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Egitto, e dopo il Faraone?

di Alberto Tundo - 21/07/2010





Rapporti d'intelligence danno Mubarak quasi in punto di morte e illuminano un Egitto in cui è in atto una transizione, ma verso dove?

Il presidente egiziano Hosni Mubarak sta molto male e secondo voci raccolte e rilanciate da alcune agenzie di intelligence, non arriverà nemmeno alle prossime elezioni presidenziali, previste per il settembre 2011. Non è bello fare ipotesi e speculare sullo stato di salute di una persona. Se però si tratta dell'uomo che da 30 anni governa un Paese che ha assunto un ruolo fondamentale sullo scacchiere geopolitico, al centro di equilibri molto delicati e alle prese con movimenti sotterranei che ne scuotono le fondamenta, allora la questione cambia e vale la pena farsi qualche domanda.

Il presidente sta male. La notizia, sussurrata da mesi, è deflagrata domenica scorsa, con un articolo uscito sul Washington Post in cui si dava conto di rumours secondo cui il presidente, del quale da tempo si diceva fosse stato colpito da un cancro alla tiroide, si troverebbe ormai a uno stadio terminale. Non uno scoop, perché già il 7 luglio Debka.com aveva scritto di un Mubarak visitato presso l'ospedale militare di Percy, a Clamart, quando si trovava in Francia per un incontro con il presidente francese Nicholas Sarkozy e con il premier libanese Sa'ad Hariri. Un'altra conferma che qualcosa non andasse si è avuta pochi giorni dopo, quando Il Cairo ha fatto saltare, rimandandolo a domenica 17, un vertice tra Mubarak, il leader dell'Autorità Palestinese Mahmoud Abbas, il premier israeliano Benjamin Neanyahu e l'inviato del presidente americano Barack Obama per il Medio Oriente, George Mitchell. Nonostante dal palazzo presidenziale arrivino secche smentite, le voci non solo continuano a circolare ma si fanno più insistenti, voci che mesi fa volevano il presidente ricoverato in una clinica tedesca e poi riportato in Egitto e blindato nel suo buen retiro di Sharm el Sheik.
L'unica cosa certa è che Mubarak si vede sempre meno e anche questo dà più credibilità a quei indiscrezioni che hanno messo in allarme le cancellerie del Medio Oriente e che non fanno più chiudere occhio a Washington.

Paura dei riflessi geopolitici. Perché la questione da un punto di vista geopolitico è cruciale, e non è tanto chi salirà al potere al posto del vecchio "faraone", ma se la nuova guida manterrà la rotta indicata da Mubarak. Che in politica estera ha fatto dell'Egitto una pedina fondamentale della strategia americana in Medio Oriente, una potenza in grado di disinnescare la miccia dell'antiamericanismo nell'area e soprattutto di evitare l'isolamento totale di Israele. I rapporti tra Gerusalemme e Il Cairo sono rimasti saldi anche nei momenti più bui della storia israeliana recente, ci sono ambiti in cui la cooperazione tra le due potenze regionali non è mai venuta meno. Ad esempio, per quanto riguarda Hamas, Israele ha sempre potuto contare sull'importante collaborazione dell'intelligence dell'esercito egiziano, che con le formazioni del radicalismo islamico ha gli stessi problemi del potente vicino. Prova ne sia il fatto che la matrice culturale da cui ha preso piede Hamas sta in quei Fratelli Musulmani che, per quanto potenti e popolari, sono una confraternita messa al bando dalle autorità egiziane.

Il delfino e gli sfidanti. E qui si arriva all'incognita della transizione. Il timore, che ormai molte cancellerie non dissumulano nemmeno, è che la fine del regno di Mubarak possa coincidere con un'apertura, anche blanda, alla democrazia rappresentativa e che questo possa essere il grimaldello che consentirebbe al radicalismo islamico di salire al potere, come accadde in Algeria nel 1991. E allora vanno bene i valori democratici, ma magari non adesso. Ed ecco quindi che Washington congela un fondo distribuito attraverso l'ambasciata americana del Cairo ad un gruppo pro-democrazia non riconosciuto dal governo egiziano. Per questo Casa Bianca e Dipartimento di Stato premono perchè Mubarak formalizzi la successione e la blindi, prima delle elezioni. Il probabile successore è il figlio del "faraone", Gamal, 47 anni, già piazzato in una posizione nevralgica, alla guida del Segretariato generale del Comitato politico del Partito nazionaldemocratico, il vero centro di potere del Paese. Guarda caso, la nuova legge elettorale, emanata nel 2007, prevede che si possa candidare alla presidenza solo chi sia stato per almeno un anno alla guida di un partito. Ma il rampollo, che è un banchiere e non un militare, avrà bisogno della fedeltà degli apparati di sicurezza, soprattutto di quel Omar Suleiman, il potentissimo capo dei servizi egiziani, da molti indicato come possibile antagonista di Gamal. Per questo, da mesi, dietro le quinte si tessono trame con la benedizione dell'anziano presidente, che avrebbe chiesto alle gerarchie militari di sostenere il figlio. Il patto sarebbe già stato siglato. Se terrà è tutto da vedere. L'incognita è sempre dietro l'angolo. Come un'altra variabile impazzita, quel Mohammed ElBaradei, ex capo dell'Aiea, l'agenzia dell'Onu per l'Energia nuclare, il politico di più alto rango che l'Egitto possa vantare sulla scena internazionale, tornato in patria e accolto da eroe, sostenitore di una riforma democratica dello Stato. Parole giuste, le sue, ma al momento sbagliato.