Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Esiste ancora il concetto di virtù, ovvero di eccellenza?

Esiste ancora il concetto di virtù, ovvero di eccellenza?

di Francesco Lamendola - 23/09/2009


Per l'uomo greco, il concetto di «areté» era inseparabile dal senso della propria vita: esso esprimeva un modo perfetto di essere, dunque l'eccellenza morale dell'uomo e della donna, la loro capacità di svolgere una determinata cosa nel modo ottimale. In senso più ampio, l'«areté», pur mostrandosi nell'azione, connotava la capacità di essere abitualmente eccellenti, e non eccellenti soltanto in maniera episodica ed estemporanea.
Di conseguenza, essa si accompagnava necessariamente alla perseveranza; e, aristotelicamente, implicava la coincidenza fra virtù e realizzazione della propria essenza. In quest'ultimo significato, la virtù non è una proprietà esclusiva dell'uomo, ma di tutti gli esseri che sappiano realizzare pienamente le loro potenzialità migliori, portandole alla perfezione.
Per il romano, il concetto corrispondente, e altrettanto importante, era quello di «virtus», derivante dal vocabolo «vir», «uomo», da cui il sostantivo «virilità»: per cui la virtù era l'eccellenza maschile, specialmente nelle attività guerresche; e poi, in senso lato, il complesso delle qualità positive di un individuo, anche di sesso femminile, tali da renderlo perfetto e degno di essere ammirato e assunto ad esempio da imitare.
Il cristianesimo ha ripreso il concetto di virtù, adattandone il significato alla propria prospettiva e alle proprie specifiche finalità, secondo la massima di Gesù: «Siate perfetti, come è perfetto il Padre vostro nei Cieli». In ambito cristiano, peraltro, si assiste ad una rielaborazione del concetto di virtù che porta ad una sua suddivisione in un insieme di virtù, dalle quali scaturisce l'uomo moralmente perfetto: ma di una perfezione sempre potenziale e mai compiutamente realizzata; sempre - se ci si perdona il bisticcio - imperfetto: perché (e questa è una differenza fondamentale con la prospettiva greca e romana) nessun uomo può dorsi perfetto, sia perché siamo tutti segnati dal marchio del peccato originale, sia perché la perfezione non è di questo mondo.
Dunque, le virtù cristiane sono una costellazione di qualità: delle quali, secondo la teologia tradizionale, tre sono le teologali: fede, speranza e carità, ossia di origine divina; e quattro sono le cardinali: prudenza, giustizia, fortezza e temperanza, ossia di origine naturale. Il perfetto cristiano - perfetto in senso relativo, come si è detto - cerca di realizzare in sé stesso queste ultime, mentre si affida a Dio per ricevere in dono le altre, come una grazia che viene dall'alto.
Già Aristotele, peraltro, aveva insegnato che non è possibile pervenire al possesso di una singola virtù, senza puntare a realizzare in se stessi anche le altre; che le virtù, cioè, sono un tutto unitario e inscindibile, e che possederne pienamente una, significa possedere anche le altre. Non è possibile, per Aristotele, essere coraggiosi senza essere anche saggi; così come, per il cristiano, non è possibile essere giusti, senza essere anche prudenti.
In effetti, un altro filosofo pagano, Seneca, aveva riconosciuto alla prudenza uno statuto speciale, vedendo in essa la «summa» di tutte le virtù, e anzi, in definitivo, la stessa cosa della virtù medesima: perché solo la persona prudente sa vedere a qual fine conducano le proprie azioni, ciò che è proprio della virtù.
Il cristianesimo riprende il concetto di una precedenza della prudenza rispetto alle altre virtù cardinali; mentre, per quelle teologali, da San Paolo in poi, l'accento viene posto sulla carità, intesa come amore disinteressato e incondizionato (! Corinzi, 13, 1-13):

«Se io so parlare le lingue degli uomini e degli angeli, ma non possiedo l'amore: sono come una campana che suina, come un tamburo che rimbomba. Se ho il dono di essere profeta, di svelare tutti i segreti; se ho il dono di tutta la scienza; anche se ho una fede che smuove i monti: se non ho l'amore, a che vale? Se distribuisco ai poveri tutti i miei averi e come martire lascio bruciare il mio corpo: senza l'amore, niente io ho. Chi ama è paziente e premuroso. Chi ama non è geloso, non si vanta, non si gonfia di orgoglio. Chi ama è rispettoso, non va in cerva del proprio interesse; non conosce la collera, dimentica i torti.  Chi ama rifiuta l'ingiustizia, la verità è la sua gioia. Chi ama, tutto scusa, di tutti ha fiducia, tutto sopporta, non perde mai la speranza.  Cesserà il dono delle lingue, la profezia passerà; finirà il dono della scienza, l'amore mai tramonterà. Il dono della scienza è imperfetto, il dono della profezia è limitato. Verrà ciò che è perfetto ed essi svaniranno. Da bambino parlavo come un bambino, come uno di loro pensavo e ragionavo. Poi, divenuto uomo, ho smesso di fare così. Ora vediamo Dio in modo confuso, come in u antico specchio: ma quel giorno verrà ciò che è perfetto, lo vedremo faccia a faccia. Ora lo conosco solo in parte: ma quel giorno, quando verrà, lo conoscerò come lui mi conosce. Ora solo tre cose contano: fede, speranza, amore. Ma la più grande di tutte è l'amore.»

