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Ci vuole lealtà verso se stessi per riconoscere i propri veri sentimenti

di Francesco Lamendola - 19/10/2010

Non si può essere leali verso l’altro, se prima non ci si è abituati, per lunga e costante disciplina, all’onestà nei confronti di se stessi.
Essere onesti con se stessi, vuol dire essere capaci di riconoscere onestamente i moti del proprio animo, indipendentemente dall’uso che, poi, mediante l’esercizio della volontà, si deciderà di farne o, eventualmente, di non farne.
Chi non sa riconoscere quello che prova, o è un analfabeta di se stesso, o, cosa più frequente, un disonesto: un individuo da nulla, che si nasconde dietro le proprie menzogne di cartapesta e che non merita di essere considerato veramente uomo o veramente donna.
Chi è leale verso se stesso, lo è necessariamente anche verso l’altro: perché mentire a se stessi è più difficile che mentire agli altri; e, una volta che si sia trovato il coraggio della propria verità interiore, sarà sempre una fatica minore - ammesso che la si debba considerare una fatica - quella di giocare a carte scoperte con il prossimo.
La nostra anima è un tempio che noi abbiamo il dovere di non profanare; ogni menzogna che raccontiamo a noi stessi, è una profanazione di quel sacro tempio. E il tradimento della fiducia altrui non è che la logica conseguenza di una simile profanazione.
Vi sono delle persone abiette, le quali, dopo aver sollecitato l’altro ad aprirsi verso di loro, dopo averlo incoraggiato a rivelarsi e a mettersi a nudo, poi bruscamente si tirano indietro, per la sola ed unica ragione che non hanno sufficiente lealtà per guardarsi dentro e riconoscere quel che realmente provano; la malattia di cui soffrono è la mancanza di dirittura morale.
Le si potrebbe anche compatire, se non prevalesse lo sdegno per l’ipocrisia di cui si ammantano e per il male che, nella loro viltà, sono capaci di provocare al prossimo. I loro scrupoli, i loro rimorsi, non sono mai diretti a coloro che hanno ingannato, ma alla facciata di rispettabilità borghese di cui si ammantano e che sono ben decise a difendere a qualsiasi costo, con determinazione feroce ed implacabile.
Vi sono persone abiette, le quali - non richieste - se ne vanno in giro dicendo agli amici: «A me, una cosa del genere non potrebbe succedere mai», intendendo dire che sono assolutamente certe di avere il perfetto controllo di sé, dei propri impulsi e sentimenti; e, invece, mentono nella maniera più spregevole, perché quella tale cosa è già accaduta loro; non solo: sta accadendo di nuovo, e si illudono di esorcizzarla dicendosi del tutto refrattarie alle tentazioni.
Certo, tutti possiamo provare smarrimento, perfino paura, davanti alla scoperta che gli impulsi del nostro essere più profondo non vanno d’accordo con i principî che, in teoria, abbiamo adottato per farci da guida sulle strade delle vita. Ma solo una persona che moralmente non vale nulla giunge a permettere a quella paura di cancellare la verità, come l’assassino cerca di nascondere le tracce del suo delitto; e di giocare impunemente con i sentimenti del prossimo.
Non sono cose che accadono per caso.
Ci si arriva dopo una lunga preparazione di piccole insincerità con se stessi, di piccoli sotterfugi con se stessi, di piccole menzogne e di mezze verità: quanto basta per tenere in piedi l’immagine rassicurante di noi stessi cui ci si è affezionati e alla quale non si è disposti a rinunciare mai, costi quello che costi.
La persona che vive lealmente con se stessa, invece, si dimostra tale nelle piccole cose, così come nelle medie e in quelle grandi.
Un esempio classico di tale lealtà e trasparenza verso se stessi, che poi è tipico dell’adolescenza, è narrato magistralmente da Carlo Cassola nel suo romanzo breve «Tempi memorabili» (Torino, Einaudi, 1966, pp. 74-6):

