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Nei ragazzi della Via Pál la nostalgia d’un mondo rurale condannato dalla modernità

di Francesco Lamendola - 22/10/2014

Fonte: Arianna editrice


 

 



Chi non conosce e chi, se ha almeno una quarantina d’anni, non ricorda di aver letto con entusiasmo e commozione il romanzo dello scrittore ungherese Ferenc Molnár (pseudonimo di Ferenc Neumann, di origine ebraica: Budapest, 1878-New York, 1952), apparso nel 1906 e rimasto in cima ai libri più famosi per ragazzi – maschi - fino all’avvento di un nuovo gusto, basato su videogiochi e telefonini cellulari, che ha allontanato i bambini dalla lettura dei classici a loro rivolti, in favore di nuove letture o magari, più spesso, di nuovi modi di passare il tempo libero?

Ma c’è una cosa che, sovente, sfugge o passa quasi inosservata ai lettori più giovani, mentre non sfugge affatto al lettore adulto: che, dopo tante peripezie e avventure, dopo tante battaglie fra le Camicie Rosse guidate da Feri Ats e i Ragazzi della Via Pál capitanati da Boka, dopo tante bassezze (come il tradimento di Geréb) e atti di sublime eroismo (come il sacrificio del piccolo e disprezzato Nemecsek), tutto quello che quei ragazzi avevano sognato, tutto ciò per cui si erano strenuamente battuti, uno spazio verde separato dal resto della città, è condannato a sparire, perché i proprietari del deposito di legname su cui esso sorge hanno deciso di vendere il terreno a un’impresa di costruzioni, che lo trasformerà in area edificabile, tanto che gli attrezzi per edificare un palazzo a tre piani, destinato ad appartamenti d’affitto, sono già pronti nel magazzino. E quel piccolo mondo appartato, che una palizzata di legno separava dal traffico, dai rumori e dall’agitazione della grande città – Budapest – ha ormai le ore contate.

Visto in questa prospettiva, il romanzo di Molnár acquista una particolare, struggente tenerezza: i suoi protagonisti non solo vivono una vicenda di formazione e, alla fine, diventano uomini – cosa che, come vedremo, si può intendere in due significati diversi e addirittura opposti -, ma, nello stesso tempo, è tutto il loro mondo che slitta dall’epoca felice della spensieratezza infantile di una società pre-moderna nei meccanismi e negli ingranaggi spietati di una società modernizzata, in cui essa verrà afferrata, triturata e distrutta. Ma qualcosa, forse, sopravvivrà: la coscienza di un dovere compiuto e la consolazione che il più puro e il migliore di loro, il piccolo, patetico Nemecsek, non ha vissuto abbastanza da vedere distrutti i loro sogni, perché, come già avevano compreso gli antichi, «muore giovane chi è caro agli dèi».

Dicevamo che, per essere un romanzo di formazione, «I ragazzi della via Pál» accompagna e traghetta i giovani protagonisti dalla inconsapevolezza infantile alla consapevolezza della maturità: simile,in questo, a tanti altri libri cari alla nostra giovinezza, pur fra loro così diversi sotto ogni punto di vista, come possono esserlo «Pinocchio» di Collodi, «Cuore» di De Amicis e «Viaggio al centro della Terra» di Verne, nei quali il protagonista, che spesso è anche l’io-narrante, attraverso prove, errori e delusioni, finisce per acquistare il senso di responsabilità propria degli adulti, lasciandosi alle spalle il mondo gioioso, ma irresponsabile, dell’infanzia e/o dell’adolescenza (in questo senso, Axel Lidenbrock di «Viaggio al centro della Terra», pur non essendo più un ragazzo, è pur sempre un fratello ideale sia di Pinocchio, sia del deamicisiano Enrico Bottini).

Questo abbandono della terra beata del mondo pre-adulto e il conseguente ingresso nel mondo degli adulti, però, si può leggere in un duplice senso: se ha una valenza positiva, perché corrisponde a un processo di maturazione personale, a una fortificazione del carattere, a una comprensione delle difficoltà della vita “reale”, d’altra parte ne possiede anche una negativa, in quanto segna la perdita dell’innocenza, della fantasia, della creatività e la forzata accettazione di un mondo arido, calcolatore, basato sull’interesse, con le sue logiche furbesche e deprimenti e con il suo disincanto esistenziale e umano, pesante pedaggio che viene richiesto per entrare a pieno titolo nella società regolata da diritti e doveri, ma anche dominata da una diffusa ipocrisia.

