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Cento modi di falsificare la storia a maggior gloria della dea Ragione

di Francesco Lamendola - 20/05/2013


 


 

Quella di José Sebastião de Carvalho e Melo, conte di Oeiras e marchese di Pombal (1699-1782) è una delle figure più caratteristiche del cosiddetto dispotismo illuminato, con la notevole differenza, rispetto a un Federico II di Prussia o una Maria Teresa d’Austria, che egli esercitò di fatto funzioni dittatoriali, pur essendo un semplice primo ministro del re del Portogallo Giuseppe I, per più di cinque lustri: dal 1750 al 1777.

Tipico esponente della cultura politica illuminista, laica, anticlericale, riformista, si impegnò su almeno quattro fronti per rinnovare le strutture della nazione: economico, religioso, scolastico e artistico-culturale. In campo economico, la sua politica fu una mescolanza di mercantilismo, secondo il modello della Francia di Colbert, e dunque di protezionismo, e di impegno per dare slancio alle imprese commerciali e specialmente alle piccole imprese, secondo il modello inglese derivato dalle idee di Locke; quanto alle colonie, e specialmente al Brasile, si tradusse in un rafforzamento del monopolio della madrepatria e in un ulteriore giro di vite contro la loro autonomia commerciale. Questa è la ragione per cui, ancor oggi, gli storici brasiliani danno un giudizio severo sull’azione del marchese di Pombal, a differenza di quelli portoghesi, i quali, in genere, ne mettono in risalto gli aspetti postivi. Nel complesso, comunque, anche questi ultimi devono riconoscere che le riforme economiche del marchese si risolsero in un sostanziale insuccesso: i suoi ammiratori, peraltro, tendono ad “assolvere” il loro idolo, riversando la responsabilità - e ciò vale, ovviamente, soprattutto per gli storici di tendenza marxista - sulla scarsa coscienza di classe della borghesia portoghese.

In campo religioso il marchese di Pombal condusse una dura campagna giurisdizionalista contro la Chiesa cattolica, che assunse, a tratti, aspetti da vero e proprio “Kulturkampf” ante litteram: non solo ridusse notevolmente il potere dell’Inquisizione, ma espulse i Gesuiti sia dal regno che dalle colonie, nel 1759, e abolì le discriminazioni a danno dei “nuovi cristiani”, ossia dei convertiti dall’ebraismo, comminando pene severissime (fustigazione pubblica, esilio, confisca dei beni) per quanti osassero anche solo adoperare una tale espressione.

Pure in questo caso, gli storici di tendenza “progressista” lodano, e a ragione, la sua azione di ridimensionamento di alcuni privilegi esagerati della Chiesa, come il diritto d’asilo, che erano degenerati in veri e propri abusi; ma si guardano bene dal ricordare che la cacciata dei Gesuiti dalle colonie, e specialmente dalle riduzioni del Paraguay, che la Spagna aveva ceduto al Portogallo nel 1750, con il Trattato di Madrid (in cambio dell’Uruguay e del riconoscimento al dominio sulle Filippine), si tradusse in una feroce repressione militare contro le popolazioni indigene di quelle regioni, che, vinte, vennero poi sottoposte a ogni sorta di maltrattamento, spogliate delle loro terre, private dei mezzi di sussistenza e praticamente schiavizzate.

Fra parentesi, la proibizione del Nheengatu, specie di lingua franca parlata in Brasile dalle popolazioni di ceppo Tupi-Guaranì e mescolata alla parlata portoghese, privò quel grande Paese, in cui Pombal non vedeva altro che una gigantesca colonia di sfruttamento, della possibilità di diventare bilingue, avvicinando la cultura dei nativi a quella dei colonizzatori e dunque rafforzando, con poca lungimiranza, il centralismo e l’autoritarismo di Lisbona.

Per quanto riguarda la riforma scolastica, essa fu dettata dalla volontà di portare l’intero sistema educativo sotto il controllo dello Stato, sottraendolo alla Chiesa; va detto, inoltre che, nel suo odio contro i Gesuiti, Pombal fece addirittura chiudere l’Università di Évora, diretta, appunto dai Gesuiti, e trasformare quella di Coimbra, già famosa per la sua antichissima facoltà di Teologia, in un centro di studi scientifici e giuridici di stampo prettamente liberale.

