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Negli USA incombe la recessione? Quali le conseguenze per l’economia mondiale?

di Giorgio Vitangeli - 25/01/2008

 

 

Negli Stati Uniti la “bolla immobiliare” è già scoppiata; i mercati azionari a novembre hanno vissuto giornate nere e le grandi banche internazionali hanno accusato perdite da capogiro; il dollaro perde terreno; negli Usa incombe la recessione.

Prova d’orchestra per un crac prossimo venturo
La “bolla immobiliare” negli Stati Uniti è già scoppiata, e l’onda d’urto dell’esplosione ha fatto il giro del mondo.
Come ha ricordato Robert Shiller, docente di economia e finanza a Yale, nel decennio dal 1996 al 2006 i prezzi delle abitazioni sono infatti quasi raddoppiati in tutti i maggiori Paesi, salvo la Germania.. La “bolla” dunque riguarda tutti, Italia compresa.
Da noi, è vero, non c’è stata la diffusione dei mutui “subprime.L’Italia però vanta un suo primato: quello dei mutui a tasso variabile. Da noi la quasi totalità dei mutui stipulati negli ultimi anni sono a tasso variabile. Esso era più basso del tasso fisso, e quindi era ovvio fosse preferito. Ora però che l’inflazione ha rialzato la testa e l’epoca del denaro a basso costo è finita, i tassi variabili sono aumentati a raffica, ed anche in Italia molti di coloro che hanno acquistato casa sono in crescente difficoltà, perché la rata del mutuo è aumentata vistosamente, ed i pignoramenti per insolvenza hanno subito un’impennata.
I dati dell’Associazione Bancaria Italiana segnalano circa 120 mila pignoramenti in atto su tre milioni e mezzo di mutui. Ma altre valutazioni ne evidenziano quasi il doppio.Una cosa è certa: col carovita che cresce giorno dopo giorno, mentre il tasso interbancario (che è quello cui fanno riferimento i mutui) continua a salire, insolvenze e pignoramenti sono destinati ad aumentare anche in Italia.
La situazione più pericolosa, ovviamente, è quella degli Stati Uniti: là lo scoppio della bolla immobiliare rischia di tradursi in una crisi finanziaria ed in una recessione economica. Fenomeni ambedue che, naturalmente, si trasmetterebbero poi rapidamente all’economia mondiale.
Negli Usa infatti le insolvenze sui mutui “subprime” sarebbero dell’ordine di 800 milioni di dollari., ma l’innesco da esse costituito rischia di far scoppiare una bomba finanziaria della potenza di mille miliardi di dollari. Vediamo brevemente come funziona questo meccanismo moltiplicativo.

Le origini della “bolla”
Come ha ricordato il Nobel per l’economia, Solow, per anni negli Stati Uniti si sono costruite più abitazioni di quelle che il mercato poteva normalmente assorbire. Per stimolare la domanda allora le banche hanno cominciato a concedere il mutuo anche a persone che in realtà d comprar casa non avrebbero potuto permetterselo. Questi sono i mutui eufemisticamente chiamati “subprime”, cioè di affisabilità inferiore a quelli di prima qualità. Le banche dal canto loro si sono spinte in questo azzardo perché su quei mutui problematici esse hanno potuto mettere in piedi un lucroso mercato di “derivati” Il sistema funzionava così: i mutui “sbprime” venivano inseriti in un più vasto “pacchetto” di crediti, che comprendeva altre attività, cioè mutui “semiprime” e “prime” di buona affidabilità, crediti commerciali di vario tipo, e così via. Quel “pacchetto” di crediti veniva poi “cartolarizzato”, cioè ceduto ad una cosiddetta “società veicolo”, che per finanziarsi emetteva allettanti obbligazioni, acquistate poi non solo da “hedge funds” orientati al rischio, ma anche da grandi banche e da investitori istituzionali. Il cerino acceso cioè passava in altre mani . E non sembrava nemmeno un cerino, poiché le società di “rating” davano in genere una valutazione positiva alle “società veicolo” e la sottoscrizione delle loro obbligazioni sembrava così ad alto rendimento ed a rischio controllato.
Lo stimolo fornito coi mutui “subprime” alla domanda di case ne faceva d’altronde aumentare continuamente le quotazioni, e questo alimentava ulteriormente la domanda, ingolosendo i compratori, certi di acquistare oggi un bene che domani sarebbe di certo costato di più.. Il che, oltretutto, forniva una maggiore garanzia ai creditori, in caso d’insolvenza dei mutuatari. Non basta: man mano che il prezzo di mercato saliva, i proprietari di case potevano ottenere dalle banche ulteriori prestiti personali, garantiti appunto dal maggior valore della casa. Le banche potevano così sviluppare anche un secondo lucroso mercato: quello dei prestiti al consumo, che in genere hanno un tasso (ed un rendimento per le banche) molto alto. E gli americani, contagiati da un illusorio “effetto ricchezza”, continuavano nel loro allegro costume di cicale, spendendo a debito ricchezza virtuale o reddito non ancora prodotto.I consumi continuavano così a “tirare”, e l’economia americana sembrava :sprizzare energia.