Vale la pena di riportare le battute conclusive del romanzo di Molnár, quando Boka, il mitico comandante dei Ragazzi della Via Pál, si accorge che quel mondo fantastico di cataste di legna, di cortili e di verde, per il quale lui e i suoi amici hanno così duramente combattuto, fino al sacrificio della vita d’uno di essi, il piccolo Nemecsek, sta per essere spazzato via dall’arrivo della modernità (da: F. Molnár, «I ragazzi della via Pàl» (titolo originale: «A Pál utcai fiúk», traduzione dall’ungherese di Amy Coopmans, Milano, Editrice Piccoli, 1982, pp. 207-9):

 

«Per caso, alzando la testa, l’occhio gli scivolò all’interno del magazzino e allora egli notò appoggiati alle pareti di legno degli strani oggetti che non c’erano mai stati. Una sorta di disco metallico verniciato di rosso con una striscia bianca, simile a quello usato dai ferrovieri per segnalare il passaggio di un treno,  e un cavalletto a tre piedi che sosteneva un tubo d’ottone e dei paletti dipinti di bianco.

Che cos’è quella roba? – domandò allo slovacco, accennandovi con la testa.

Jano si strinse nelle spalle affettando noncuranza: - Ah, quella? Sono arnesi.

- Questo lo vedo anch’io.

- È roba dell’architetto.

- Che architetto?

- Di un architetto, no?

Boka fissava il vecchio guardiano e a un tratto lo prese un senso di soffocamento: - Avanti, Jano! Che architetto?Che cos’è questa storia? A che cosa servono quegli arnesi?

Lo slovacco tirò una gran boccata di fumo. – A costruire una casa - rispose.

- Dove?

- Eh, qui.

- Qui?

- Sì. Lunedì cominceranno i lavori, verranno a scavare le fondamenta tutt’intorno al campo.

-Qui? – ripeté Boka come in sogno. – Qui? Costruiranno una casa qui?

- Una casa, proprio così – ripeté Jano impassibile. – Una grande casa a tre piani. Sono stati i proprietari del terreno a decidere.

E senza aggiungere altro, continuando a pipare con aria indifferente, si allontanò con il suo cane dietro.

Boka aveva le lacrime agli occhi, la mente in subbuglio. Di corsa si slanciò attraverso lo spiazzo, raggiunse la porta di via Pál. Voleva andarsene di là, scappare da quel campo che lo tradiva così.  Ah, l’avevano difeso con tutti loro stessi, quel lembo di terra, con il sacrificio, con il valore, con passione. Perché? Per che cosa? Perché vi sorgesse una brutta casa moderna, un blocco di cemento e mattoni, un nuovo formicaio umano!

Sulla porta si fermò,. Si volse ancora una volta. Nella grande desolazione dell’animo suo un piccolo barlume di speranza s’andava facendo strada.  Nemecsek era morto. Non aveva vissuto abbastanza per ricevere le scuse dei membri della Società dello Stucco e il diploma d’onore e per sapere di aver sacrificato per niente la propria vita. Il campo era perduto: Nemecsek era morto in tempo.

La mattina dopo, nell’aula della quarta ginnasiale, il professor Racz salì sulla pedana della cattedra con passo lento, pesante, davanti ai ragazzi che sedevano taciturni nei loro banchi. In tono commosso, prima di iniziare la lezione di latino, pronunciò un breve discorso in affettuosa memoria dello studente Erno Nemecsek,  così mite e buono, così sventurato, e invitò i ragazzi a trovarsi l’indomani, alle tre del pomeriggio, davanti alla casa di via Rakos, possibilmente vestiti di scuro, per accompagnare al cimitero il compagno scomparso.

Boka teneva gli occhi fissi sul piano del banco davanti a sé.  Per la prima volta, nella sua cruda anima di ragazzo, vagamente intuiva la realtà cruda della vita umana che costringe ogni uomo a lottare sempre, ogni giorno, ininterrottamente. Talvolta in serenità,  ma sovente con tristezza profonda.»

