riconosciuto del sottogenere denominato romanzo storico.

Benché ambientato in un tempo assai remoto, il Medioevo inglese (intorno all’anno 1194), per merito della nuova sensibilità romantica il libro impone e conserva una freschezza che ha scavalcato le generazioni e si avvia felicemente al giro di boa del secondo secolo di vita, senza mostrare cedimenti o segni di stanchezza.

I suoi fasti sono stati rinverditi anche dall’interesse che  il cinema gli ha riservato, specialmente ad opera del film omonimo che il regista Richard Thorpe, in una co-produzione anglo-americana, ha girato nel 1952, con grande successo internazionale, anche per merito delle star che lo interpretavano: Robert Taylor nella parte di Sir Wilfred di Ivanhoe, Elizabeth Taylor nel ruolo di Rebecca e Joan Fontaine in quello di Lady Rowena, per non citare che i nomi più famosi.

Finalmente il Medioevo usciva dal triste e cupo alone che la letteratura illuminista gli aveva creato intorno e si presentava al pubblico europeo in una luce smagliante e decisamente più simpatica; e finalmente la storia usciva dagli scaffali polverosi degli studiosi eruditi, impeccabili ma noiosi, per entrare un po’ in tutte le case, romanzata appena quel che basta per catturare l’attenzione dei lettori, per entusiasmarli, per proiettarli nella dimensione di un passato che, pur essendo chiaramente fantasioso, rispettava nondimeno una cornice verosimile e seriamente documentata.

Inoltre, Walter Scott approfittava della vicenda storica descritta nel suo romanzo per gettare, e sia pure “post rem”, un elemento di raccordo e di rappacificazione fra l’antica stirpe sassone e la più recente stirpe normanna, sanando così, e sia pure idealmente e retrospettivamente, una ferita secolare nella coscienza nazionale inglese, in accordo con la “pax britannica” che, appunto dopo Waterloo, i suoi connazionali si accingevano a imporre a livello mondiale.

C’era, però, nella trama del romanzo (e del film), un elemento che conservava una nota irrisolta, una specie di punto di domanda; elemento tanto più notevole, e in un certo senso inquietante, se si considera che la struttura dell’intera vicenda è condotta con ineccepibile rigore e con impeccabile maestria compositiva, in modo che tutti gli elementi “aperti” trovino la loro conclusione e il loro compimento nell’ordine risolutivo dell’”happy end”.

Intendiamo parlare del destino di Rebecca, la bella figlia del ricco e avaro ebreo Isaac di York, per difendere la quale il protagonista, Ivanhoe, affronta in duello il suo antagonista, il templare Bois-Guilbert, a sua volta innamorato di Rebecca, che troverà la morte non per le ferite riportate, ma per un infarto dovuto alle tensioni dei suoi contrastanti sentimenti.

Rebecca è chiaramente innamorata di Ivanhoe; è lei che lo cura delle ferite riportate nel torneo di Ashby-de-la-Zouche, in cui egli aveva sfidato e sconfitto tutti i campioni normanni; ma è ebrea, dunque appartenente ad una comunità assai malvista per ragioni sia economiche che religiose; e, inoltre, la forza delle cose spinge Ivanhoe verso Lady Rowena, la bellissima orfana adottata dal sassone Sir Cedric, che era innamorata di lui sin da prima che egli partisse per la crociata in Terrasanta.

Rebecca non è un personaggio di contorno, ha il carattere e la stoffa della protagonista: intelligente, appassionata, idealista, seducente, volitiva, dotata di un altissimo spirito di sacrificio. Al termine del romanzo, dopo che Ivanhoe e Rowena hanno celebrato le loro nozze nella cattedrale di York, ella si reca da quest’ultima, le dona una collana e degli orecchini di diamanti e, nel lasciarle i suoi ringraziamenti per il marito, le annuncia che sta per partire, con suo padre, per il Sultanato di Granada, in Spagna, ove prenderà i voti della perpetua castità.

È un colloquio importante, più per il non detto che per quanto viene detto a voce alta; un colloquio struggente, perché ad esso è sotteso l’amore impossibile di Rebecca per Ivanhoe e la sua decisione di farsi dignitosamente da parte, in modo da non essere di ostacolo alla felicità dei due sposi, ma anche per non dover continuare a vivere, per la sua stessa pace, vicino a loro.

