Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Hai 1 prodotto nel carrello Carrello
Home / Articoli / Africa addio? No, è l'Africa che ci abbandona

Africa addio? No, è l'Africa che ci abbandona

di Salvo Ardizzone - 09/05/2024

Africa addio? No, è l'Africa che ci abbandona

Fonte: Italicum

L’Occidente e l’Africa

“Africa addio” è il titolo di un vecchio docufilm di grande successo negli anni Sessanta; i registi, Jacopetti e Prosperi, vollero documentare la fine dei regimi coloniali, col sottinteso che, privato della guida degli occidentali, il Continente sarebbe sprofondato nella barbarie. In pratica, col loro addio alle potenze coloniali, gli africani avrebbero rinunciato alla possibilità di stare al mondo, escludendosi da esso. Bizzarro assunto autoassolutorio, secondo il quale l’unica via possibile – fuor d’Occidente – sia vivere sotto un dominio coloniale, assoggettati a una potenza che faccia da tutrice, esattamente ciò da cui l’Africa voleva liberarsi. Peccato che, morto il colonialismo, sia sorto l’assai peggiore neocolonialismo; la differenza sta nel fatto che un regime coloniale qualche responsabilità se la deve pur sempre prendere per gestire lo spazio che amministra, una multinazionale no. Per nulla. E può permettersi d’essere ancor più rapace, lasciando il “lavoro sporco” ai regimi che foraggia.

Nei fatti, pur essendo costituita da stati formalmente indipendenti, l’Africa ha continuato a essere vista da occhio occidentale come “terra vergine”, concetto introdotto ufficialmente dall’articolo 34 del Trattato Internazionale approvato con la Conferenza di Berlino del 1884 – 1885. Con esso le potenze occidentali, all’apice della loro ascesa, sancivano il loro diritto “legale” d’impossessarsi di un qualunque territorio su cui altre di esse non potessero vantare “diritti”. Caso emblematico è la formazione del cosiddetto “Stato Libero del Congo” (ossimoro beffardo), null’altro che una proprietà personale di Leopoldo II re del Belgio (da sottolineare: personale al pari di una tenuta, non della nazione su cui regnava). In buona sostanza, per l’Occidente l’Africa era una res nullius e chi apparteneva all’esclusivo club delle sue potenze poteva rastrellarne le risorse a piacimento. Ivi compresi i nativi, prima oggetto di schiavismo istituzionale, poi di sistematico sfruttamento al pari del bestiame.

Era certo l’avidità a muovere quella fetta di mondo allora in espansione, ma essa trovava giustificazione nel pensiero positivistico che impregnava l’epoca (di cui l’attuale liberalismo è figlio diretto); nella convinzione che quella europea fosse la civiltà, l’unica possibile, che le risorse naturali dovessero essere a disposizione di chi le sapesse utilizzare secondo i canoni europei. Ciò secondo la visione di un uomo – naturalmente bianco –sovraordinato a un mondo di cui potesse disporre a discrezione con tutto ciò che vi era: minerali, vegetali, animali, in ciò ascrivendo coloro che non avevano la fortuna d’essere bianchi caucasici. Era la logica del “fardello” che Kipling addossava al colonizzatore europeo (meglio se anglosassone): usare il mondo a propria discrezione facendo fruttare i “talenti” che l’Onnipotente aveva messo a sua disposizione. Il riferimento alla parabola evangelica non è affatto casuale in quanto ricorrente, giustificativa del colonialismo e connaturata alla mentalità dell’epoca.

Quanto ciò fosse intriso di razzismo è inutile sottolineare, l’eventualità che esistesse altra cultura, altro “stare nel mondo” e relazionarsi a esso non era contemplata; del resto, perché stupirsi? Tale presunzione di superiorità è la medesima che si è tramandata fino a oggi e informa le cosiddette liberal-democrazie; è stata essa che ha obliterato il ricordo delle tante culture e tante civiltà africane che sono fiorite nel corso dei secoli. In verità, due di esse, quella egizia e quella cartaginese, impossibili da cancellare perché strettamente intrecciate con la Classicità da cui l’Occidente reclama l’eredità (sebbene l’abbia ampiamente ripudiata), sono di fatto decontestualizzate, rapite all’Africa di cui erano figlie per essere genericamente attribuite all’Antichità.

