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Non basta il Race discrimination act in un’Australia ancora british

di Francesca Dessì - 23/06/2010

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Siamo nel terzo millennio, ma in Australia il tempo sembra essersi fermato ad un secolo fa, quando il mondo sperimentò la brutalità della colonizzazione.
Oggi, con un ritardo deplorevole, il governo laburista ha infatti reintrodotto una serie di leggi a favore degli aborigeni e, in generale, contro la discriminazione razziale, che erano state sospese tre anni fa dal precedente gabinetto conservatore.
Si tratta del Race discrimination act, che l’allora premier John Howard avrebbe abolito - secondo le sue imbarazzanti motivazioni - per lottare contro la criminalità nelle comunità aborigene, autorizzando l’invio di forze dell’ordine nei villaggi indigeni, la riduzione delle prestazioni sociali e il divieto del consumo di alcol. Una misura che allora fu condannata dall’Onu, giudicandola “discriminatoria”.
Il ripristino dell’Rda nei Territori del Nord, dove vige la maggioranza della comunità aborigena, è stata accolta con grande soddisfazione dal ministro australiano per gli Affari indigeni, Jenny Macklin: “viene così ripristinato la dignità degli aborigeni e li aiuta a prendere in mano il loro destino”. Mackiln ha infatti spiegato che, con la sospensione dell’Rda, gli indigeni si erano sentiti “feriti, traditi e meno importanti degli altri australiani”.
Ma c’è ancora tanto da fare in Australia, un continente profondamente razzista e addirittura compiaciuto di esserlo.
Più della metà degli indigeni – che oggi sono solo 470mila, mentre all’arrivo degli europei, nel 1788, erano circa un milione - vivono nelle periferie più degradate della città, spesso in condizioni terribili. Molti lavorano come braccianti in quelle stesse fattorie che hanno occupato le loro terre ancestrali. Ma la maggior parte sono disoccupati, che passano il loro tempo a bere o si danno alla criminalità.
Non è facile superare due secoli di maltrattamenti e di discriminazioni.
Il popolo aborigeno è stato infatti derubato delle sue terre sin dai primi anni della colonizzazione britannica. Il tutto legittimato dal principio giuridico della “terra nullius”, che definiva la terra australiana prima dell’arrivo dei britannici come una terra vuota, una terra di nessuno che, pertanto, poteva essere legittimamente occupata dai coloni.
Un principio che è rimasto in vigore legalmente fino al 1992 e, oggi, gli aborigeni aspettano la restituzione della maggior parte delle loro terre. Un’utopia, perché quei territori che vanno dalle coste al deserto dell’interno, nascondono immense ricchezze minerarie: uranio, oro, argento, stagno, rame, piombo, zinco, nichel, cobalto, bauxite, carbone.  E, poi, ancora, petrolio, gas naturale, ferro, manganese, sale, fosfati e diamanti, che fanno gola a parecchie multinazionali.
Non è un caso che le sentenze Mabo e Wik del 1992, in cui l’Alta Corte di Giustizia australiana riconobbe i diritti degli aborigeni sulla terra, abolendo il principio della “terra nullius” e riconoscendo per la prima volta il concetto di “proprietà nativa”, scatenarono le proteste delle compagnie minerarie. In particolare, la sentenza Wik - che sanciva che la proprietà nativa poteva ancora sussistere anche sulla terra sottoposta a contratto di pascolo - mandò su tutte le furie i bianchi, che fecero pressione sull’allora premier John Howard. L’amico dei bianchi, com’è chiamato dagli aborigeni - approvò, nel 1998, il Native Title Amendment Act, che svuotava di significato giuridico le sentenze Mabo e Wik, dichiarando tutte le rivendicazioni ed i diritti recuperati dai nativi secondari e subordinati in principio agli interessi degli allevatori bianchi e delle compagnie minerarie.
Un provvedimento che ha suscitato le proteste degli aborigeni, duramente sedate con la repressione, e la condanna dell’Onu.
Solo nel 2008, il primo ministro laburista, Kevin Rudd si è scusato ufficialmente per i torti inflitti alla popolazione aborigena da parte dei governi che si sono succeduti, menzionando uno dei capitoli più tristi della storia australiana: le generazioni rubate.
Circa 10mila bambini di etnia aborigena, separati con la forza dai genitori tra il 1910  e il 1970, furono rinchiusi in istituti, affidati ai bianchi o ai missionari, per civilizzarli, sradicando ogni traccia della loro cultura e della lingua. Un crimine contro l’umanità che non può essere cancellato con il Race discrimination act.