«L’amore: gli era antipatica anche la parola. E cos’erano tutte quelle storie, far la corte a una signorina, fingere di provare chissà che cosa per lei, dirle ogni sorta di stupidaggini.  Al cinema, scene del genere non mancavano mai di annoiarlo e di infastidirlo. Come lo infastidiva, nei “Misérables”, l’infatuazione di Marius per Cosette: non per nulla s’era arenato nella lettura.
E le poesie, lo stesso: c’era niente di più insulso delle svenevolezze dei poeti innamorati? Quando tiravano in ballo la luna,  le stelle e tutto il resto.
Aveva ragione Giacomo a disprezzare le donne. Erano delle sciocche. Per esempio Vittorina… e anche Gabriella. E Bice e quella sua amica, Lina… ricordava le loro chiacchiere, le loro risatine quando canzonavano Enrico. Anna, certo, non era così. Anna aveva una vice profonda, rauca addirittura: Fausto on s’era mai chiesto che età potesse avere, ma non avrebbe mai immaginato che fosse così giovane.
Sì, Anna era diversa dalle altre. Non soltanto perché aveva la voce rauca; non soltanto perché aveva gli occhi verdi… Era diversa in tutto, in quello che diceva, nel modo come lo diceva. C’era una naturalezza in lei che le altre non avevano.
Anna: che bel nome. Sì, era bello anche il nome; era il nome più bello. E gli sembrava di averlo sempre saputo, che Anna  era il più bello de nomi femminili. Anna Cavorzio: anche il cognome gli sembrò bello. Non c’era la minima imperfezione in lei, nemmeno nel nome, nemmeno nel cognome!
Era la prima volta che pensava queste cose: ma gli sembrava di averle intuite subito, fin dalla prima mattina cin cui aveva visto Anna Ricordava nei più piccoli particolari gli avvenimenti di quella mattina. Anna era insieme con la sorella e con l’amica, parlavano con Enrico vicino alle cabine; poi s’erano lanciate per il pendio ed erano entrate in acqua. Lui s’era messo a seguire il loro bagno; in realtà seguiva solo il SUO bagno. Ricordava anche di aver pensato: “Come nuotano bene… la più brava, però, è quella con la frangetta”. Era stato un modo quanto mai impreciso che s’era fato subito di Anna. La più brava; quando semmai avrebbe dovuto dire: la più bella…
Com’era possibile che gli altri non se ne accorgessero? Enrico per la verità se n’era accorto: dal momento che ne era innamorato. “Ecco, che uno si innamori di Anna lo posso anche capire, - pensò Fausto. - Al posto di Enrico, me ne sarei innamorato anch’io”. E provò invidia per l’amico, che era di Marina, faceva il bagnino, e poteva innamorarsi di una ragazza che abitava in piazza della chiesa e faceva la sarta.
“Ma perché, io non me ne potrei innamorare? Anche se sto a Roma, anche se sono uno studente? Me ne potrei innamorare certo…” A un tratto pensò: “Ma ne sono già innamorato!” Me ne sono innamorato subito, fin dal primo momento in cui l’ho vista…”
La rivelazione era giunta improvvisa, e Fausto balzò in piedi.  Sui mise a camminare in fretta verso la caserma.  Le barche ostruivano il passo, ed egli entrò nell’acqua bassa della rada.  Sui fermò: vedeva la propria immagine, appena scomposta dal tremolio. “Io amo Anna”, disse a se stesso. Barcollò quasi: la felicità gli era montata alla testa, dandogli le vertigini.»