Delle tante altre civiltà s’è persa traccia fuor d’assai ristretta cerchia d’esperti, sia di quelle connesse ad Egitto e Cartagine (la Nubiana e la Berbera), sia – a maggior ragione – delle altre, come la civiltà di Punt in Somalia, il regno di Axum in Etiopia, gli imperi del Mali e del Ghana, i regni del Congo, di Monopotapanello Zimbabwe, e tanti altri ancora. Precedenti e successivi alla diffusione dell’Islam.

Colonialismo e neocolonialismo

Tralasciando le esperienze secondarie nel quadro complessivo, come quelle portoghesi, tedesche o italiane, furono due i modelli applicati dai principali imperi coloniali: quello francese, che allo sfruttamento delle risorse accoppiava un forte controllo politico centralistico che tendeva a un’assimilazione culturale, e quello britannico, che badava soprattutto all’aspetto economico. Differenza divenuta evidente al tempo della decolonizzazione: Londra fu bene attenta a bilanciare i costi e, quando gli oneri rischiarono di superare gli utili, concesse rapidamente l’indipendenza alle colonie salvo rientrarvi subito dopo con le multinazionali della City; Parigi, invece, rischiò di dissanguarsi in lunghe – e inutili – guerre nel tentativo di mantenere un impero antistorico.

Fatto è, comunque, che in Africa il colonialismo abbia inciso su due piani: quello economico, spremendo i territori di quanto poteva arricchire le economie occidentali, e sul piano culturale, destrutturando le società e le comunità locali allo scopo d’imporre i propri modelli e impedire che sopravvivessero le culture locali, modelli “altri”, diversi, che potessero innervare rivolte. Così rubando non solo i beni ma l’anima stessa di quei popoli, tentando d’ucciderla – o provando a farlo – e con ciò garantendosi dominio su popolazioni senza Storia. Ergo: senza futuro proprio al di fuori della potenza coloniale.

E per parecchio tempo funzionò alla grande: le culture locali vennero sommerse, i sudditi africani di Parigi – per esempio – imparavano a scuola ogni snodo della Storia francese, sapevano a memoria il nome di ogni presidente della République, ma sconoscevano il proprio passato che, come detto, esisteva, eccome! In questo contesto le leadership locali furono distrutte e quelle emerse dalle lotte per la decolonizzazione avevano radici nelle università e nelle accademie militari occidentali (o russe, ma questo è discorso su cui torneremo), con ciò sancendo un distacco dal sentire delle popolazioni che, salvo qualche sporadica eccezione, le fece evolvere in breve in regimi autoreferenziali abbarbicati al potere che avevano conquistato; il più delle volte appoggiati alle ex potenze coloniali e alle multinazionali di riferimento.

In assenza di autentica sintonia con la base popolare, con la cultura e il mondo valoriale in essa latenti, anzi, estranei a essa, anche movimenti che avevano riscosso enorme consenso e divenuti esempio della lotta per l’autodeterminazione dei popoli non sfuggirono a questa dinamica: esemplare è la parabola dell’FLN algerino, da movimento rivoluzionario trasformatosi in breve a coagulo di potere, il “Pouvoir”, come inteso colloquialmente in Algeria.

E se governi ambivano a svolgere programmi volti al radicale cambiamento della condizione dei paesi, arginando l’imperialismo di rapina e promuovendo la rinascita dei popoli, intervenivano le forze neocoloniali a ristabilire regimi a loro convenienti. Esemplare è la parabola di Thomas Sankara: a soli 34 anni divenuto presidente dell’allora Alto Volta – che con lui, per ripudio del passato coloniale, cambiò nome in Burkina Faso – nel 1983 avviò un profondo mutamento sociale ed economico della giovane nazione, uno dei più ambiziosi e coerenti intrapresi in Africa.