La leva finanziaria si è rovesciata
Ma quando i tassi hanno cominciato a salire ed i prezzi delle case hanno interrotto la loro corsa, ed anzi si comincia a temere un loro crollo, la leva finanziaria si è rovesciata, e la bolla è esplosa.
Le obbligazioni emesse dalle “società veicolo” ora non hanno più mercato. Nessuno più le vuole, e rischiano di diventare carta straccia: Tutti sanno infatti che in quelle mele c’è dentro il verme. E così l’insolvenza sui mutui “subprime” ha messo fuori mercato le obbligazioni dell’intero “pacchetto” in cui quei mutui sono inseriti. Questo spiega come, a fronte di insolvenze sui mutui “subprime” che non arrivano ancora ad un miliardo di dollari, le banche abbiano già accusato perdite per 50 miliardi.
Ora si cominciano a contare i morti ed i feriti., ed è un conto arduo, perché neppure le banche sanno a quanto potranno ammontare infine le loro perdite finanziarie. Lo stesso Nobel Solow prevede che la crisi dei “subprime” durerà ancora almeno un anno..
Intanto le più blasonate banche internazionali- da Citigroup a Merril Lynch, da UBS a Morgan Stanley – sono costrette a denunciare miliardi e miliardi di dollari di perdite.
Che le cifre siano destinate a crescere enormemente lo dimostra l'aggiornamento al rialzo che hanno continuato a fare nelle loro stime autorità monetarie, analisti ed esperti.

Le dimensioni della voragine
Il presidente della Fed, Bernanke, aveva cominciato valutando da 50 a 100 miliardi di dollari la voragine creata dai mutui “subprime”, ma poi in un’audizione al Congresso ha dovuto correggersi, alzando la stima a 150 miliardi.
Ma altre fonti danno valutazioni ben maggiori. Jan Hatzins, capo economista di Goldman Sachs, già a metà novembre stimava in 400 miliardi di dollari le perdite che banche e compagnie finanziarie dovranno portare in bilancio. Ma Nouriel Roubini, il brillante economista che insegna alla New York Univerrsity, Cassandra inascoltata del crack finanziario prossimo venturo, traccia un quadro ancora più fosco. Egli infatti stima al momento da 300 a 500 miliardi di dollari le perdite riferite ai mutui immobiliari ed ai loro prodotti cartolarizzati. Ma aggiunge che le perdite si stanno estendendo ai mutui “quasi prime” e “prime” ed ai prestiti commerciali immobiliari. E’ dunque l’intero comparto della finanza connessa al mercato immobiliare che è entrato in crisi, o vi sta entrando.
L’insolvenza inoltre si sta allargando alle carte di credito ed ai crediti per l’acquisto di automobili, e tali insolvenze – dice Roubini – si moltiplicheranno quando nei prossimi mesi l’economia degli Stati Uniti entrerà in piena recessione.
Ci sono da aggiungere poi, sempre secondo Roubini, le perdite che dovranno registrare “Fannie” e “Freddie” (questi sono i nomignoli delle due Istituzioni bancarie semipubbliche che negli Usa acquisiscono i mutui erogati dalle varie banche locali).
Ed infine alla voragine delle perdite finanziarie c’è da aggiungere l’annunciato naufragio delle cosiddette società “monoline”, che hanno assicurato molti dei prodotti finanziari “avvelenati” derivati dai mutui “subprime”.
Tirando le somme: le perdite potrebbero superare i mille miliardi di dollari, allargandosi in una sorta di reazione a catena.