In un certo senso, il personaggio di Rebecca richiama al lettore quello di Nausicaa, la figlia del re dei Feaci, Alcinoo, e di Arete; il rilievo da lei assunto nel VI libro dell’«Odissea», le circostanze commoventi che precedono l’incontro con Ulisse e, poi, quelle delicatamente romantiche in cui esso si svolge, suscitano l’impressione che ella svolgerà un ruolo importante nel seguito della vicenda; invece, esaurita la sua funzione (pianificata da Atena) di facilitare la buona accoglienza dell’eroe presso i Feaci e ottenere da essi i mezzi per tornare a Itaca, la vediamo uscire di scena con pudore verginale, in un’aura un po’ malinconica.

E, così come qualche critico ha affermato che non si capisce perché Nausicaa compaia nel poema omerico, che cosa ci stia a fare e perché esca di scena in quel tono minore, le stesse osservazioni si potrebbero fare anche a proposito di Rebecca nel romanzo di Walter Scott: perché ci viene presentata in maniera tanto intrigante; perché si dà tanto da fare attorno al protagonista, e più tardi lui attorno a lei; e perché se ne va in punta di piedi, senza nemmeno un ultimo colloquio, un’ultima spiegazione con il suo eroe, cosa che nemmeno a Nausicaa era stata negata?

Si tratta di una stranezza, di una carenza dell’ordito narrativo; oppure la spiegazione risiede proprio nelle pieghe di quest’ultimo, in una suprema astuzia dell’autore, per così dire, riguardo allo svolgimento dell’intreccio?

Ha osservato a questo proposito Enrico Groppali (nella Introduzione a W. Scott, «Ivanhoe», traduzione di Laura Ferruta, Garzanti, Milano, 1979, 1989, pp. XVIII-XIX):

 

«… Scott si rivela uno “sportsman” di prim’ordine: l’erudizione (e l’invincibile attrazione per il passato) finalmente spogliata di omaggi cortigiani o di ossequi di parte rivela la qualità fondamentale dello scrittore: descrivere la lucida geometria di una partita dove, nonostante il sangue abbondantemente profuso e gli artifici per desta l’attenzione del lettore, neppure per un attimo tremiamo per la sorte dell’eroe perché troppo occupati dal’andante sportivo della manifestazione restituitaci attimo per attimo in una prosa splendidamente “ralentie”.  Siamo catturati dal terso nitore dell’esposizione: meraviglioso giocattolo che ci si anima sotto gli occhi. All’esito, la schiacciante vittoria dell’eroe, l’autore non può opporre altra determinante se non la spietata reazione: Scott gioca il suo “romanzo in dieci giornate” utilizzando pochi dati fondamentali. Logica trasparenza del conservatore illuminato che giostra con fredda eleganza facendo ruotare congegni, apparentemente complicatissimi, a coppia simmetrica. azione e reazione per lui significano conquista/imboscata, assalto liberatore e parziale vittoria, inseguimento e definitivo ristabilirsi dell’ordine. In quest’ottica la simpatia istintiva per un personaggio di raccordo può rivelarsi promozionale per l’eroe favorito? Rispondiamo di sì a condizione che la “simpatia” possa influenza re il lettore-acquirente e che, in ossequio alla legge di prammatica (la consuetudine), il personaggio sparisca al momento opportuno per non turbare, con una inopportuna “mésalliance”, il prestigio carismatico dell’Eroe Designato. Cosa ci confida infatti l’autore a proposito della sorte di Rebecca?  Criticato per non averla destinata in moglie a Ivanhoe si giustifica con un argomento inoppugnabile: Rebecca non può sposare Ivanhoe perché ebrea (“i pregiudizi del tempo rendevano quasi impossibile un’unione del genere”: Scott non vuole rinunciare allo status di storico erudito) ma soprattutto perché l’infelice destino di Rebecca si rivela funzionale, col su patetismo, al successo del libro (“una personalità di quel livello… viene ad essere degradata… da un tentativo di premiare i suoi meriti con una prosperità materiale. Non è questa la ricompensa che la Provvidenza ha ritenuta degna del merito sofferente….”). I personaggi sono dunque funzioni di secondo grado della Funzione.»