Incentrò la politica estera sull’opposizione all’imperialismo e allo strabordante quanto vessatorio potere del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale degli Investimenti; in politica interna promosse – ed effettuò – la nazionalizzazione delle terre ridistribuendole ai contadini, sottrasse le risorse naturali alla rapacità delle multinazionali, incentivò l’alfabetizzazione di massa e la costruzione di infrastrutture, riuscendo al contempo a ridurre il debito nazionale. E non basta: mise al bando le sub-culture che prevedevano le mutilazioni genitali femminili, la poligamia, i matrimoni forzati. La dimensione del suo successo, ottenuto in soli quattro anni, la certificò Jean Ziegler, ex funzionario dell’ONU per l’alimentazione: nel 1987 affermò che il paese aveva raggiunto l’autosufficienza alimentare.

Il governo di Sankara era la prova provata che opporsi allo sfruttamento del neocolonialismo era possibile, costruendo pure una storia di successo che strappava la popolazione alla miseria e alla fame. Una cosa semplicemente inammissibile a occhio delle potenze occidentali: nel 1987 un colpo di stato propiziato da Francia e Stati Uniti lo eliminò insieme a 12 collaboratori. Il suo vice, Blaise Campaoré, divenne l’uomo di Parigi; distrusse tutto quello che Sankara aveva costruito e regnò indisturbato per 27 anni. Costretto alla fine a cedere il potere, fuggì all’estero, continuando a vivere indisturbato sotto la protezione della République, malgrado i mandati di cattura emessi per i suoi crimini.

La dinamica neocolonialista dell’Occidente ebbe forte accelerazione con l’implosione dell’URSS, che lo privò di uno scomodo competitor. Il balenio del momento unipolare determinò il trionfo di Globalismo e Universalismo, condizione perfetta per l’affermazione dell’Imperialismo innervato dal neoliberismo e dal connaturato espansionismo degli Stati Uniti. In questo contesto, le spinte per l’asservimento economico, culturale e quindi politico del Continente ebbero campo libero e l’Africa fu appannaggio di oligarchie, meglio, cleptocrazie pilotate da poteri esterni, che si sono succedute via colpi di stato. Dal tempo della decolonizzazione ne sono stati tentati quasi 500, la metà dei quali riusciti, ed è ancora la Francia a essersi distinta su tutti per il più spregiudicato attivismo.

Risultato: il completo asservimento del Continente; per comprenderne la portata, basta l’esempio del Franco CFA, acronimo che sta per Franco della Comunità Finanziaria Africana (in origine Franco delle Colonie Francesi in Africa).Con esso in realtà si denominano due valute differenti: il Franco CFA dell’Africa Occidentale (UEMOA nell’acronimo) utilizzato da otto paesi, e il Franco CFA dell’Africa Centrale (CEMAC) utilizzato da sei paesi; entrambi hanno un tasso di cambio fisso con l’Euro. Gli stati che lo hanno adottato non possono emettere moneta, prerogativa riservata alla Banca Centrale Francese, e sono tenuti a depositare fino al 65% delle proprie riserve in un fondo comune presso il Tesoro francese. È evidente come ciò renda impossibile una loro politica monetaria nazionale, privi di sovranità quelle economie e le assoggetti a un signoraggio attraverso una moneta del tutto controllata dal Tesoro francese, che li costringe a convogliare in Francia assai più denaro di quanto non ne ricevano indietro.