L’intervento dello Stato
Si capisce bene allora perché, anche in un Paese come gli Stati Uniti ove l’intervento dello Stato nell’economia è considerato peccato mortale, il presidente Bush ed il segretario al Tesoro, Paulson, abbiano deciso di intervenire a sostegno dei proprietari di case che rischiano di finire sulla strada. Sarebbero 750 mila, secondo alcune stime. Con le elezioni alle porte, per giunta.
Ma basteranno le misure adottate o preannunciate a bloccare la crisi? La prima impressione è che esse siano del tutto inadeguate. Lo strumento d’intervento scelto è infatti quello del blocco dei tassi d’interesse sui mutui. Ma se è vero, come dice Solow, che la casa negli Stati Uniti l’hanno acquistata anche tanti che non potevano permetterselo, bloccare i tassi d’interesse non basta certo a trasformare debitori inaffidabili in pagatori puntuali.
Del beneficio del blocco dei tassi dovrebbero beneficiare poi, secondo gli annunci, solo quei mutuatari che hanno pagato regolarmente. Sarebbero esclusi dunque un buon 30% degli acquirenti, il cui debito è già in sofferenza. Sarebbero inoltre esclusi dai benefici quei debitori le cui case valgono oggi meno del mutuo ancora da pagare. Ma se è vero, come prevede il Nobel Solow, che per tutto il 2008 il valore delle case negli Stati Uniti continuerà a scendere, il numero di coloro che avranno un mutuo residuo superiore al valore della abitazione acquistata è destinato a crescere costantemente. Intanto dal mercato immobiliare la crisi ha investito le grandi banche, e dalle banche si è trasmessa al mercato azionario.

Crisi delle Borse e mercato dei cambi
Il mese di novembre per le Borse di tutto il mondo è stato una “via crucis”, con una serie di giornate nere, seguite da rimbalzi tecnici sempre più deboli. Poi la previsione di un ribasso dei tassi da parte della Fed ha ridato ossigeno. Ma è evidente che gli effetti della droga monetaria non dureranno a lungo se i prodotti finanziari legati al mercato immobiliare continueranno ad affondare.
C’è da aggiungere che la crisi ha già avuto contraccolpi sul mercato dei cambi e quindi su un sistema monetario internazionale che – da più di trent’anni ormai – più che un sistema è una precaria e sbilanciata situazione di fatto. Il segnale più evidente dei crescenti squilibri è dato dal cambio tra euro e dollaro. A ottobre del 2000 per comprare un euro bastavano 82 centesimi di dollaro. Ora ci vuole quasi un dollaro e mezzo. Ciò vuol dire che negli ultimi sette anni rispetto alla moneta europea il dollaro ha perso quasi metà del suo valore.
Può darsi che gli Stati Uniti abbiano in parte agevolato questa selvaggia “svalutazione competitiva” onde aumentare le esportazioni e cominciare a riequilibrare il loro gigantesco disavanzo con l’estero. Ma è evidente che alla caduta del dollaro concorrono, comunque, altri fattori, non controllabili da Washington.
I decenni di disavanzi colossali hanno cumulato infatti una pesantissima posizione patrimoniale con l’estero. In pratica il dollaro si è retto e si regge coi debiti con l’estero. Ed alla lunga è la posizione patrimoniale che determina il valore di una moneta.
Come non bastasse, c’è la guerra in Iraq che dal punto di vista politico si è rivelata un fallimento, e da quello finanziario un pozzo senza fondo. Poi c’è la situazione critica delle banche americane.
Ma è l’affermarsi dell’euro quale valuta internazionale che sta erodendo il “diritto di signoraggio” degli Stati Uniti sul resto del mondo. Un po’ tutte le Banche centrali, infatti, stanno riequilibrando con discrezione le loro riserve valutarie: cedono dollari ed acquistano euro. Ed è ovvio che ciò continua a deprimere il cambio della valuta americana.

