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L'espansionismo americano. Un "destino manifesto"? Intervista a Giovanni Damiano

di Pietro Carini - 21/10/2008

Fonte: libreriaar

 
Lei ha già pubblicato alcuni testi che si occupano di filosofia; invece il suo ultimo libro sull’espansionismo americano è una ricerca storica. Esistono dei collegamenti tra queste opere?

 

In effetti un ‘filo rosso’ che lega questi libri tra loro esiste. Si tratta della critica al concetto di necessità in filosofia e del rigetto di una visione ‘inevitabilistica’ della storia. È un punto essenziale: oggi, nonostante il tanto sbandierato ‘disincanto’, le ‘grandi narrazioni’ tendenti a rintracciare un percorso necessario della storia non solo non sono scomparse ma vengono addirittura riproposte con ancora più forza. Perciò ritengo molto importante continuare a delineare una visione alternativa fondata sulla libertà. Inoltre, diversi argomenti su cui mi soffermo nel mio ultimo testo hanno ad esempio parecchi agganci con il lavoro sulla globalizzazione. In fondo, il riferimento ad uno scenario internazionale multipolare cos’altro è se non un ‘elogio delle differenze’? Ed anche la critica al globalismo giuridico, uno degli aspetti essenziali del mio testo sulla globalizzazione, ricorre ne L’espansionismo americano.

Perché ha scelto proprio questo argomento?

 

In parte ho già risposto. Volevo dimostrare che l’espansionismo americano non risponde affatto ad una necessità storica. Ma ho ritenuto opportuno, al fine di raggiungere questo scopo, affrontare una ricostruzione storica del ‘tragitto’ espansionistico degli Stati Uniti. Insomma, ho avvertito l’esigenza di mettere alla prova la critica all’inevitabilismo, al determinismo unidirezionale. E quale miglior prova dell’esame del concreto divenire storico degli Stati Uniti?

Come spiega il sottotitolo che ha scelto per il suo libro?

 

Anche qui nel rispondere mi ricollego a quanto detto prima. La nozione di ‘destino manifesto’, coniata da John O’Sullivan nel 1845, si presta molto bene a fornire una giustificazione inevitabilistica, in senso quasi messianico, dell’espansionismo americano. Anzi, si potrebbe affermare che il trionfo ‘globale’ degli Stati Uniti possa essere interpretato come la realizzazione di tale destino. Ecco perché tale nozione a mio avviso andava problematizzata, al fine di mostrare l’inconsistenza di queste ricostruzioni ideologiche una volta messe alla prova della concreta realtà storica. Il mio testo, infatti, tenta di mostrare come l’espansionismo americano si sia andato costruendo seguendo un percorso per nulla scontato o lineare, molto più debitore delle mutevoli circostanze storiche che non di una presunta ‘inevitabilità’.

Lei definisce gli Stati Uniti una nazione ideocratica. Potrebbe chiarire questo punto?

 

Sulla scia delle analisi di Costanzo Preve, ho definito gli Stati Uniti come una nazione ‘ideocratica’ perché ritengo che gli americani abbiano costruito la loro autocoscienza nazionale su di una idea centrale che ho individuato nella superiorità sull’Europa. Non semplicemente distacco dall’Europa, quindi, ma soprattutto superiorità su quest’ultima. E credo che tale superiorità non possa essere ricondotta esclusivamente al puritanesimo, cioè al tema dell’elezione. Piuttosto, un altro importantissimo punto su cui gli americani hanno insistito nel rimarcare la loro superiorità consiste nel repubblicanesimo. Tutta la grande tradizione repubblicana inglese sei-settecentesca ha un ruolo primario nella storia americana. E qui molto ci sarebbe da dire sulle differenze con la rivoluzione francese. Mentre il repubblicanesimo americano non era un ritorno tout court all’antichità classica, in quanto mediato dalle concrete vicende storiche e intellettuali dell’Inghilterra sei-settecentesca, quello francese invece volle riallacciarsi, in maniera del tutto astratta e ideologica, direttamente all’antichità. Ci sono al riguardo alcune pagine illuminanti di Franco Venturi (penso al suo Utopia e riforma nell’Illuminismo) e di Luciano Canfora (mi riferisco soprattutto al capitolo "Il classicismo della politica giacobina" del suo Ideologie del classicismo), senza contare gli studi di Pierre Vidal-Naquet. Insomma "l’immaginario neoantico" (per dirla con Marc Fumaroli) proprio del giacobinismo era null’altro che una (feroce) impostura, laddove il repubblicanesimo americano fu un vero nuovo inizio della tradizione repubblicana.