Non è un caso che bambini e adolescenti comincino a dismettere l’abitudine della lealtà e della trasparenza verso se stessi allorché si incamminano sulle strade dell’età adulta, perché è propria dell’adulto la capacità di dissimulare quasi illimitatamente.
E questo non perché l’infanzia sia “innocente” e l’età adulta sia brutta e cattiva; ma perché, mano a mano che l’esperienza di vita ci ferisce e ci insegna, a nostre spese, che la perfetta trasparenza non è cosa che paghi né che riesca gradita al prossimo, gradualmente ci abituiamo a dissimulare, a nascondere i nostri sentimenti, a mostrarci per quel che non siamo: in breve, ad adottare una maschera, o magari tutta una serie di maschere. Maschere volontarie, peraltro: che nessuno ci impone, se non la nostra pusillanimità e la nostra vigliaccheria.
È ora di smetterla di dare sempre tutte le colpe alla società; come se la società non fosse il prodotto delle cose in cui crediamo e del modo in cui ci crediamo.
Pirandello ed altri hanno troppo insistito sulla “violenza” che il corpo sociale esercita sull’individuo, obbligandolo, secondo loro, a mettersi delle maschere che ne rendono la vita qualcosa di inautentico; è tempo di riprenderci le nostre responsabilità e di riconoscere, con Étienne de La Boëtie (ma anche con Erich Fromm), che la servitù dell’uomo è, il più delle volte, di tipo pienamente volontario.
D’altra parte, come far capire a chi vive nella menzogna, che noi non siamo mai soli; che, anche se crediamo che nessuno ci abbia visto mentre ingannavamo gli altri e cercavamo di ingannare perfino noi stessi, un muto testimonio era sempre lì presente, la Verità; e che, al suo cospetto, noi siamo stati pesati e trovati scarsi?
Come spiegare, a chi è abituato a pensare che l’astuzia, il nascondimento e la dissimulazione siano armi vincenti nella lotta della vita, che nessuna astuzia resta impunita, che nessun nascondimento e nessuna dissimulazione valgono a sottrarci alle conseguenze negative delle nostre male azioni, della nostra mancanza di lealtà e trasparenza?
È incredibile come vi siano persone, le quali - magari - conoscono un sacco di cose in materia di greco e di latino, di astronomia e di matematica; ma sono così radicalmente, così inescusabilmente ignoranti e bugiarde riguardo alla propria verità interiore, fino al punto di fare quasi una virtù della propria ignoranza e un vanto della propria menzogna.
Esse non sanno che vi è un diamante in fondo a ciascuna anima: un diamante bellissimo e splendente, mirabilmente sfaccettato e di valore incomparabile. E ignorano che quel diamante è precisamente la verità interiore dell’anima stessa: il mistero della sua chiamata ed il senso della sua venuta al mondo.
Colui che vive nell’inautenticità e nel mascheramento di se medesimo, sporca incessantemente quel gioiello meraviglioso e lo seppellisce, giorno dopo giorno, sotto una montagna di detriti e di scorie, fino ad occultarlo o a renderlo completamente irriconoscibile: sinché la sua luce stupenda si offusca e si spegne, a volte in maniera definitiva.
Le vediamo, poi, quelle persone, aggirarsi per le strade della vita, simili a spettri: persone, forse, fisicamente attraenti e giovanili, ma, in realtà, intimamente prosciugate e consunte dalla loro menzogna fondamentale, dal rinnegamento della loro luce interiore. Persone che fanno quasi paura, come farebbe paura incontrare un morto vivente: ed esse pure, in un certo senso, non sono altro che dei morti viventi, che forse ignorano di esserlo.
Il morto vivente non ha pace; ed esse se ne vanno attorno senza pace, come bruciate da un fuoco nascosto e inestinguibile, che non concede loro mai tregua.
Colui, viceversa, che vive con lealtà ed onestà la propria verità interiore, potrà soffrire molto nella vita, ma non sarà tormentato da quel fuoco implacabile, non somiglierà mai ad un morto vivente. Le rughe potranno accumularsi sul suo viso, ma il suo sguardo non perderà mai la forza e la vivacità di chi ha saputo rimanere fedele alla parte migliore di se stesso.
La nostra parte migliore è la verità che noi tutti, ciascuno per la sua parte, ci portiamo dentro e che ci accompagna nel nostro cammino esistenziale.
Nemmeno nei momenti più oscuri, nemmeno nell’ora più angosciosa, la persona che sia rimasta fedele alla propria parte migliore giungerà mai a rimpiangere le proprie scelte o a maledire la propria lealtà e la propria trasparenza.
Vi è una giustizia, che sta al di sopra di noi.
Lo aveva intuito anche Catullo, per altri aspetti così esibizionista e immaturo, in quei versi famosi («Carmina», 76, 17-20):

«O di, si vestrum est misereri, aut si quibus umquam
extremo, iam ipsa in morte, tulistis opem,
me miserum aspicite et, si vitam puriter egi,
eripite hanc pestem perniciemque mihi!»

Che, nella traduzione di Tiziana Rizzo (Catullo, «Le poesie», Roma, Newton Compton, 1977, pp. 138-39), suonano così:

«Dèi! Se da voi è pietà, o se a qualcuno mai
Porgeste aiuto quando estremo affronta l’abisso,
guardate a quest’infelice, e, se ho vissuto onesto,
sgravatemi di tanta peste, tanta sventura…»

Sì, vi è una Giustizia che regna al di sopra di noi e che si serve delle nostre stesse azioni, assegnando a ciascuno, attraverso le loro conseguenze - a volte anche molto lontane e indirette -  il premio e il castigo che si è meritato.