È stato un saccheggio di proporzioni colossali delle risorse africane, che sono smisurate; per comprenderne le dimensioni basti ricordare alcuni dati: l’Africa possiede il 90% delle riserve mondiali di cobalto, il 90% di platino, il 50% di oro, il 98% di cromo, il 70% della tantalite, tutti metalli indispensabili agli attuali procedimenti industriali, e non solo quelli; possiamo aggiungere il 64% del manganese e un terzo dell’uranio, c’è l’imbarazzo della scelta fra quale delle commodities citare. Solo la Repubblica Democratica del Congo detiene il 70% del coltan, elemento base per la produzione di smartphone, e il 30% dei diamanti, a non parlare della bauxite, di cui la Guinea è il massimo esportatore mondiale. Inoltre, la scoperta di sempre nuovi e più ricchi giacimenti pone le attuali riserve africane di petrolio e gas – peraltro in vasta parte ancora vergini o sfruttate assai al di sotto delle potenzialità – nella concreta prospettiva di divenire le prime al mondo.

È stato il sacco di un Continente che non si è limitato alle risorse minerarie, anche la terra è stata depredata: le pratiche massive di land grabbing hanno convertito aree assai vaste – spesso le migliori – a monocolture, il più delle volte estranee al territorio, con ciò privando le popolazioni della loro tradizionale economia di sostentamento e devastando la natura dei luoghi.

A fronte di tutto ciò, l’Occidente si è limitato a rastrellare una massa enorme di risorse senza nulla lasciare, né impianti, né infrastrutture, né i germi di una base produttiva autonoma, meno che mai di trasformazione dei beni locali. Ha insistito invece ossessivamente sull’adozione di standard occidentali: perché? Perché, come geopolitica insegna e già accennato, la loro introduzione è stata l’indispensabile cornice per l’instaurazione – e il mantenimento – del sistema imperialista. E perché ha impedito per lungo tempo la formazione di establishment coerenti agli orizzonti valoriali e agli interessi nazionali degli stati africani.

A dire il vero un’altra cosa è stata incentivata: i debiti del Continente, a oggi veleggianti verso i 1200 Mrd di dollari; non tanti a occhio occidentale ma un’enormità se rapportati alle economie locali. E con un’aggravante: sollecitati da gruppi di potere esterni, gli establishment africani a loro asserviti hanno finanziarizzato la gran parte di quel debito rendendone il costo del servizio proibitivo – e facendo la felicità di molte istituzioni finanziarie internazionali.

Il mutamento africano

Un quadro del tutto desolante che pareva condannare l’Africa a eterna schiavitù, derubata dei suoi beni e dell’anima. Ma nulla dura per sempre. Malgrado le condizioni di estrema sudditanza, non erano mancati segni evidenti di un risveglio culturale: personaggi come Leopold Sedar Senghor o Leon Damas non erano rimasti voci isolate. La repulsione del colonialismo, del razzismo e dell’eurocentrismo avevano continuato a diffondersi ma – cosa che ha fatto la differenza – non come conseguenza di ideologie estranee al Continente (vedi il marxismo) ma nell’ambito di un sentimento panafricano, che non era basato su repulsione o chiusura all’altro da sé, ma sulla valorizzazione delle caratteristiche proprie e l’apertura verso l’esterno. Beninteso: su una base di reciproco rispetto, da pari a pari. E ciò perché le “differenze” – che esistono – finiscono per riemergere nei confronti di culture riconosciute come “altre” (in Europa è diverso, l’Occidente in cui essa s’ascrive da molto tempo è l’impero americano, seppur oggi declinato nella dicotomia liberal vs conservatori al pari di quanto avviene in USA di cui è provincia).

E le cose sono cambiate progressivamente – e radicalmente – per l’azione di vari fattori: su tutti, l’indebolimento dell’attrattiva occidentale e l’ingresso di nuovi attori nel Continente. Dietro ai lustrini delle liberal-democrazie, agli occhi africani l’Occidente s’è segnalato per l’avidità, per i ricatti del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale degli Investimenti, per l’imposizione di standard politici e culturali estranei alla popolazione e per l’arroganza venata di razzismo. A fronte di ciò, la diffusione della presenza cinese – tale da far parlare di un’Africa Gialla – a cui si sono aggiunte quella russa e – da ultime – turca ed emiratina, ha dato alle leadership africane che via via emergevano valide alternative.