Può riassumere i punti nodali del suo testo?

 

Molto schematicamente: ho insistito ovviamente sul Farewell Adress di Washington e sulla cosiddetta ‘Dottrina Monroe’ perché sono i pilastri dell’isolazionismo e insieme una testimonianza chiarissima dell’ideocrazia americana. Ho poi dedicato un capitolo alla guerra di secessione in quanto evento decisivo della storia degli Stati Uniti. Mi sono inoltre soffermato sulla politica imperialista di McKinley e Theodore Roosevelt, interpretata come una ‘europeizzazione’ della politica estera americana, come il punto probabilmente più basso, a mio avviso, dell’ideocrazia americana. Laddove l’interventismo di Wilson ha rappresentato, al contrario, il punto di massima condensa della tendenza ideocratica e l’inizio del ‘nuovo ordine mondiale’ statunitense. Particolare attenzione ho poi riservato al ritorno all’isolazionismo tra le due guerre mondiali, una vera e propria ironia della storia, per poi appuntare l’attenzione sull’entrata in guerra e sul ‘grande disegno’ di Franklin Delano Roosevelt, ossia sul trionfo dell’ideocrazia americana. Seguendo i successivi avvenimenti, dalla guerra fredda alla eclissi dell’Urss, sono infine giunto all’attuale situazione che vede gli Stati Uniti come la potenza egemone a livello planetario.

 

Quali sono le sue analisi relative all’attuale contesto internazionale?

 

Una risposta all’attuale egemonia americana può venire, a mio parere, solo da un multiverso di grandi spazi. Ciò non comporta automaticamente la dissoluzione degli Stati. Anzi, non sono pochi gli esempi di grandi spazi coincidenti con uno Stato (India, Cina, Stati Uniti, Russia). Il problema, in realtà, è principalmente europeo. È l’Europa ad essere troppo frammentata, troppo debole politicamente, troppo subordinata agli interessi americani. È soprattutto l’Europa ad aver bisogno di dar vita ad un grande spazio basato su di una federazione di Stati, per poter davvero costituire un ‘centro’ politico sovrano. Non solo. C’è bisogno di un nuovo diritto internazionale, in grado di ricostituire il tessuto della legalità internazionale lacerato dal ‘diritto egemonico’ statunitense (che si traduce in uno stato d’eccezione globale) e capace, al contempo, di sfuggire alle insidie del diritto cosmopolitico. Sulla scia di Hedley Bull, ho ravvisato un’opzione credibile in questa direzione nella linea neo-groziana modellata sulla società internazionale degli Stati.

Ritiene che il testo possa risultare superato con il cambiare degli eventi?

 

È una domanda alla quale è difficile dare una risposta. Sicuramente non ho pensato e scritto il testo guardando esclusivamente all’attualità. Né tanto meno ho inteso confondere il mio testo con i tanti libri di denuncia sull’argomento. In altre parole, non ho mai avuto l’intenzione di scrivere un ‘libro nero degli Stati Uniti’, né un libro imbevuto di anti-americanismo ideologico, né tanto meno un libro ‘complottista’, ecc. Cioè quel tipo di libri dal fiato cortissimo che sacrificano l’analisi a delle tesi aprioristiche e poco meditate. Più in generale, ho cercato di non cadere nella trappola della facile demonizzazione e dello scontro di civiltà. In ogni caso, sarà il tempo ad essere more solito buon giudice.

* Intervista pubblicata in Margini. Letture e riletture - periodico della Libreria Ar  () - n. 55 del luglio 2006