La fuga dal dollaro
Il caso più emblematico è quello della Banca Centrale cinese. I cinesi coi loro giganteschi avanzi commerciali hanno accumulato e stanno accumulando enormi riserve valutarie, denominate quasi tutte in dollari, ed in larga parte investite in Buoni del Tesoro americani. In questi ultimi anni erano stati soprattutto i cinesi, i giapponesi e gli altri maggiori Paesi asiatici a sostenere così la valuta americana.
Ma da Pechino i segnali d’insoddisfazione per le perdite causate dalla svalutazione del dollaro hanno preso a moltiplicarsi. Gli ultimi “avvertimenti” sono dell’inizio del novembre scorso, quando
Cheng Siwei, vicepresidente della “Conferenza consultiva politica del popolo” ha detto chiaro e tondo: “Nella struttura delle nostre riserve dovremo tener presente che l’euro sta guadagnando e il dollaro sta perdendo terreno”; Gli ha fatto eco Xi Jian, vicedirettore della scuola di partito all’interno della Banca Centrale cinese, che ha dichiarato: “Il dollaro sta perdendo il suo ruolo di valuta globale, ed il merito di credito degli asset denominati in dollari si sta riducendo”. Tra quegli “asset” vi sono, ovviamente anche i Buoni del Tesoro Usa.
Sono bastate queste dichiarazioni di due esponenti cinesi di rilievo, ma non di primissimo piano, per far tremare il giorno dopo la Borsa americana. In conclusione: che il dollaro stia diventando “carta straccia”, come ha detto Ahmanidejad, o che “il suo impero sta crollando”, come gli ha fatto eco Chavez, sono iperboli polemiche.
Ma che nel sistema monetario internazionale qualcosa sia cambiato, e che si stia giungendo ad un punto di crisi, è fuori discussione.