L’ambito in cui l’azione riformatrice del marchese di Pombal si esercitò forse con maggior successo, anche se non era, probabilmente, quello cui egli attribuiva la maggiore importanza, fu quello artistico e culturale, e ciò soprattutto per una circostanza fortuita: il catastrofica terremoto che distrusse Lisbona nel 1755, e che gli offrì l’occasione per ricostruirla, in tempi brevissimi, secondo i criteri funzionali e razionalisti propri del pensiero illuminista. Alcuni studiosi pensano che la ricostruzione di Lisbona sia stata l’opera più riuscita e più durevole del marchese, nonché quella in cui meglio appare l’ideologia “progressista” e “modernista” da lui impersonata: un colpo di spugna che mutò volto al vecchio Portogallo e che relegò l’architettura barocca nelle aree periferiche del Paese, come un retaggio ormai inutile del passato.

Fra questi studiosi possiamo annoverare José-Augusto França, che si è particolarmente concentrato sul ruolo innovatore svolto dal governo di Pombal nell’ambito dell’architettura, della scultura e della pittura, sostenendo che, prima di lui, il Portogallo era un Paese arretrato, quasi decrepito, anzi peggio, un Paese ormai culturalmente e artisticamente allo sbando, un Paese “privo di cultura”, dove gli artisti e perfino gli artigiani non facevano che vivacchiare, ripetendo forme e stilemi obsoleti, senza la minima originalità, senza il minimo sforzo creativo: specchio fedele, secondo lui, dell’arretratezza economica e sociale del Paese, beninteso facendo un confronto con le ricche, dinamiche e progredite nazioni dell’Europa settentrionale.

È quasi inutile dire che questa interpretazione della storia culturale del Portogallo, che vede l’era antecedente a Pombal come un cumulo di cose vecchie e morte, come una specie di deserto o di lugubre cimitero, e l’epoca di Pombal come un coraggioso tentativo di rinascita, pur se solo parzialmente riuscito, può essere condivisa solo da quanti concordano con la visione storiografica propria dell’Illuminismo, del Positivismo e del Neo-positvismo, che è una visione di tipo sostanzialmente teologico (anche se non lo sa): prima c’erano il Male, il peccato, le tenebre dell’ignoranza e dell’oscurantismo; poi è arrivata la redenzione, per mezzo dei Lumi della ragione, che hanno messo in fuga i fantasmi del passato.

Vale la pena di riportare, almeno parzialmente, le conclusioni dell’Autore, per meglio comprendere lo spirito da cui il suo libro è animato (da: José-Augusto França, «Una città dell’Illuminismo. La Lisbona del marchese di Pombal»; titolo originale: «Une ville des Lumières. La Lisbonne de Pombal», École Pratique des Hautes Études, Paris; traduzione dal francese di Giusi Rapisarda Tafuri, Roma, Officina Edizioni, 1972, pp. 266-78):

 

«Abbiamo esaminato la morte di una città e la nascita di un’altra. In una certa misura, abbiamo contemporaneamente assistito alla fine di una vecchia società e all’inizio di una società moderna.

La nuova Lisbona si è ben prestata quale proscenio per il dramma politico-sociale che, sotto la regia del marchese di Pombal, si è andato svolgendo per la durata di un quarto di secolo. L’autore, purtroppo, non è riuscito a costruire un’opera sufficientemente solida, e perché le forze in gioco non raggiungevano un livello sufficiente di impegno, e perché gli attori chiamati a recitare non conoscevano sufficientemente la loro parte. […]

Abbiamo visto come i borghesi pombalini non siano stati in grado di definire nuove forme di vita sociale. Essi esitavano, all’interno di una società sconvolta da trasformazioni economiche e politiche generate da loro stessi: esitavano, in altre parole, alle soglie di un mondo nuovo, di cui non erano sicuri di essere i protagonisti. La loro azione – o meglio quella di Pombal – non ha così potuto avere effetti duraturi. Non esiste modernizzazione al di fuori di un piano perseguito con sforzi attenti e permanenti, con una lucida e “illuminata” coscienza. […]

Il popolo, il “buon popolo” di Lisbona, rimane estraneo a tutto ciò. Uscito dalla storia da circa tre secoli, esso continua a rimanere, ai tempi di Pombal, miserabile e affamato: dopo la distruzione dell’Ospedale di Tutti i Santi, che gli offriva ampio spazio per riscaldarsi al sole, al buon sole di Lisbona, esso deserta il “Rossio” per mendicare altrove.

