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Con le "quote rosa" diciamo addio al principio del merito

di Massimo Fini - 04/07/2011

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La Camera ha approvato a grande maggioranza bipartisan (438 sì, 64 astenuti e solo 27 no) una legge che impone alle aziende quotate in Borsa o a partecipazione pubblica di avere nei propri Consigli di Amministrazione, a partire dal 2012, almeno un quinto di dirigenti di sesso femminile. Dal 2015 i Cda dovranno essere composti da donne almeno per un terzo. Insomma le famose «quote rosa».
«E’ una svolta epocale» ha dichiarato, trionfante, la deputata pdl Lella Goffo, prima firmatrice della legge insieme alla pd Alessia Mosca. E la capogruppo del pd al Senato, Anna Finocchiaro (poteva mancare la Finocchiaro?) ha affermato: «La politica da oggi ha meno alibi, è chiaro che il prossimo passo è portare più donne in Parlamento. Per legge. Già che c’era il Parlamento poteva spingersi anche un po’ più in là: 1/3 uomini, 1/3 donne, 1/3 omosessuali. Anzi, poiché i «generi» a quanto pare oggi sono almeno quattro, la composizione di un Cda dovrebbe essere: 1/4 uomini, 1/4 donne, 1/4 omosessuali maschi, 1/4 lesbiche. Lasciando anche qualche porzioncina ai trans, ai travesta, alle «regine» e, soprattutto, ai nani che, nel mondo del lavoro, subiscono delle pesanti discriminazioni (vengono regolarmente scartati se vogliono fare i vigili, corazzieri, i cestisti).
È destino che se i nostri parlamentari riescono a essere d’accordo su qualcosa lo siano su una sciocchezza. Mentre gli uomini plaudivano o stavano prudentemente zitti, impauriti da una società sempre più matriarcale (lo si vede anche dalla sessuofobia imperante), critiche a questa legge demagogica sono state sollevate, non a caso, proprio da alcune parlamentari: la radicale Rita Bernardini, la pdl Alessandra Mussolini, la pd Ileana Argentin («Non c’è niente di peggio delle quote») particolarmente coraggiosa perché è handicappata, pardon «disabile» anzi «diversamente abile», e qualche diritto alle quote, ma in tutt’altro senso, lo avrebbe. «Trovo le quote avvilenti» ha detto la Mussolini. E ha perfettamente ragione. Perché invece di affermare la parità delle donne, ne sancisce l’inferiorità, considerandole una specie da proteggere, come i panda o la foca monaca. Ma questa legge non lede solo la dignità della donna, ma anche il principio del merito di cui oggi tanto si blatera (salvo poi mettersi tutti in cordata dietro Bisignani). Ai posti di responsabilità devono arrivare persone capaci e competenti, siano esse di sesso maschile o femminile o incerto. Ogni altro criterio è una forzatura inaccettabile.
Dopo mezzo secolo di femminismo trionfante le donne non hanno bisogno di alcuna protezione (caso mai ne hanno bisogno gli uomini specialmente nel campo del diritto di famiglia dove tutto, a cominciare dall’affido dei figli, gioca a loro sfavore). Se ci sono meno donne in posizioni di responsabilità è solo perché più limitata è la base cui attingere, dato che molte femmine snaturate e antimoderne preferiscono dedicarsi, guarda un po’, ai figli piuttosto che al lavoro. Naturalmente non è mancata la strumentalizzazione meschina della sinistra: «Chi vota questa legge - ha detto l’Idv Massimo Donadi - non voti una manovra che innalza l’età pensionabile delle donne da 60 a 65 anni, all’unico scopo di fare cassa». Che c’azzecca, come direbbe il suo capo Di Pietro? Le donne vivono, mediamente, sette anni più degli uomini (in giro non si vedono che vedove e cani) e non si vede assolutamente la ragione per cui debbano andare in pensione cinque anni prima. Questa sì è una questione di parità.