Naturalmente, nella prospettiva cristiana, che muove da una concezione sostanzialmente dualistica del reale (così come in quella platonica), il concetto di virtù è impensabile senza il suo corrispettivo negativo, al quale si contrappone in una lotta ad oltranza: ossia il vizio. Virtù e vizio diventano, in tal modo, i due termini di una dialettica polare, che trasforma la vita morale in un eterno campo di battaglia tra le forze del Bene e quelle del Male.
Mano a mano che l'etica cristiana, e la concezione del reale ad essa sottesa, perdeva la propria forza originaria e si stemperava in una consuetudine sempre più vuota e ripetitiva, il concetto di virtù si è rimpiccolito e ha finito per designare singoli comportamenti considerati «virtuosi» in se stessi, facendo astrazione dall'insieme di tutti gli altri valori moralmente eccellenti e riducendosi a stereotipo da precettistica spicciola: così, ad esempio, la «virtù» femminile per eccellenza ha finito per essere identificata con la castità, intesa in senso puramente fisiologico.
L'uomo del Rinascimento, infine, rifacendosi sia a Platone che ad Aristotele, vede l'eccellenza come un fatto di perfezione non solo morale, ma altresì spirituale, culturale ed anche fisica. Il perfetto ideale educativo rinascimentale è sintetizzato nella pedagogia di Vittorino da Feltre, oltre che nei suoi metodi che danno ampio risalto alla completezza, all'armonia, alla gioia di vivere. Essa mira alla formazione dell'uomo integrale, capace di eccellere tanto negli studi e nelle arti, quanto negli esercizi fisici e nel maneggio delle armi; un uomo che sappia degnamente rappresentare il microcosmo di cui è portatore, entro il macrocosmo della natura.
In breve, anche per l'uomo rinascimentale la virtù è qualcosa di unitario: concezione, in questo, più vicina a quella greca che alla cristiana, anche per l'enfasi posta sulla perfettibilità dell'uomo e per l'ottica sostanzialmente immanentistica entro la quale si viene a porre.
Peraltro, con Machiavelli, si assiste già ad un significativo slittamento di significato del concetto di «virtù», che diviene la connotazione tipica del principe ideale, e, più in generale, dell'uomo che prende in mano il proprio destino e che, audacemente, si fa artefice della propria storia, al di fuori della morale comune. La Virtù di Machiavelli, infatti, non si contrappone al vizio, ma alla Fortuna, ossia all'elemento cieco e imprevedibile presente nelle vicende umane. Pertanto, la virtù è un insieme di qualità politiche (prudenza, fermezza, intuizione, esatta valutazione delle conseguenze) esclusivamente laiche e immanenti: nulla a che vedere con la dimensione etica, e meno ancora con la sfera del soprannaturale.
Poi arriva la modernità.
La presentiamo nelle inquietudini (in parte artificiali e retoriche) di Francesco Petrarca, indi la vediamo culminare nella hybris della formula «sapere è potere» di Francesco Bacone e nella esaltazione della ragione da parte dell'Illuminismo e del Positivismo e Neopositivismo, sino agli odierni fasti della tecnoscienza.
Non possiamo fare a meno di domandarci se la modernità abbia elaborato un proprio concetto di virtù e quale, eventualmente, esso sia; ed anche, più in generale, se l'uomo possa farne a meno, sostituendolo con quei prolungamenti dei propri sensi che sono le invenzioni tecnologiche.
Una breve riflessione ci porterà, crediamo, alla conclusione che, specialmente dopo la Rivoluzione industriale e l'avvento della società di massa, il concetto di virtù ha finito per svuotarsi di contenuto dal proprio interno e per perdere di significato: e ciò parallelamente al tramonto del concetto di «persona». Infatti, in una società massificata e omologante, non vi sono più individui, ma soltanto folle anonime e inconsapevoli: dunque, non può esservi alcuna virtù, essendo quest'ultima la caratteristica della persona capace di eccellere, portando a perfezione la propria natura.
Un consumatore, un utente, un produttore legato alle logiche del mercato, non può essere virtuoso, in quanto non gli si chiederà mai di eccellere come persona, ma, al massimo, di eccellere come docile rotella di un meccanismo impersonale.
Così, l'operaio stakanovista (se pure è mai esistito, e non è stato altro che l'invenzione di una propaganda totalitaria del lavoro) non è un individuo virtuoso, non essendo, propriamente parlando, un individuo, ma solo una macchina per estrarre carbone dalla miniera a forza di braccia. E neppure un banchiere come Rockefeller può essere virtuoso, perché, per quanto abile negli affari e capace di accumulare una fortuna favolosa, egli non fa altro che ubbidire a una logica che lo trascende di molto, annullandosi come individuo e trasformandosi in una perfetta macchina da investimenti e da speculazione finanziaria.