 

In poche frasi, nello spazio di poche battute Molnár ha concentrato l’essenza del disincanto: quella particolare condizione psicologica che è tipica non solo del bambino allorché diventa adulto, ma anche del mondo pre-moderno allorché viene fagocitato dalle logiche inesorabili della modernità, dominate dall’interesse economico (il campo di periferia che viene trasformato in area fabbricabile, in omaggio alla speculazione edilizia rampante), laddove l’incanto è caratterizzato dalla capacità di guardare alle cose non solo sotto la luce del massimo tornaconto che possono offrirci, ma anche con la capacità di rendere omaggio a dei valori non negoziabili e non asservibili all’interesse, primo dei quali il saper vedere in esse non tanto quel che possono renderci materialmente, ma dei valori in sé, dei segni di poesia e di bellezza.

Per il bambino di città (tanto meno fortunato del suo coetaneo di paese), un pezzo di verde in mezzo all’asfalto e al cemento è come un polmone in cui respirare inesauribili sogni e rappresenta la condizione necessaria per alimentare quella capacità di fantasticare, senza la quale il bambino cessa di essere tale e diventa un precoce e triste adulto, se non addirittura uno stremato, avvizzito vecchietto: o così, almeno, era fino a quando l’infanzia veniva lasciata libera di esprimersi attraverso sogni, parole e giochi dettati dal potente istinto dell’immaginazione, e non era ancora stata intercettata e imprigionata dai meccanismi alienanti della tecnica, messi al servizio delle logiche consumiste.

Tutto si può togliere, insomma, a un bambino, tranne i giochi all’aperto e la compagnia dei suoi coetanei, attraverso i quali si esprimono e si alimentano il suo stupore di fronte al mondo, il suo incanto per le cose e la sua capacitò di trasformare, con la fantasia, la grigia e piatta “realtà”, cara ai veristi, in una dimensione mitica, dove tutto è possibile, fino a quando esiste lo spazio per vedere le cose non nell’ottica deformante dell’utilitarismo e del tornaconto interessato, ma in quella delle loro intima pregnanza e dignità, che è infinita virtualità immaginativa e illimitata potenzialità di bellezza, di avventura, di sbrigliarsi della fantasia.

Quello che rende così angusto il modo di vedere proprio della modernità, il modo moderno di porsi di fronte alle cose (e a se stessi), è proprio l’oblio di questa dimensione disinteressata, e perciò infinitamente libera, che rimane nascosta all’occhio utilitario e alla ragione strumentale e calcolante, ma che si rivela allo sguardo incantato dei più piccoli e di coloro i quali, fra gli adulti, hanno conservato, appunto, la capacità affabulatrice dell’incanto, cioè i poeti. In questo senso, crediamo, Elsa Morante ha detto che il mondo verrà salvato dai ragazzini – oppure, aggiungiamo, che non potrà essere salvato affatto.

Gli urbanisti e gli architetti dovrebbero tener conto di tutto questo, così come dovrebbero ricordarsene gli amministratori pubblici, allorché si accingono a manipolare e rimodellare continuamente, spietatamente il volto delle nostre città, sempre in omaggio al Moloch del Dio Progresso; e, prima ancora di essi, dovrebbero ricordarsene gli adulti in generale, i genitori, gli insegnanti, gli scrittori per l’infanzia (una specie in via d’estinzione, se non addirittura estinta: ché non vi appartiene di certo la recentissima genìa dei Daniel Pennac e simili), insomma tutti quanti hanno la responsabilità di accompagnare i bambini nella fase delicata ed essenziale del passaggio verso la maturità.

“Maturità”, infatti – è bene ricordarlo -  non è sinonimo di età adulta; osiamo anzi affermare che la stragrande maggioranza delle persone adulte non sono affatto mature: hanno un certo numero di anni, e ciò le fa credersi in diritto di rinunciare con disprezzo al bagaglio dei loro sogni, in none della caccia inesausta al vantaggio personale e al successo economico.

Povero Nemecsek, morto per una sua piccola e grande idea dell’onore, della fedeltà verso i compagni, della difesa del mondo incantato, ma “serio”, dell’infanzia: davvero è stata una fortuna, per te, essere morto così giovane, senza aver dovuto vedere, e accettare, le brutture di un mondo che a torto si crede adulto; senza aver dovuto assistere allo scempio dell’area verde della Via Pál, trasformata in uno scatolone di cemento; senza aver subito la perdita del mondo incantato…