Negli ultimi decenni Pechino ha investito in Africa 400 Mrd di dollari e nel 2022 l’interscambio è stato pari a 282 Mrd, confermandola di gran lunga la prima partner del Continente (quello con gli USA non arriva a un quarto della cifra). Ma non è solo questo, la Cina non si limita a rastrellare risorse ma costruisce infrastrutture indispensabili. È certo vero che nel passato diversi stati siano caduti nella “trappola del debito” (o abbiano rischiato seriamente di caderci) finendo in grave difficoltà, ma Pechino ragiona anche in termini politici e non di semplice utile immediato: ha compreso i termini di un problema che poteva ipotecare i suoi rapporti futuri e si è adoperata per risolverlo. Esempio ne è la recente ristrutturazione del debito dello Zambia, a cui la Cina ha lavorato a lungo e con successo. E non è tutto.

La Cina sta progettando di realizzare una rete di impianti di trasformazione delle risorse africane; ottimo affare per il commercio cinese – che lavorerebbe sul posto materie prime con costi contenuti – e volano per le economie locali; pessimo annuncio per quanto resta delle industrie manifatturiere europee che, del resto, hanno ignorato del tutto l’opportunità. Ma c’è ancora un fattore più importante, diremmo determinante: Pechino non impone standard, né culturali né politici, ed è attenta a trattare gli stati da pari. Questo per gli africani fa la differenza.

Anche la Russia è tornata in Africa; è ovvio che i tempi dell’URSS siano lontani, ma negli establishment del Continente Mosca ha ritrovato molti di coloro (tanti) che avevano studiato nelle Università sovietiche poi russe, e questo ha facilitato i reciproci rapporti. La sua attività ha avuto una forte originalità, distinguendosi per un duplice approccio, informale per aprire i canali e poi formale per consolidarli. Muovendosi soprattutto nell’ambito del comparto securitario e della gestione delle commodities di alto valore (oro su tutte, di cui i russi – direttamente o indirettamente – hanno quasi il monopolio sul Continente), molto è stato fatto grazie all’azione discreta di PMC (Private Military Company), su tutte il Wagner Group. Un marchio di successo ai tempi odierni sostituito dall’AfrikanskyKorpus, non più formazione privata ma alle dirette dipendenze del Governo russo.

Oggi Mosca si è nuovamente radicata in Africa, allargando la propria influenza a diecine di paesi: Libia, Mali, Burkina-Faso, Niger (dove si assiste all’inedita coabitazione di militari USA e consiglieri militari dell’AfrikanskyKorpus nella medesima base presso l’aeroporto di Niamey) e poi Ciad e Repubblica Centrafricana, con ciò scalzando del tutto quanto rimasto della residua influenza francese (e con ciò spiegando la recente acredine di Macron nei confronti di Mosca). Dal Sudan all’Algeria e giù nell’Africa profonda, al giorno d’oggi non è facile trovare stato che non abbia solidi rapporti con la Russia; essa offre collaborazione reciprocamente vantaggiosa ai nuovi vertici africani che stanno emergendo, non pretendendo d’imporre alcuno standard. E per inciso: se tante bandiere russe sventolano nelle piazze del Continente è perché, grazie alla propaganda occidentale, Mosca è percepita come anti-Occidente. È un clamoroso autogol del mainstream mediatico: la Russia incassa simpatia e si espande. E non è sola.

La Turchia sta dimostrando da anni un dinamico attivismo (vedi il radicamento in Libia, nel Corno d’africa e la proiezione sub-sahariana) che la sta ponendo al centro della scena grazie a pragmatismo e capacità di comprendere le culture islamiche di molti stati. Spregiudicato esempio di espansione d’influenza, tuttavia – a mio parere – in prospettive destinato a ridimensionamento causa risorse non pari ad ambizioni nutrite, a un’economia che impiegherà ancora anni a riscuotere i dividendi di una proiezione imperiale.

