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Perché i sacerdoti del pensiero unico odiano l’identità

di Marco Tarchi - 03/03/2017

Perché i sacerdoti del pensiero unico odiano l’identità

Fonte: Diorama letterario

La Francia c’è arrivata per prima, e c’era da immaginarselo, per le conseguenze che il passato di potenza coloniale e la pretesa di ergersi a paese-faro dei “diritti dell’Uomo” le stanno causando. Ha preceduto tutti gli altri paesi nel trascinare sul banco degli imputati l’identità e nel farla oggetto di vibranti requisitorie. Ma sulla sua scia, se non il mondo intero, quantomeno l’Occidente in blocco è stato lesto ad incamminarsi per celebrare il processo di un concetto – e del fenomeno che lo sorregge – che ogni giorno di più sembra destinato a trasformarsi nel capro espiatorio preferito della classe intellettuale e mediatica dominante quando va alla ricerca della causa dei mali che scuotono la nostra epoca.

Già da qualche anno, per la verità, i capi di accusa branditi contro questa scomoda nozione si vanno accumulando, rendendola responsabile di ripiegamenti, di chiusure, di discriminazioni, di ostacoli all’integrazione di quella massa di immigranti di cui si vorrebbe fare il cemento, o il lievito, di una nuova umanità dal profilo frastagliato e indecifrabile, popolata da mille colori, mille stili di vita, mille credenze pacificamente miscelati e sovrapposti, in cui finalmente l’individualità possa celebrare il suo trionfo su ciò che resta degli aggregati collettivi. Finora, però, una vera campagna coordinata di aggressione nei confronti della parola, dei suoi significati e di coloro che se ne fanno veicolo non era stata messa in atto. Adesso, sembra di capire, ci siamo.

Un segnale significativo, in questo senso, lo ha dato un paginone autunnale del più citato dei quotidiani francesi, “Le Monde”, dedicato ad illustrare e divulgare le tesi di “quegli intellettuali che vogliono uscire dalla trappola identitaria”. Leggendolo, si ha la sensazione di essersi imbattuti in un manuale di istruzioni per la caccia ai reprobi, e se ne possono ricavare utili indicazioni sugli argomenti che con ogni probabilità vedremo sciorinare ovunque, nel prossimo futuro, dalla casta intellettuale benpensante.

L’interesse del giornale transalpino per la questione era legato a una previsione fin qui rivelatasi errata, cioè che la campagna l’elezione presidenziale di primavera si sarebbe incentrata sulla “battaglia culturale e identitaria”, per dirla con Manuel Valls, che avrebbe costituito il succo di “uno dei primissimi dibattiti”, come assicurava Nicolas Sarkozy. A dispetto delle supposizioni dei due grandi perdenti delle primarie della sinistra e della destra, ciò di cui si discute oggi in quello scenario è tutt’altro: questioni sociali, prospettive economiche, sicurezza di fronte al terrorismo, corruzione della classe politica (con il Penelopegate di Fillon in primo piano), compatibilità fra sovranità nazionale e ingerenze dell’Unione europea – insomma, problemi che i cittadini vivono più direttamente sulla propria pelle nella quotidianità. Il grido d’allarme lanciato da “Le Monde” mantiene tuttavia la sua rilevanza, che potrà essere meglio misurata sul medio periodo.

Nel frattempo, il tono della denuncia è senza appello. Il termine più impiegato per accompagnare il concetto sotto accusa è ossessione, ma c’è chi non se ne accontenta. Guy Sorman, già noto per il suo oltranzismo da ayatollah del liberalismo, preferisce parlare di orrore, ma non disdegna di ricorrere alla metafora della febbre, al più scontato mito, e non rifugge neppure da un’espressione ancora più forte come terrorismo identitario – per lui ovviamente plausibile, dal momento che ci troveremmo di fronte ad un “discorso identitario” che funge da “maschera del razzismo e della xenofobia” e “domani autorizzerà i rastrellamenti e le espulsioni”. Il filosofo Michel Serres preferisce parlare di “errore logico e crimine politico”, ma l’effetto non cambia.

Viaggiamo, come si vede, sul filo dell’invettiva e dell’intimidazione, ormai peraltro abituale negli ambienti culturali votati alla preservazione dell’odierno spirito del tempo, dietro le quali si delinea un progetto (meta)politico ben espresso da una delle vedettes dell’attualità mediatico-editoriale, Thomas Piketty, quando parla di “trovare i mezzi per far finalmente progredire la mescolanza”. Vale quindi la pena di dare un’occhiata alle argomentazioni utilizzate per promuoverlo.

La più frequente, reiterata con un’insistenza che discende dall’apodittica e infondata convinzione che il “discorso identitario” abbia raggiunto una posizione egemonica nell’immaginario sociale, si riassume nell’affermazione dell’irrealtà dell’oggetto contro cui ci si scaglia: l’identità non sarebbe altro che un fastidioso fantasma.