Tornano i petrodollari

C’è un ulteriore episodio significativo che vale la pena di sottolineare. Negli ultimi dodici mesi il Tesoro americano ha avuto bisogno di ulteriori 208 miliardi di dollari. Ebbene: la quasi totalità di tale somma (cioè 205 miliardi) l’hanno sottoscritta investitori arabi (carichi di dollari per l’impennata del prezzo del greggio) che si sono mimetizzati utilizzando la piazza finanziaria di Londra.
E qui il discorso si fa intrigante. L’irrefrenabile ascesa del prezzo del petrolio infatti è frutto di pura speculazione. A far levitare il prezzo sono i cosiddetti “barili di carta”, cioè la massa di contratti “future” e derivati. Sul mercato fisico, reale, i carichi di petrolio stentano a trovare un compratore, se non vengono praticati sostanziosi sconti. C’è insomma una sorta di sdoppiamento schizofrenico tra il mercato vero, che tenderebbe al ribasso, e quello speculativo, che spinge al rialzo. Ha osservato Leonardo Maugeri, direttore centrale per le strategie dell’Eni, “qualcuno deve pur aver liberato quel demone dell’irrazionalità che continua a spingere in alto il prezzo del petrolio.
La speculazione, certo. Ma sta di fatto che a fronte dei prezzi “irrazionali” raggiunti dal petrolio gli Stati Uniti non si sono scomposti più di tanto. Grazie a quei rincari infatti gli Arabi, carichi di dollari, hanno potuto sostituire i cinesi nel finanziare il Tesoro americano. Vien da pensare che a liberare “il demone dell”irrazionalità” da Washington abbiano dato qualche “aiutino”. Certo, a pensare male si fa peccato, come ammonisce Andreotti. Ma spesso ci si azzecca.
Si concentrano tre crisi Cominciamo dunque a tirare le somme.
La crisi dei “subprime” e le scosse telluriche che ha determinato nei bilanci delle banche e sui mercati azionari sono il segnale d’allarme di una crisi sistemica che rischia di travolgere la finanza globale.
Alla crisi della finanza, soffocata da una massa incalcolabile di “derivati” che in buona parte potrebbero rivelarsi “carta straccia”, si aggiunge la crisi incombente del sistema monetario internazionale, che nella configurazione attuale è giunto al capolinea.
Se prevalesse la ragione, se cioè gli Stati Uniti accettassero di mettersi ad un tavolo con l’Europa,il Giappone, la Cina, la Russia e l’India, per concordare le regole eque di un nuovo sistema monetario, che tenga conto dei grandi cambiamenti che sono maturati e stanno maturando nell’economia mondiale, allora la transizione verso un nuovo ordine potrebbe essere governata, ed avvenire senza sconvolgimenti traumatici.
Ma se a Washington, come sembra più probabile, si sia tenacemente attaccati a quel che resta dei privilegi derivanti dal “diritto di signoraggio”, e ci si illude magari che per guadagnare tempo basti manipolare ancora una volta il prezzo del petrolio, e sostituire i dollari cinesi coi petrodollari arabi, come negli anni settanta, allora la crisi sarà tanto inevitabile quanto violenta. Di tempo ne resta sempre meno. Perché accanto alla bomba finanziaria che sta già esplodendo, ed accanto alla crisi monetaria, già strisciante, incombe una terza crisi: quella dell’economia reale.

Povertà e depressione
Mentre per gli Stati Uniti già si parla di una depressione economica in arrivo, in tutto l’Occidente infatti l’impoverimento di fasce sempre più ampie di popolazione è sempre più evidente. Dire che la povertà sta contagiando anche quelli che una volta venivano chiamati “ceti medi”, è diventato quasi un luogo comune. “I poveri in giacca e cravatta”, li ha chiamati una recente ricerca dell’Eurispes. E nessuno sembra chiedersi da dove venga questa maledizione biblica e perché sembri essersi interrotto il progresso economico, e regredisca il progresso sociale, mentre proseguono e galoppano il progresso scientifico e quello tecnologico.
Ben pochi sono coloro che hanno il coraggio di chiamare in causa la globalizzazione ed il liberismo selvaggio, grazie al quale, i Paesi del Terzo Mondo esportano in Occidente la loro povertà e la loro arretratezza sociale, costringendo i lavoratori dei Paesi avanzati ad un’impossibile concorrenza, che si sostanzia in salari reali sempre minori, in lavoro precario e temporaneo, e nel continuo sgretolarsi delle conquiste sociali realizzate negli ultimi due secoli.
C’è sotteso alla globalizzazione ed al liberismo selvaggio un cinico e folle disegno oligarchico. Folle perché nessuna economia può crescere in un Paese ove si allarga l’area della povertà di massa.
La crisi finanziaria forse può essere manipolata e spostata ancora in avanti grazie alle sottili alchimie delle autorità monetarie; la crisi del sistema monetario internazionale può essere posposta ancora gettando sulla bilancia la spada, poiché gli Stati Uniti sono ancora l’unica superpotenza militare, ma la crisi dell’economia reale nessuno la può governare, né con le alchimie finanziarie, né con la forza delle armi.
In Occidente si continua a sacrificare sull’altare del mercato globale non solo il futuro degli uomini e la loro capacità dal bisogno, ma anche la loro capacità di spesa. E con ciò il capitalismo selvaggio si dà la zappa sui piedi. Se non si inverte questa tendenza, se non si sradica questa follia, la crisi dell’economia reale che già incombe scoppierà inevitabilmente.