Sia come sia, in questo contesto l’Africa ha preso a cambiare: i principali indicatori UNDP (United Nation Development Programme) segnano netto miglioramento delle complessive condizioni di vita nel Continente, ovviamente al netto di squilibri anche assai forti (di cui, del resto, l’Occidente non è affatto esente, e gli stessi USA ne sono emblematico esempio), con ciò smentendo l’archetipo di un Africa del tutto arcaica, condannata a generale, eterna povertà. Il suo stesso debordante peso demografico è ambivalente: nel 1950 il Continente contava 221 milioni di abitanti oggi giunti a 1400 e nelle proiezioni destinati a 2500 nel 2050. Se da un canto ciò prefigura indigenza e difficoltà per sfamare una tale massa, è pur vero che le enormi risorse africane finora siano state impiegate male e per interessi altrui, ma il punto è ancora un altro: al di là da influenze malthusiane, una popolazione giovane – piaccia o no – è tendente a dinamismo, può rivelarsi un asset di formidabile portata; guardare al declino dei paesi europei in secca contrazione demografica (Italia su tutti) per averne comprova.

Ma non parliamo solo di mutamenti strutturali: fra le leadership africane si è sviluppato un nuovo atteggiamento che taluni definiscono “soggettivista”: esso tende a badare agli interessi nazionali piuttosto che a schierarsi a prescindere, omologandosi a interessi altrui. Nei fatti non accetta più modelli unici imposti dall’esterno; è l’Africa che riemerge con le sue differenze, variegata; contrariamente a inveterati stereotipi di marca occidentale, ciò che s’attaglia a uno stato si dimostra inadeguato o del tutto fallimentare in un altro. Acquista soggettività e dinamismo.

L’Africa al tempo della Guerra Grande

Le temperie della Guerra Grande, del cozzo fra Unipolarismo egemonico vs resto del mondo hanno accelerato i processi che abbiamo descritto e messo sotto i riflettori una realtà del tutto nuova. La postura assunta dagli stati africani rispetto alla guerra in Ucraina è stata la prova provata di un cambiamento che ha spiazzato USA e Occidente: ha mostrato un Continente assai più incline a seguire gli interessi propri che gli input esterni del momento, vedasi voto all’ONU per le sanzioni o l’isolamento della Russia.

In poco più di due anni, l’accelerazione imposta agli eventi dalla Guerra Grande ha portato al tracollo dell’influenza occidentale nel Continente e al collasso delle strutture di potere attraverso cui lo esercitava. In primis della Françafrique e della CEDEO (o ECOWAS nell’acronimo inglese) sua espressione politica. La serie di colpi di stato in Guinea, Mali, Burkina-Faso, Niger, Gabon hanno disintegrato la proiezione del potere occidentale in generale e quello francese in particolare. Dimostrando di non sapere/volere comprendere gli africani, all’inizio le capitali dell’Occidente hanno derubricato le dinamiche a eventi locali; è stato il colpo di stato in Niger – che ha rovesciato Mohamed Bazoum ponendo fine alla finta democrazia del PNDS, partito eternamente al potere – a far scattare l’allarme rosso.

Il fatto è che quei golpe sono apparsi subito del tutto in linea con la volontà popolare, mostrata sia dalle imponenti manifestazioni di sostegno che dai sondaggi condotti dai media occidentali. Agli increduli intervistatori, il 79% dei nigerini ha dichiarato apertamente di appoggiare la giunta militare. Non solo. Nel clima arroventato del momento, era stato fortemente ventilato un intervento militare dall’esterno per garantire l’ordine; ebbene, anche fra coloro che lo accettavano, la maggioranza assoluta voleva un intervento russo, solo il 13% sosteneva l’invio di truppe americane.

