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Corruzione. Una malattia italiana?

di Carlo Gambescia - 30/12/2008

Il caso dell’imprenditore napoletano Romeo (http://www.repubblica.it/2008/12/sezioni/cronaca/arresti-napoli-2/romeo-verbali/romeo-verbali.html ), presunto corruttore di politici di destra e sinistra, pare prontissimi a farsi corrompere, viene spesso affrontato dai media in termini “autolesionistici”, come sintomo di una profonda malattia, tipicamente italiana. Il che è vero, ma solo in parte.
La corruzione resta sociologicamente legata all’esercizio del potere. E cresce proporzionalmente in base al tasso di vischiosità tra classe economica e politica. Vischiosità che a sua volta è collegata al tasso di regolazione pubblica dell’economia privata. Se il limite di un’economia privata (o privatizzzata) è l’egoismo individuale, quello di un’economia pubblica è la corruzione collettiva. Oggi, tuttavia, almeno in Occidente, non esistono più economie interamente private o interamente pubbliche. Ma economie pubbliche e private al tempo stesso. Di qui il predominio sostanziale di quella sfera tra pubblico e privato, dove non possono non proliferare al tempo stesso egoismo (individuale) e corruzione (pubblica). Due fenomeni che si nutrono vicendevolmente di divieti burocratizzati, legati - piaccia o meno - alla natura inevitabilmente routinier delle istituzioni sociali.
I cui tassi di crescita, certo, sono "anche" influenzati dalle particolari tradizioni socioculturali e politiche (di buon governo, moralità pubblica e di circolazione delle élite) vigenti nelle diverse nazioni. Tradizioni che però -ripetiamo - non sono “la causa” della corruzione, ma “le concause”. Insomma, influenzano ma non determinano.
Inoltre il problema del mix pubblico-privato si ripercuote anche sui cosiddetti controlli di trasparenza ( si pensi al fenomeno della authorities). Dal momento che i funzionari addetti ai controlli in genere provengono dallo stesso gruppo sociale pubblico-privato. Di qui come spesso si nota il conflitto di interessi tra un “controllore”, in precedenza “controllato”, e così via…
Ovviamente, di tanto in tanto, la magistratura interviene, e come si dice, la corruzione viene a galla… Ma la questione di fondo resta. Perché è legata alla natura, al tempo stesso pubblica e privata, delle nostre economie. Un fattore fondamentale che concerne la struttura capitalistica dell’economia, basata sull ambiguo “viluppo” pubblico-privato. Quantomeno attivo a livello di comuni interessi sistemici tra classe economica e politica, finalizzati al sopravvivere, e spesso molto bene.
Pertanto i neo-liberisti che imputano la corruzione a quei vincoli politici che frenerebbero lo sviluppo del libero mercato, costringendo gli imprenditori a corrompere il politico di turno, pur di “lavorare”, scorgono solo un lato della questione. E soprattutto puntano sul rimedio sbagliato: la privatizzazione totale dell’economia. Invisa, tra l’altro, agli stessi imprenditori capitalisti. I quali non vogliono rinunciare agli aiuti di stato, soprattutto nelle situazioni di crisi.
Ma sono in errore anche i neo-interventisti che addossano le colpe agli imprenditori privati: veri diavoli tentatori nei riguardi di "poveri e innocenti politici". E che finiscono per proporre un rimedio altrettanto sbagliato: accrescere, anche in tempi normali (non di crisi), quei controlli pubblici che invece rischiano, come abbiamo visto, di alimentare la corruzione.
Pertanto nelle economie capitalistiche la risposta alla corruzione non può consistente nella privatizzazione, ma neppure in un esteso controllo pubblico dell’economia.
Probabilmente la soluzione è nell’individuazione del giusto mix pubblico-privato. Una scelta che però rinvia alle tradizioni socioculturali e politiche dei diversi popoli: le concause, di cui sopra.
E qui, riguardo all'Italia, gli “autolesionisti” non hanno tutti i torti.