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Bello, vero?

di Francesco Lamendola - 26/06/2012

 


C’è una sorpresa in serbo per chi, percorrendo uno degli angoli più tranquilli e romantici della Mitteleuropa, abbia lasciato Udine in direzione dell’anfiteatro di colline moreniche che la avvolgono da nord.

Nei pressi del paese di Tavagnacco, in un contesto paesaggistico che, nonostante la vicina autostrada e la statale Pontebbana, è ancora in buona misura integro e rurale, egli vedrà ergersi imponente, coi suoi otto piani d’altezza (più un piano seminterrato per i parcheggi), un edificio a dir poco avveniristico, costato una cifra favolosa e progettato da uno dei mostri sacri dell’architettura mondiale, il californiano Thom Mayne, e da uno degli studi di progettazione più noti al mondo, Morphosis, di Santa Monica, vincitore del Pritzker Prize nel 2005.

Si tratta della nuova sede dell’agenzia locale della carinziana Hypo Bank, un istituto di credito austriaco che ha commissionato a Mayne un edificio “monumentale”, capace di esprimere a pieno l’identità e la “mission”, come oggi si usa dire, dell’edificio.

Si tratta di un complesso architettonico a vela, inclinato di ben quattordici gradi rispetto alle pareti sud e nord; una specie di ecomostro di vetro e acciaio, iniziato nel 2004 ed entrato in funzione nei primi mesi del 2012, in una delle zone più sismiche del vecchio continente (le ferite del terremoto del 1976 sono state rimarginate solo da poco, ma si vede che certi ricordi passano in fretta e, soprattutto, non insegnano nulla); il che non ha impedito al sindaco locale, al momento dell’inaugurazione, di compiacersi per la prontezza con la quale il suo comune ha accolto la proposta, lanciando una frecciata ai comuni vicini (Udine innanzitutto) che, per usare le sue parole, non hanno saputo cogliere al volo l’occasione favorevole che si presentava, visto che certi treni passano una volta sola.

La struttura portante è in cemento armato, ferro e acciaio, mentre lo scheletro è rivestito da una facciata di cemento e vetro. L’intero complesso si estende su oltre 110.000 mq. (per intenderci, l’equivalente di ventidue campi da calcio) ed ospita, oltre alla sede della banca (33.000 mq.), un’area direzionale, un centro congressi con quattro sale, gli sportelli bancari, gli archivi, una piscina - gentilmente offerta al comune -, con una vasca per gli adulti e una per i bambini, un albergo, l’immancabile centro fitness e infine una scuola materna per 25 bambini (i figli dei dipendenti?). Il costo totale dell’opera è stato di 35,7 milioni di euro.

Tutti contenti, dunque, per questo formidabile segno di progresso e di vitalità economica, che sembra gettare un ponte fra l’Italia e il Centro Europa, all’insegna della modernità, dell’efficienza, della politica del fare? Contento il sindaco, contenti gli amministratori, contenta la popolazione (e che schiattino d’invidia i comuni vicini)?

A costo di passare per retrogradi e nemici del progresso, a noi sembra che si sia consumato l’ennesimo stupro del territorio e che si sia eretta l’ennesima cattedrale al Dio Denaro, nel più totale disprezzo della tradizione, del paesaggio, della vocazione del territorio (rurale e specificamente viticola), della stessa sicurezza e del buon senso - abbiamo già detto che questa è una zona ad altissimo rischio sismico - e all’insegna della bruttezza, della cialtroneria culturale e della demagogia.

Le magnifiche colline friulane avevano realmente bisogno di affidarsi all’opera demiurgica di questo architetto di Los Angeles, il cui studio di progettazione è sorto, nel 1972, con la volontà dichiarata di operare al di fuori della forme tradizionali, come si vide fin dalla prima opera, la scuola di Pasadena in cui studiava il figlio del gran genio?

Afferma Wikipedia che «la filosofia progettuale di Morphosis sorge nell’interesse per la realizzazione di opere con un significato che può essere compreso “assorbendo” la cultura per la quale l’opera è stata fatta. Questa è in opposizione alla filosofia tradizionale che sovrappone influenze esterne distanti al caso particolare dell’edificio da realizzare»; e che «la parola greca “morphosis”, da cui è derivato il nome dello studio, vuol dire “formare o essere in formazione”: seguendo questo principio lo studio lavora rispondendo alle dinamiche culturali e sociali del mondo moderno», ammettendo che alcune forme scultoree «appaiono molto complicate», anche se, conclude rassicurante (?), il lavoro di calcolo è stato molto semplificato dalle recenti procedure computerizzate.