Prova provata dell’orientamento della regione, sono state le elezioni presidenziali tenutesi il 24 marzo scorso in Senegal: a trionfare al primo turno è stato Bassirou “Diomayé” Fayé, staccando di quasi 20 punti Amadou Ba, il candidato del presidente uscente Macky Sall, malgrado manovre e ostacoli d’ogni tipo. Perché è importante? Perché è la prima volta che il cambiamento in Africa ha trovato la strada nelle urne invece che in colpi di stato.

E cambiamento è, basta vedere non solo il programma governativo – in cui la “sovranità nazionale” è richiamata 19 volte – e le dichiarazioni di Faye prima e dopo il voto, ma anche la sua biografia. È un giovane intellettuale di 44 anni, il più giovane presidente africano, con una solida preparazione amministrativa. È stato in carcere negli 11 mesi prima delle votazioni, venendo scarcerato solo dieci giorni prima. Era un oppositore dichiarato del gruppo di potere dell’ex Presidente e sostenitore di un panafricanismo che mettesse fine allo sfruttamento di popoli e nazioni. Intende disfarsi appena possibile del Franco CFA, che ritiene strumento del neocolonialismo di Parigi.

È stata una sconfitta netta per la Francia (che aveva nel gruppo di potere precedente un pilastro), per l’Occidente e per le multinazionali a cui il paese era stato svenduto, e che ora si vedranno rinegoziati i contratti. Vedasi per questo il programma del neo Presidente e i primi passi già compiuti. A completare il quadro, come primo ministro ha chiamato Ousmane Sonko, suo compagno di carcere, mentore, e storico oppositore del regime. Per Parigi, la crisi che sta attraversando è paragonabile a quella del 1956 a Suez; allora fu la fine delle sue ambizioni coloniali, oggi suona campana a morto per il suo neocolonialismo.

Ma sbaglia chi pensa che sia solo la Francia nel mirino, vi è l’arroganza con cui l’Occidente pensa ancora di poter trattare gli africani: il 16 marzo la giunta militare nigerina ha denunciato con effetto immediato l’accordo militare con gli USA. L’accordo, in vigore dal 2012 e accettato dal governo dell’epoca sulla base di una semplice comunicazione verbale unilaterale, permetteva al Pentagono di operare a discrezione nel paese, in particolar modo dalla Base 201 presso Agadez, costata ben oltre cento milioni di dollari e fondamentale per l’operatività dei droni americani in Africa, e dalla Base 101 presso l’aeroporto di Niamey.

Nei mesi successivi al golpe del luglio scorso, la giunta militare aveva espulso le truppe francesi e le missioni della UE; a far precipitare la situazione anche per gli americani è stato l’improvviso arrivo, non preannunciato, di Molly Phee, assistente alla Segreteria di Stato per l’Africa, e Michael Langley, comandante dell’AFRICOM. Dal 12 al 14 marzo i rappresentanti USA hanno tentato di dettare condizioni con un’arroganza che ha fatto infuriare i nigerini. La subitanea rescissione dell’accordo ha lasciato di stucco Pentagono e Segreteria di Stato, non abituati a tali reazioni; i frenetici tentativi di ricucire sono falliti e le truppe americane lasceranno il paese entro i prossimi mesi, sostituite in tempo reale dall’AfrikanskyKorpusin base a un accordo siglato con Mosca a gennaio.

E per inciso: anche se ciò che è recentemente accaduto in Ciad è con ogni evidenza altro discorso, null’altro che una dinamica interna al gruppo di potere di Muhammad Idriss per alzare il prezzo con Francia e Usa, i sodali di sempre, il fatto che un soggetto considerato docile strumento levi la voce dopo un viaggio a Mosca (gennaio 2024) costituisce una novità che costringe gli USA a inusitata diplomazia.

