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Bolivia: di sana e robusta costituzione

di Fabrizio Casari - 26/01/2009

 
 

“Oggi, 25 Gennaio 2009, si chiude l’epoca coloniale e si rifonda una nuova Bolivia, che offre pari opportunità a tutti i boliviani”. Con queste parole, pronunciate dal Palazzo del Quemado, il Presidente Evo Morales ha salutato il suo ennesimo trionfo elettorale nel paese andino, sancito da un voto favorevole al referendum sulla nuova Costituzione della Bolivia che ha raccolto oltre il 60 per cento dei voti, che mandano in soffitta 184 anni di storia coloniale boliviana. La nuova Costituzione, elaborata dall’Assemblea Costituente, aumenta notevolmente il controllo statale sull’economia e l’influenza delle 36 nazioni indigene nella rappresentanza politica, impone - con l’articolo 398 - il limite invalicabile di cinquemila ettari per l’estensione massima delle proprietà terriere e stabilisce che sarà necessario, in futuro, ottenere l’approvazione delle comunità indigene prima di poter sfruttare le risorse naturali nel loro territorio.

Ha quindi ragione il presidente Morales che vede nell’approvazione della nuova Carta costituzionale, da lui fortemente voluta, “la fine del latifondismo e dell’epoca coloniale, interna ed esterna”. La Costituzione approvata, infatti, prevede la costruzione di uno Stato “unitario, sociale e di diritto plurinazionale, libero e indipendente, che offre ascolto a “tutti i movimenti sociali sulle scelte riguardanti l’educazione, la salute e la casa”. La nuova Carta prende atto della struttura plurinazionale del paese che viene rappresentata direttamente ed indirettamente in tutti i suoi 411 articoli, che riconoscono sullo stesso piano le autonomie regionali, provinciali, territoriali indígene e municipali che già esistono. Il testo costituzionale riconosce tre tipi di democrazia: rappresentativa, diretta e comunitaria e allo stesso tempo stabilisce una conseguente articolazione tra la giustizia ordinaria e la quella comunitaria.

Anche per questo il voto, oltre a rappresentare il certificato di nascita ufficiale della sovranità boliviana, conferma la natura di classe dello scontro politico interno al paese, con una mappatura dei “Si” e dei “No” che coincide perfettamente con la composizione sociale delle diverse regioni del paese. Se infatti il “Si” si è imposto massicciamente nelle zone dove la popolazione è indigena, nelle quattro regioni orientali, componenti la cosiddetta zona della “mezza luna”, dove la popolazione è di origine europea, il latifondismo filo statunitense è riuscito a far prevalere i “No” al referendum. L’opposizione esterofila parla di frode, ma le operazioni di voto si sono svolte senza incidenti e nel massimo ordine, secondo quanto hanno confermato i numerosi osservatori internazionali della UE, dell’OSA (Organizzazione degli Stati Americani ndr) e di altri organismi indipendenti locali ed esteri.

Con il supporto statunitense, gli esponenti del latifondo locale e i nostalgici del vecchio regime invitano alla disobbedienza e a vigilare. C’è da capirli: d’altro canto, la limitazione per legge del latifondo, insieme alla concessione di ampi spazi alle comunità “Aymara”, “Quecha” ed alle altre etnie del paese, di fatto consegna la Bolivia alla maggioranza dei boliviani, allentando con ciò, robustamente, la presa della multinazionali straniere e del latifondo locale sulle risorse naturali di cui è ricco il paese.

Risorse che, storicamente, hanno sempre contribuito ad arricchire la borghesia indoeuropea della zona orientale, lasciando invece la zona andina nella miseria. Salute, educazione, casa, trasporti, rappresentanza politica, erano (fino alla vittoria di Evo) parte del patrimonio esclusivo delle regioni orientali “ricche” e termini privi di senso per le comunità indigene, che si vedevano spogliati delle ricchezze giacenti nel loro territorio a vantaggio delle multinazionali dell’energia. Il saccheggio del sottosuolo prima e l’esportazione all’estero dei capitali poi, erano i due principali rami d’attività che determinavano le politiche economiche della storia boliviana, fatta di governi nati a Washington e ufficializzati a La Paz. Lo ha detto chiaro e tondo Evo Morales: “Abbiamo posto fine al neoliberismo, alla vendita al miglior offerente delle nostre risorse naturali. Con il voto odierno - ha proseguito - è il popolo a decidere, ad approvare o rifiutare una nuova Costituzione. Prima questo tipo di riforme le decidevano i capi dei partiti”.

Il risultato del referendum in Bolivia rappresenta quindi un nuovo passo in avanti sia per l’affermazione della sovranità popolare del paese andino che per un ulteriore consolidamento della nuova America Latina. Non si può però non evidenziare come di fronte all’avanzata elettorale della sinistra nel subcontinente, il Dipartimento di Stato Usa ha imposto una linea che indica brogli e frodi ovunque le elezioni (dal Venezuela al Nicaragua, dall’Ecuador alla Bolivia) diano un responso di sinistra ed indipendentista, tentando di delegittimare ogni voto che si oppone agli obiettivi politici della Casa Bianca.

La verità, però, è che le classi subalterne dei diversi paesi latinoamericani, un tempo aliene ai processi democratici interni, hanno assunto un ruolo preponderante attraverso la rappresentanza politica delle loro istanze che i partiti e i movimenti politici nazionalisti ed indipendentisti, a chiara impronta socialista, sono riusciti a dare. L’impatto mediatico e politico della linea di difesa statunitense appare quindi di corto respiro, giacché quella che appare a tutti gli effetti come una svolta storica, difficilmente potrà essere messa in discussione da un impero alle corde, in grave deficit di credibilità politica e in totale crisi di leadership. In attesa che Barak Obama apra il dossier su quello che fino a qualche anno fa è stato il “patio trasero” (giardino di casa ndr) degli Stati Uniti, i latinoamericani hanno preso gusto a prendersi la parola . Difficile ora rimetterli a tacere.