Par di capire, da questi cenni piuttosto oscuri, che la “filosofia” architettonica di Thom Mayne, autore di analoghi “capolavori”, sempre per la Hypo Bank, in quel di Klagenfurt e di Zagabria, consista nella piena espressione dello scopo per cui un complesso viene realizzato: in questo caso, la vocazione bancaria.

Come si vede, è una filosofia che non tiene in alcun conto il contesto paesaggistico e urbano, che non sa che farsene del tessuto edilizio preesistente, che ignora deliberatamente l’armonia con gli altri edifici o con le caratteristiche ambientali: per cui, se, con questo criterio, si decidesse di costruire una chiesa accanto a una piscina o una stazione della metropolitana accanto ad un museo, ciascuno di questi edificio verrebbe progettato in maniera perfettamente autonoma, puntando esclusivamente ad esprimere la cultura per la quale è stato voluto.

È difficile immaginare una filosofia architettonica più arrogante di questa, più “moderna” nel senso peggiore del termine, ossia più incurante di ciò che esisteva prima: non è il nuovo edificio che deve cercare di inserirsi in un determinato tessuto, semmai è il contrario: prima si costruisce in base alla logica strumentale dei committenti e poi gli aborigeni, volenti o nolenti, si adatteranno alla novità, magari con lo zuccherino della piscina comunale gratuita o con l’eterno miraggio di chissà quali miracolose ricadute economiche sul territorio.

Poco importa se, nei pressi della Hypo Bank di Tavagnacco non c’è ombra di ferrovia, né di servizio di autobus urbani, per cui sia i dipendenti che i clienti del complesso dovranno servirsi dell’automobile privata, intasando l’area di traffico, come se non bastasse il “taglio” della campagna effettuato dall’Autostrada Alpe-Adria; e poco importa se l’architettura del paese, il verde delle sue colline, i vigneti e i campi che lo circondano poco o niente si adattano alla colossale struttura in cemento e acciaio che svetta in alto come un puro emblema di potenza e di ricchezza, dato che nulla rendeva necessario un simile slancio orizzontale.

Qui non siamo fra i grattacieli di Los Angeles, ma in uno degli angoli più incantevoli del vecchio continente; e se gli architetti americani come Thom Mayne hanno, nella loro patria, tutto lo spazio che vogliono a disposizione dei loro capricci e dei loro esperimenti, qui da noi le cose stanno altrimenti; e, a parte il fatto che la cultura europea è perfettamente in grado di fare da sé, senza bisogno di importare queste discutibili idee e questi obbrobriosi stilemi architettonici da oltre Atlantico, l’Europa, l’Italia e il Friuli vantano un territorio ricchissimo di storia e di bellezze naturali, che sono un valore in se stesse e il cui sfregio appare tanto più ingiustificato, quanto più si va diffondendo l’idea che ogni territorio e ogni popolazione dovrebbero custodire, proteggere e valorizzare la propria specificità, non negarla e distruggerla.

Insomma, se un ecomostro come quello di Tavagnacco potrebbe anche passare quasi inosservato ai margini del Deserto di Mojave o, magari, sulle rive del Gran Lato Salato, cioè in un territorio “neutro” perché vuoto di storia e di tradizioni (vuoto, si capisce, dopo che i suoi abitanti originari, gli Indiani d’America, sono stati sterminati in nome della “civiltà” anglosassone), nelle colline moreniche del Friuli esso rivela il suo volto incongruo e brutale: un vero e proprio pugno nell’occhio e sul cuore di quanti amano quei luoghi, perché ci abitano e perché nutrono affetto e rispetto per la natura e per il proprio retaggio culturale.

Questo è veramente il volto prepotente e odioso della globalizzazione, che passa sulle cose e sui sentimenti delle persone come un ruolo compressore, obbedendo esclusivamente alle leggi della produzione e del massimo profitto.

In fondo, non c’è nulla di cui stupirsi e neanche da scandalizzarsi. Oggi che le banche dominano il mondo, governano gli Stati, decidono le politiche nazionali, fanno e disfano il destino dell’umanità, a partire dai più deboli - anziani e bambini -, non c’è nulla di strano nel fatto che un influente gruppo bancario si insedi in maniera tanto invasiva sul territorio, al di là dei confini di Stato, con una sicumera e con una iattanza che gli derivano dal sentirsi onnipotente e con una volontà di ostentazione che deve ricordare alle plebi anonime - che sono quelle, poi, le quali porteranno i loro sudati risparmi nelle sue casseforti, ove con un colpo di bacchetta magica verranno trasformati in titoli e azioni ad uso delle banche stesse - la loro sudditanza.