I modi per esprimere questa tesi sono diversi, ma si sostengono a vicenda. L’identità, sostiene ad esempio Serres, non è l’appartenenza, non è la carta d’identità, e chi lo pensa cade nella “spirale del razzismo”. L’identità culturale non esiste, gli fa eco l’ellenista e sinologo (parbleu!) François Jullien, perché è in mutazione permanente, affermazione che sentiamo ripetere da decenni e che è fatta propria anche di filosofi di tutt’altro orientamento, come Philippe Forget. Essa, aggiunge un altro filosofo, François Noudelmann, esprime “l’illusione di una generalità”, “il miraggio di un’origine comune”, una “finzione” e “menzogna storica” fondata sulla “naturalità delle appartenenze, la conformità dei paesaggi, la rassomiglianza delle facce e la riduzione delle differenze”. Insomma, la sua “fissità” non corrisponde minimamente ai dati della realtà, dato che la caratteristica della cultura è di mutare e trasformarsi.

In sé, l’osservazione è banale e retorica, giacché nessuno si sognerebbe di negare che ogni forma di identità collettiva si è venuta evolvendo e adeguando nel tempo, non fosse altro che per il succedersi delle generazioni e delle loro esperienze di incontro e scontro con popoli e culture “altri”. Questa obiezione nulla toglie però ad un elemento di realtà non meno irrefutabile, e cioè che nel corso della storia gli individui hanno costantemente mostrato una tendenza ad aggregarsi e a creare codici di riconoscimento reciproco – e di esclusione degli estranei – intorno ad una serie di referenti sia concreti che simbolici che dessero loro la sensazione di co-appartenere ad una o più precise entità plurali. Si sono, insomma, voluti pensare come comunità e come popoli. Che ciò sia accaduto perché permetteva, come vorrebbe Noudelmann, “di canalizzare emozioni disparate – angosce, collere, speranze”, o per altri e più positivi motivi, a partire dalla condivisione di “buone pratiche”, memorie, soddisfazioni e così via, resta il fatto che è in quella dinamica che le vicende storiche si sono instradate e svolte.

Sapendo che le cose sono andate così, gli spregiatori dell’identità si sforzano di aggirare l’ostacolo sostenendo che chi si richiama oggi a referenti identitari lo fa perché ne percepisce la fragilità: “sventolare bandiere ovunque in un paese è spesso il segno che l’unità non è scontata e che bisogna sostenerla”; quello che viene agitato sarebbe dunque soltanto un “feticcio”. A noi pare il contrario. Proprio nel suo offrire un ancoraggio, una direttrice di senso, in un’epoca in cui più forte è lo choc prodotto dall’incontro con stili di vita alieni o ignoti, l’attaccamento ad un’identità si dimostra benefico, riduce lo smarrimento, rassicura, indica un riparo. Se ne rende conto, del resto, anche chi si accanisce a dissolvere la concretezza del concetto, quando scrive che “la rivendicazione identitaria è l’espressione del rimosso prodotto dall’uniformazione del mondo” ed ammette che “il globale rafforza il locale, la globalizzazione accentua il bisogno di nazione, l’apertura delle frontiere acuisce il ripiegamento identitario”. Di conseguenza, affermare che “più un soggetto, individuale o collettivo, prova il bisogno di affermare una tesi o un’immagine di sé, più manifesta, paradossalmente, la mancanza di realtà”, è un puro controsenso, perché è l’immagine di sé coltivata da quel soggetto ad orientare la sua azione e consentirgli di partecipare alla costruzione della realtà. L’individuo o il gruppo incapaci di definire una propria identità sono condannati ad accodarsi passivamente alle azioni altrui.

Ed è appunto questo lo scopo che gli odiatori dell’identità si prefiggono: decostruire le specificità, disgregare le comunità, uniformare, isolare i singoli dai potenziali poli di aggregazione, renderli soggetti a una deriva – questa sì – che ha come punto d’approdo un orizzonte cosmopolita dominato dal dogma dell’universalismo. Quel che preoccupa questi adoratori dello status quo, del tempo in cui si pretende che si sia avverata la fine della storia, è che la richiesta d’identità si stia rafforzando oggi a sinistra come a destra, al di là dei consueti spartiacque, e per questo il loro appello a diffondere una cultura che “crei scarto e non identificazione”, per dirla con le parole di Jullien, è rivolto in ogni direzione.

A questa aspirazione all’omologazione è dunque sempre più urgente contrapporre un richiamo al diritto di ogni popolo e di ogni cultura a mantenere e rafforzare la propria specificità. Nel “ritorno delle comunità” identificato da Michel Maffesoli, o nell’esaurimento della spinta individualizzante degli ultimi quarant’anni, legata alla globalizzazione e alla modernità liberale, che Marcel Gauchet ritiene, nella recentissima intervista concessa alla rivista “Éléments”, di intravedere, vanno visti i sintomi di un positivo risveglio. Ovviamente, le dinamiche che governano il mondo attuale sono destinate ad impedire che fra questi aggregati identitari si creino muri invalicabili: l’interscambio e il confronto ne saranno, anzi, la regola. Ma comunicazione non significa commistione, così come un innesto può rafforzare un albero solo a condizione che alla pianta non si recidano le radici.

È dalla trappola dell’uniformità di un cosmopolitismo a base individualista che occorre sfuggire, e se si può essere d’accordo con Sorman sul fatto che “l’imperativo morale è evidente: riconoscere il diritto imprescrittibile alla differenza”, è per trarne una conseguenza di segno opposto, perché il diritto in questione, che l’ideologo liberale vorrebbe riservare agli individui, deve essere accordato prima di tutto agli aggregati plurali, che occorre tutelare dalle aggressioni del pensiero unico, tanto più espansivo e pericoloso quanto più si trascura di evocarne l’onnipervadente presenza.