In un “paese d’importazione”, nel quale idee, istituzioni e uomini erano importati, se “la gestione economica di Pombal risultò quasi sempre infelice” (J. Lucio de Azevedo), il suo approccio allo spirito dell’Illuminismo non fece che “snaturare, rendere caricaturali e compromettere” (Antonio Sergio) i consigli dei pochi intellettuali portoghesi aperti al pensiero europeo. […]

Priva di gusto e di cultura, priva di collezionisti d’erte, la stessa virtù artistica era pressoché inesistente: in Portogallo il ruolo degli artisti non oltrepassava quello degli artigiani.  […] All’interno di una società priva di gusto e di cultura non può neanche svilupparsi un degno artigianato. […] Pur seguendo la tradizione, che le era dopo tutto estranea, l’arte portoghese del ‘700 non ha avuto la possibilità di crearne un’altra, come accadeva contemporaneamente in Europa. […] Si direbbe che Pombal, i cui sogni improntati da una certa ingenuità furono dappertutto frustrati, sul piano economico come sul piano artistico, abbia ottenuto una rivincita nella costruzione della nuova capitale. Ciò fu possibile, d’altra parte, principalmente nella misura in cui si trattava di un problema ben definito. Quanto al denaro, alla mano d’opera, ai materiali, Pombal sapeva bene come ottenerli. Nel quadro complessivo della sua attività di riformatore, i problemi posti dai cantieri di Lisbona erano gli unici la cui soluzione no fosse direttamente legata alla soluzione di altri problemi. […] Occorrevano, ben inteso, molta volontà, molta disciplina, perfino molto dispotismo. Ma erano queste, appunto, le qualità di Pombal. […] Abbiamo già constatato che lo stile pombalino è  unzione diretta dell’urbanistica della nuova città. […] Ne XVIII secolo in Portogallo, l’unico evento veramente originale è stato il terremoto del 1755 e la conseguente nascita di una nuova città. Quest’ultima è, per i suoi limiti, l’ultima delle antiche città europee, e , per le qualità intrinseche la prima delle città moderne. Come difficilmente altrove, vi si vedono incrociarsi direttrici di gusto ed esigenze proprie di un tempo in rapido cambiamento.. […] Dovunque, in Europa, l’Illuminismo e la sua estetica si sono sviluppati, nel bene come nel male. Anche il Portogallo pombalino ha conosciuto tale sviluppo, e il modo i cui vi ha partecipato conduce alle conclusioni fondamentali della nostra ricerca. […]

In Portogallo, il valore delle arti, preconizzato da Diderot, non ha mai avuto un ruolo nel governo della nazione, se non nell’interpretazione datane nella nuova Lisbona. Tale intervento ha costituito un’importanza da valutare adeguatamente: essa non traduce al livello del singolo privato le innovazioni di una classe (come nella Parigi di Colbert, interamente ricoperta di cantieri di palazzi borghesi), ma attua una riforma profonda, messa in opera ad una scala collettiva, di massa, con più di dieci chilometri di edifici realizzati secondo un ordine rigoroso, con una piazza consacrata al culto di un nuovo mito – il Commercio – e che assorbe in sé un antico mito: la monarchia. […] A corte, come nel Portogallo settentrionale, il Barocco regna sovrano, sostenuto da una società retrograda, cortigiana e reazionaria, e dalla struttura ancora feudale, stabilizzata da un sistema di inalienabili possedimenti rurali. A Lisbona, al contrario, un’arte razionale, funzionale, definita, malgrado tutte le sue incertezze, da rapporti con il linguaggio classico a livello del’estetica europea, si fonda su una società urbana e diversificata in formazione, su una borghesia mercantile in sviluppo. Anche se in ritardo, la partita storica si conclude così anche in Portogallo. E non è fra i meriti minori del castello di Queluz quello di servire, in quanto paradosso, ad accentuare, per antitesi, il significato del fenomeno lisbonese. Quest’ultimo ­- possiamo ormai affermarlo senza esitazioni – evidenziando in modo eloquente la congiuntura estetica e sociale europea della seconda metà del XVIII secolo, costituisce non a caso l’esempio più completo di città dell’Illuminismo.»

 

In questo esempio di prosa storiografica, quel che colpisce è il totale disprezzo per ogni sforzo di oggettività e di imparzialità, l’assoluta naturalezza con cui l’Autore dichiara e proclama le sue simpatie e le sue antipatie, dando perfettamente per scontato che esse coincidano con il Vero storico. E tutto ciò sotto l’alto patrocinio della Scuola pratica di Alti Studi parigina, nel più puro stile illuminista: possibile che la Massoneria non ci abbia messo lo zampino?

Quale storico degno di questo nome, ad esempio, non proverebbe un certo imbarazzo ad affermare che il personaggio di cui scrive la biografia, “purtroppo”, non ha potuto condurre a termine la sua opera? Eppure è proprio quello che fa José-Augusto França (a p. 266), parlando del marchese di Pombal, pur dopo aver ricordato che la sua permanenza al governo è durata niente meno che un quarto di secolo!