Ormai l’arroganza dei banchieri non conosce più limiti ed essi possono perfino prendersi il lusso di recitare la parte dei generosi, per esempio regalando alle comunità delle opere pubbliche, onde assumere le vesti dei benefattori disinteressati e quasi dei filantropi di professione - come se la loro vera professione non fosse il saccheggio del lavoro e del risparmio altrui.

D’altra parte, ci sembra già di sentire le obiezioni a tutto questo discorso: «Ma che cosa vorreste, dunque: fermare il progresso? Non vi accorgete che siete sempre contro qualcosa o qualcuno, contro la modernità, contro le opportunità di sviluppo e di lavoro, cosa tanto più preziosa in questi tempi di crisi globale e nazionale? ».

Eh già, il progresso: questa fata Morgana dietro la quale siamo sempre tutti a correre con la lingua di fuori; che sembra sempre a portata di mano e sempre ci sfugge, misteriosamente, diabolicamente, con tutte le sue promesse di felicità e benessere; e intanto, in cambio di questa fata Morgana, di questa illusione ottica, noi stiamo spremendo lacrime e sangue e stiamo sacrificando il nostro presente nonché, molto probabilmente, ci stiamo giocando anche l’avvenire delle future generazioni.

Ma lasciamo perdere, in questa sede, le discussioni teoriche pro o contro il modello socio-economico sviluppista, basato sull’assunto ideologico del progresso illimitato (palesemente auto-contraddittorio, almeno per chi possegga un minimo di autentico raziocinio, quello dei fini e non solo dei mezzi da impiegare), e torniamo sul terreno concreto dell’assetto urbanistico e della gestione dei valori paesaggistici e ambientali in un determinato territorio.

Ci rendiamo perfettamente conto che la vita stessa, e quindi anche le dinamiche dell’economia (non solo quelle, però!), esigono una continua trasformazione del territorio; sappiamo benissimo che un paesaggio non può rimane immobile e uguale a se stesso nel corso delle generazioni e che sarebbe sbagliato e irragionevole opporsi sempre e comunque, per una forma di puro pregiudizio conservatore, a qualunque cambiamento, a qualsiasi innovazione.

Il punto è se tale trasformazione debba essere governata o abbandonata al caso; il punto è se sia giusto lasciare carta bianca a un qualunque Thom Mayne in vena di stranezze, il cui fine principale è quello di stupire e strappare un lungo «Oooohhh!» di meraviglia ai villici del luogo, i quali solo così, a poco a poco, verranno finalmente alfabetizzati alla grammatica del progresso e solo così potranno convertirsi alle Tavole della nuova Legge Globale.

Vi sono, fondamentalmente, due filosofie della trasformazione paesaggistica: una selvaggiamente predatrice e manipolatrice, riduzionista, materialista ed economicista; ed una olistica, rispettosa degli enti e dotata di anima, che cerca di gravare quanto meno possibile sul territorio, che cerca di esercitare il minimo indispensabile dell’impatto ecologico, che si sforza di rispettare la tradizione e di mediare fra i valori formali del presente e quelli del passato vicino e remoto, oltre che con l’ambiente naturale.

A nostro giudizio, solo la seconda è capace di assicurare una trasformazione dei luoghi che sappia essere graduale, fisiologica e, nella misura del possibile, armoniosa; perché solo essa parte dall’assunto che i luoghi non sono mai neutri, ma possiedono un’anima, e che quest’anima è essenziale al benessere di quanti vivono e lavorano in essi.

Certo, che un piccolo comune di provincia disponga di un piscina è una bella cosa; anche disporre di una banca vicino a casa è una buona cosa. Però attenzione («timeo Danaos et dona ferentes», ammonisce Virgilio), nessuno dà niente per niente e tanto meno le banche: siamo sicuri che non ci stiamo giocando la primogenitura per un misero piatto di lenticchie? Perché le lenticchie saranno anche appetitose, però una volta mangiate, altro non rimane; mentre la primogenitura è un bene immateriale che dura per sempre. E aver cura del territorio che abbiamo ricevuto in eredità dai nostri nonni e dai nostri genitori, è un dovere e un impegno, ma anche una gioia e un privilegio…