 

Questa, in effetti, ci sembra la spiegazione più convincente, o forse, per dir meglio, la meno insoddisfacente, circa la presenza di Rebecca e il significato della sua figura nell’economia generale del romanzo.

Rebecca non vive di vita propria, ma nasce dall’esigenza di mettere maggiormente in rilievo le virtù del protagonista, Ivanhoe: la sua cavalleria, il suo disinteresse, la sua generosità, la sua lealtà e il suo coraggio a tutta prova.

Senza di lei, l’alone leggendario che circonda Ivanhoe risulterebbe meno significativo, meno perfetto; per mezzo di lei, esso brilla più che mai, si esalta nella manifestazione delle sue più nobili attitudini, del suo spirito autenticamente cavalleresco.

Inoltre, cosa non certo secondaria, alla fine della storia Rebecca si sacrifica: lei bellissima, lei ricchissima, lei appassionata e nobilmente coerente con i propri valori, primo dei quali la fedeltà alla propria religione e al proprio popolo, rinuncia volontariamente alla sua parte di felicità per far risaltare, per contrasto, mediante il patetismo della sua partenza, la piena felicità di Ivanhoe e Rowena - la quale ultima, però, non dà l’impressione di poter rivaleggiare realmente con lei, se ella non avesse risolto di andarsene.

In qualche modo, Rowena trionfa perché Rebecca le ha ceduto volontariamente il primo posto, al quale avrebbe potuto aspirare per se stessa; e nella sua vittoria c’è qualcosa di sbiadito, di incompleto, perché il lettore sente chiaramente che essa non sarebbe stata tale, se la giovane ebrea non avesse fatto la scelta di allontanarsi di propria volontà.

Quanto a Sir Wilfred, giunti alla fine del romanzo ci si domanda, con sgomento, se egli ne sia stato veramente il protagonista, oppure no. Certo, Ivanhoe è forte, coraggioso, intrepido e assolutamente cavalleresco; inoltre non possiede la tracotanza tipica degli altri feudatari, il che ne fa una simpatica mosca bianca rispetto alla sua classe di appartenenza.

Ma si può dire che egli abbia una personalità spiccata; che emerga per le sue qualità individuali, di singolo individuo, oltre a quelle proprie del suo ceto?  Si può dire che la sua personalità si imprima nella mente del lettore, che occupi un posto nel suo cuore e nella sua memoria, non per ciò che egli rappresenta, ma per ciò che effettivamente è, come essere umano?

No davvero; sbiadito è Sir Wilfred come persona, quasi insignificante come singolo individuo; e le circostanze eccezionali, nelle quali si viene a trovare e che gli permettono di emergere come una figura di prima grandezza, non sono tanto dovute alla sua iniziativa, quanto alla sapiente macchina affabulatoria ideata e messa a punto da Walter Scott, con straordinaria perizia, fin nei più piccoli particolari.

C’era dunque bisogno, per dare spessore e vivacità alla sua figura, di una presenza come quella di Rebecca, affascinante ma discreta al tempo stesso; di un personaggio capace di suscitare il massimo interesse da parte del lettore, ma senza porre in ombra il protagonista, anzi, contribuendo ad esaltarlo per via indiretta.

È proprio qui, tuttavia, che appaiono i limiti dell’operazione letteraria concepita ed eseguita, con indubbia sapienza compositiva, da Walter Scott: perché egli non ha saputo, o potuto, valorizzare ed esaltare in pari misura la dimensione psicologica della vicenda; se lo avesse fatto, si sarebbe accorto che un protagonista deve saper vivere di vita propria e deve sapersi imporre all’attenzione del lettore, senza bisogno di stratagemmi e di figure di raccordo; se non vi riesce con le sue sole forze, ciò significa che non possiede una natura vitale, autonoma e del tutto convincente.

«Ivanhoe» di Walter Scott è una perfetta macchina da guerra: è un libro studiato fin nei minimi dettagli per incuriosire, entusiasmare, trasportare il lettore. Perciò è un’opera letteraria quasi perfetta nel suo genere; ma le manca tuttavia una cosa, forse la più importante: la capacità di vivere di vita propria, come se fosse una storia assolutamente reale, che nasce dalla vita e non dalla sottile strategia imprenditoriale dello scrittore, ben deciso a piacere ad un pubblico il più vasto possibile.