Quindi, dopo aver ribadito, peraltro dandolo sempre per scontato, che “modernizzazione” è sinonimo di “coscienza illuminata” (p. 267), egli tira la conclusione che la politica di Pombal fallì, o ebbe un successo solo parziale e temporaneo, perché il ceto borghese che avrebbe dovuto esserne il vero protagonista mancava di “coscienza di classe” e lasciò ogni onere e ogni responsabilità nelle mani di Pombal, uomo solo al comando; e ciò, appunto, perché quei borghesi non avevano sviluppato una coscienza sufficientemente lucida e “illuminata”. Ragionamento ellittico simile a un paralogismo, in cui si torna sempre al punto di dar ragione a colui che lo formula.

Curioso, a dr poco, anche il sofisma sul rapporto fra lo spirito artistico dell’Illuminismo e la ricostruzione di Lisbona dopo il terremoto de 1755: l’Autore non si perita di affermare (p.276) che il modo in cui il Portogallo ha partecipato allo sviluppo del’estetica europea di matrice illuminista «conduce alle conclusioni fondamentali della (sua) ricerca». Alla faccia della modestia: raramente si trova un così sbandierato esempio di auto-referenzialità.

Nell’ultima pagina l’Autore, che finora si era mostrato più che disinvolto nel portare avanti le sue tesi, getta definitivamente, per così dire, la maschera dello storico e indossa apertamente quella del polemista battagliero e compiaciuto: se l’Illuminismo è il “bene”, allora ciò che lo precede, anche nel campo dell’arte, cioè il Barocco, non può essere che il “male”: onore, dunque, al marchese di Pombal che ha ricostruito Lisbona con criteri estetici di marca illuminista e onore anche al castello di Queluz che, per contrasto - dice França - mostra quanto arretrata, reazionaria, codina e sgradevole fosse l’arte dell’epoca pre-illuminista. Non per nulla, malgrado tutte le insufficienze, Lisbona è una città “illuminista”, anzi, dal punto di vista architettonico e urbanistico, essa costituisce l’esempio più completo di città illuminista.

Peccato che la gran maggioranza del popolo portoghese non la pensi così, e che resti orgoglioso della propria tradizione barocca, tanto disprezzata dagli storici dell’arte come  França, e relegato nel nord del Paese, quasi in esilio; ma qui viene fuori un altro aspetto caratteristico del pensiero di codesti storici neo-illuministi, tutti debitamente massonici e anticlericali: il complesso del provincialismo, di cui anche noi Italiani sappiamo qualcosa. Per quei signori, tutto ciò che viene dall’Europa è “bene”, mentre è “male” ciò che appartiene alla propria tradizione, inferiore e aborigena, primitiva, superstiziosa, eccetera: laddove, per “Europa”, si intendono la Francia illuminista e, ancor più, l’Inghilterra e l’Olanda che, essendo nazioni protestanti, capitaliste e creatrici di moderni imperi commerciali, marittimi e finanziari, rappresentano il “non plus ultra” agli occhi degli intellettuali delle “province” arretrate, come, appunto, il Portogallo.

È significativo il tono di soddisfazione con cui, al termine della sua opera, José-Augusto França osserva che «anche se in ritardo, la partita storica si conclude così anche in Portogallo» (p. 278): come dire: meglio ai rigori che mai, l’importante è che l’Illuminismo e la modernità abbiano vinto sulla reazione e sull’oscurantismo gesuita. «Écrasez l’infâme», dunque, per dirla con Voltaire! È un ritornello che anche noi Italiani abbiamo sentito tante, troppe volte: quando non hanno altri argomenti per sostenere il loro “progressismo”, magari velleitario e un po’ furbesco, i nostri intellettuali sono soliti rintronarci la testa dicendo che dobbiamo prendere a modello le nazioni “veramente civili”, che sono, guarda caso, proprio le stesse cui guardava l’”illuminato” marchese di Pombal: tanto poche cose sono cambiate nel panorama ideologico europeo, sotto le apparenze gattopardesche di continui mutamenti, durante gli ultimi tre secoli.

Vi sono cento modi per falsificare la storia, e quello adottato da José-Augusto França è solo uno dei tanti. Gli storici inglesi la falsificano tuttora, imperterriti, quando, ad esempio, presentano la “glorious Revolution” del 1688 come una civilissima e incruenta rivoluzione contro l’assolutismo e contro il ripristino del cattolicesimo: dimenticandosi, però, di dire che Giacomo II, durante il suo regno, non aveva tentato di ripristinare né l’uno, né l’altro; e che essa non fu per nulla incruenta, visto che molto sangue scorse nella battaglia del Boyne, molte repressioni dovettero subire gli Irlandesi; repressioni che, ancor oggi, ogni 1° luglio, gli orangisti protestanti hanno la delicatezza di ricordare ai cattolici di Belfast, sfilando con pifferi e tamburi per i loro quartieri e le loro strade...