Eppure il ripudio degli Stati Uniti era un epilogo che non appariva affatto segnato: i vertici delle giunte militari attualmente al potere nel Continente sono piene di alti ufficiali formatisi all’ombra del Pentagono. Il fatto è che l’Occidente – in primis gli USA – non è in grado di comprendere gli africani, meno che mai nelle temperie odierne è capace di capire l’altro da sé, è del tutto prigioniero della propria visione del mondo, di una geocultura in crisi manifesta ormai rifiutata fuori dalla sua sfera; non riesce a comprendere che oggi, in un mondo di fatto multipolare, gli africani possono scegliere. Iconica è in tal senso la reazione di Emanuel Macron alla notizia dell’ennesima ingiunzione di ritiro delle truppe francesi; dinanzi al suo corpo diplomatico ha esclamato: “Viviamo in un mondo di pazzi!”. Con ciò sottintendendo che l’assoggettamento alla Francia fosse dovuto, eterno e ovviamente logico.

Parere del tutto condiviso dagli USA, con l’aggravante d’un paranoico atteggiamento che vede trame russe, cinesi e iraniane dietro ogni richiesta o diniego dei governi africani. Con ciò finendo per fare un favore ai propri avversari. Del resto, anche a volerlo, gli Stati Uniti sono sovra estesi, semplicemente non hanno risorse, attitudine e progetti da dedicare a un teatro – l’Africa – da essi ritenuto ormai del tutto secondario rispetto ad altri cui stentano già molto a tener dietro.

Conclusione

La dinamica in atto potrebbe offrire all’Italia l’occasione per svolgere un ruolo in un’area economicamente e politicamente per lei nevralgica, perché la sua missione militare in Niger, la MISIN, rappresenta l’unico contingente occidentale rimasto nel quadrante. Potrebbe, ma non lo riteniamo, perché il governo italiano è del tutto schiacciato sugli interessi di Washington, di Bruxelles e delle multinazionali che hanno spadroneggiato nell’area, e lo ha ampiamente dimostrato. Del resto, non ha tracciato propri interessi nazionali, meno che mai ha pensato a credibili modi e strumenti per realizzarli.

Lo stesso enfatizzato “Piano Mattei”, che assai meglio sarebbe chiamare “Piano Leonardo”, nella sua presentazione a Roma nel gennaio scorso ha riproposto tutti i vizi dell’approccio occidentale all’Africa. Dinanzi ai leader africani presenti (molte le assenze, soprattutto quelle di peso: Sud Africa e Nigeria erano rappresentati – se così può dirsi – da funzionari a dir poco minori) erano schierati i vertici della UE e del Fondo Monetario Internazionale (esattamente gli attori invisi agli africani) per vendere una scatola vuota (5,5 Mrd fra prestiti e finanziamenti riciclati da altre iniziative per progetti ripresentati sotto altra veste, alcuni avviati già da tempo – vedi quello previsto in Marocco) la cui gestione sarà data in massima parte a grandi gruppi industriali, invece che alla rete delle medie imprese italiane, molto più efficaci e indicate a rapportarsi con la realtà africana. Insomma, una (assai) dubbia iniziativa calata dall’alto senza il coinvolgimento degli attori locali, come criticamente sottolineato dal Presidente dell’Unione Africana, Moussa Faki. Ennesima riproposizione di schema neocoloniale, esatto opposto di ciò che vuole l’Africa che sta emergendo.

Il punto è che, malgrado rimossa dalla coscienza dei più e relegata alla sola questione dei migranti, piaccia o no dall’Africa non possiamo prescindere, è crimine verso noi stessi trascurarla. Per debordante peso demografico, per rilevanza delle risorse possedute (che sarà sempre meno incline a lasciarsi rapinare) e per vicinanza geografica – dunque geopolitica – che impatta sull’Europa, massimamente sull’Italia. Buonsenso vorrebbe che l’Occidente mutasse radicalmente atteggiamento, non fosse che per convenienza, e badasse a governare i rapporti nel (e per) reciproco interesse; esperienza dice che non avverrà e, con ogni probabilità, sarà il Continente che dicevano “nero” a salutarci e andare per la sua strada, lasciandoci alla nostra decadenza.