Niente individuo, niente virtù; niente persona, niente esigenza morale, ma solo - e al massimo - un complesso di abilità, più o meno sviluppate in questo o quel campo dell'agire umano, peraltro nella sola dimensione in cui tale agire sia ancora considerato socialmente rilevante: quello materiale, e, più precisamente, quello della produzione e del guadagno.
La figura dell'uomo virtuoso, difatti, scompare dalla letteratura e dal teatro; quanto al cinema, essa non vi compare se non come rievocazione di tempi lontani. Non c'è più posto, nel mondo moderno, per un «pius Aeneas», per il semplice fatto che non ce n'è più bisogno; così come non c'è più bisogno di uno shakesperiano Prospero, che sappia perdonare i suoi nemici, o di un manzoniano Padre Cristoforo che sappia prodigarsi per amore del prossimo.
Da quando la «fiumana del progresso», per dirla con Giovanni Verga, ovvero la modernizzazione, ha investito, travolgendole, le società pre-industriali, e le ha trasformate non solo in termini economici e produttivi, ma altresì (come aveva ben visto Pier Paolo Pasolini) in termini antropologici, la figura dell'uomo eccellente, dell'uomo virtuoso, scompare dal nostro orizzonte culturale e viene sostituita da quella dell'antieroe, che, devoto seguace di Sigmund Freud, non sa cosa vuole nella vita, perché non sa né chi egli sia, né dove voglia dirigere i propri passi. Si tratta di un uomo-massa disorientato e confuso, eternamente perplesso e paralizzato da spinte e aspirazioni conflittuali, che si compiace della propria inerzia e della propria impotenza (ancora Petrarca e la sua sbandierata «accidia!»), e che non crede più a niente (Stirner), che vorrebbe capovolgere tutti i valori (Nietzsche), che è pieno di risentimento verso i «padroni» (Marx), che prova un profondo disgusto per tutto (Sartre) e che sa solamente di essere incamminato verso la propria morte (Heidegger).
Che mai se ne farebbe del concetto e della pratica della virtù, una società come la nostra, che non crede più a nulla, se non all'azione fine a se stessa, alla manipolazione illimitata delle cose, al dominio per il dominio: sulla natura, sugli altri, sull'economia, al successo materiale e all'accrescimento sterile e ipertrofico del proprio Ego?
Si capisce, perciò, come la società moderna abbia dichiarato guerra al concetto di eccellenza e abbia messo in moto ogni possibile strategia per cancellarla o per denigrarla, presentandola (dall'Illuminismo in poi) come una caratteristica «aristocratica», dunque meritevole di essere distrutta in nome di un malinteso ed ipocrita egualitarismo (cfr. anche il nostro precedente articolo: «Prima considerazione inattuale: recuperare il giusto concetto di "aristocrazia"», consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).
A questo punto, la domanda che dobbiamo farci è la seguente: possiamo immaginare di recuperare il concetto, e naturalmente la pratica, della virtù, intesa nel senso greco di «areté», ossia di eccellenza? E come, per quali vie, passando per quali forme di consapevolezza?
La risposta alla prima domanda non può essere che positiva. L'esigenza di eccellere, cioè di realizzare l'essenza della propria natura, è insopprimibile: cacciata dalla porta, ritornerà dalla finestra, ma orribilmente deformata e stravolta. Avremo allora il pietoso fenomeno degli individui mediocri e conformisti i quali, tuttavia, pretenderanno di eccellere, in virtù di non si sa quali meriti, offrendosi narcisisticamente all'ammirazione delle masse (cfr. il nostro ultimo articolo «L'individualista di massa chiede disperatamente attenzione, ma non la trova, perché non la merita», sempre sul sito di Arianna Editrice).
No: meglio, molto meglio, ripristinare la teoria e la pratica della virtù in maniera esplicita, nei termini in cui esse effettivamente si pongono: come una esigenza naturale dell'uomo; e, al tempo stesso, come una manifestazione del suo bisogno di trascendersi, e, quindi, di aprirsi ad una condizione superiore, ancora tutta da realizzare, e di cui non possiede che un vago e indistinto presentimento.
Ben più difficile è tentare di rispondere alla seconda serie di domande, ossia su quali vie si possano percorrere per favorire il ritorno della virtù nella società odierna.
Forse, la risposta più onesta che si possa dare è che nessuno di noi possiede la chiave miracolosa per dischiudere una tale prospettiva; ma che ciascuno di noi ha la possibilità di spendere se stesso in questo grande ideale, che è l'ideale di una umanità che sappia guardare verso l'alto, ponendosi delle mete sublimi, perché si è stancata di guardare verso il basso, compiacendosi della propria caduta e della propria abiezione.