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La vocazione profetica di Gioacchino da Fiore sul filo del rasoio tra misticismo ed eresia

di Francesco Lamendola - 06/11/2011





La figura di Gioacchino da Fiore (1130 circa-1202), un cistercense calabrese fondatore del nuovo ordine monastico dei florensi (approvato da Celestino III nel 1186 ma riunito ai cistercensi nel 1570, sotto papa Sisto V), è una delle più affascinanti e, al tempo stesso, delle più enigmatiche nella storia religiosa del basso Medioevo.
È anche una figura paradigmatica, perché in essa sembrano venire al pettine i nodi irrisolti della problematica coesistenza, nel cristianesimo medievale (ma anche, se si vuole, di altre religioni istituzionalizzate), di un filone mistico e profetico all’interno della struttura gerarchica della Chiesa, fortemente impegnata nella dimensione del potere temporale, accanto ad un filone prettamente intellettuale e persino razionalistico, quale l’Alta Scolastica, in cui spicca la figura di Anselmo d’Aosta; anche se tale contrapposizione è frutto, in buona parte, della prospettiva moderna.
In un’epoca percorsa da inquietudini e contraddizioni notevoli, che videro la diffusione di due movimenti eterodossi come la pataria e il catarismo, l’uno più attivo sul terreno sociale, l’altro su quello religioso e, perciò, apertamente eretico, la visione teologica di frate Gioacchino esercitò un influsso potentissimo sulla spiritualità e sulle attese di molte generazioni di cristiani, tanto da esercitare un peso determinante nei due secoli successivi, il Duecento e il Trecento.
Egli aveva trasposto il concetto trinitario nella storia concreta dell’umanità e aveva sostenuto che quest’ultima si qualifica per l’avvicendarsi di tre età successive: quella del Padre, caratterizzata dall’ebraismo e dalla Legge mosaica; quella del Figlio, contrassegnata dalla Chiesa cattolica, dai suoi dogmi e dalle sue istituzioni; e quella, non ancora iniziata ma ormai imminente, dello Spirito Santo, in cui avrebbe trionfato l’amore e sarebbe sorta una Chiesa pienamente spirituale, nella quale le gerarchie, i riti e perfino i sacramenti sarebbero divenuti inutili, perché lo stesso Spirito divino l’avrebbe guidata sulla giusta via, in un mondo riconciliato e pacificato.
Non solo; Gioacchino aveva anche profetizzato, come più tardi Dante (che certamente ne fu influenzato) con il Veltro, l’arrivo ormai prossimo di un misterioso Dux Novus, un personaggio che avrebbe colpito la Chiesa per i suoi peccati e per la sua smania di potere mondano e di ricchezze, così come il re babilonese Nabucodonosor aveva colpito Gerusalemme per i suoi peccati di idolatria e per la sua infedeltà a Dio; e nel quale taluno ha creduto, e crede tuttora, di poter ravvisare l’imperatore Enrico VI di Svevia.
Infine un nuovo monachesimo, tutto pervaso di gioia, amore e spirito di servizio, avrebbe spianato le strade per la piena realizzazione dell’età dello Spirito Santo, preparando l’avvento di un Papa Angelico, con il quale sarebbe culminata la nuova epoca della storia umana.
Gioacchino da Fiore aveva illustrato tali idee in due opere che ebbero una vasta eco sia fra i contemporanei che fra i posteri: «La concordia fra il Nuovo e il Vecchio Testamento» e «L’esposizione dell’Apocalisse».
Nonostante l’audacia delle sue tesi, che non potevano non suonare come una condanna, sia pure indiretta, del coinvolgimento mondano della Chiesa, Gioacchino godette della stima e della protezione dei più illustri personaggi del suo tempo, sia ecclesiastici che laici: il papa Urbano III, per esempio, lo prosciolse dai suoi doveri abbaziali, affinché potesse dedicarsi interamente alla scrittura, mentre il papa Celestino III approvò ufficialmente la sua nuova congregazione florense; e l’imperatore Enrico VI, figlio di Federico Barbarossa, gli concesse una vasta tenuta sulla Sila, ove fu costruita l’abbazia da cui si dipartirono, nel giro di pochi decenni, più di cento filiazioni, fra chiese, monasteri e abbazie, sparse in tutta Italia e anche nelle più lontane regioni d’Europa, specialmente nelle Isole Britanniche.
Le idee di Gioacchino si diffusero come una potente sferzata di misticismo profetico ed esercitarono una particolare presa sull’ala rigorista dei francescani dopo la morte del loro fondatore, quella degli spirituali, avversati dalla Chiesa e dai conventuali di Frate Elia da Cortona; e, attraverso gli spirituali, già in odore di eresia, penetrarono nella cultura dei maggiori intellettuali e uomini politici del Due e Trecento: Dante, Petrarca, Cola di Rienzo.
Ma chi fu, in realtà, Gioacchino da Fiore: un mistico e un visionario, oppure un eretico e, magari, un precursore della Riforma protestante?
Certo alcune delle sue idee vennero, dopo la sua morte, considerate eretiche: in particolare, la sua opera teologica «De unitate seu essentia Trinitatis», diretta contro Pietro Lombardo, già vescovo di Parigi, verrà condannata nel Concilio Lateranense del 1215, al punto da risultare successivamente dispersa e a noi non pervenuta.
Ad ogni modo, dal momento che la riflessione sull’unità e sulla trinità divina è alla base di tutta la costruzione teologica e profetica di Gioacchino da Fiore, sembra difficile non vedere in quella condanna una forte presa di posizione della Chiesa contro il pensiero gioachimita in generale, o almeno contro la sua dimensione mistica e profetica, anche se l’ordine florense prosperò ancora per alcuni secoli e finì per spegnersi solamente nel XVI secolo, rientrando nell’alveo di quello cistercense, dal quale si era originariamente distaccato.
Questo il giudizio su Gioacchino da Fiore e sul ruolo da lui svolto nella storia religiosa del suo tempo, da parte del critico e storico della letteratura Arturo Pompeati (in: A. Pompeati, «Storia della letteratura italiana», U.T.E.T., Torino, 1944, vol. I, pp.211, 215-16):

«S’è visto, a proposito di Salimbene da Parma, che il bizzarro francescano nella sua cronaca narra fra l’altro di essere stato un giorno seguace della dottrina gioachimita, ma di averla poi abbandonata, e aver risolto di credere solo a ciò che gli fosse toccato di vedere:  “Dispono non credere nisi quae videro”. Ma da quella dottrina s’era staccato non senza rimpianto, giacché la parola di Gioacchino da Fiore era stata, e continuava a essere, diffusa specialmente fra quei religiosi che da una vivacità fantastica e sentimentale erano tratti a vestire di sogno le loro credenze e a prolungarle sul tramite di prestigiose profezie. Gioacchino da Fiore si stacca appunto fra gli irregolari della chiesa - chiamarlo eretico è forzare la magica innocenza del suo pensiero a un significato polemico eccessivo - per la vocazione profetica insita nel suo misticismo, o se si vuole perché alla radice della sua costruzione arde una fiamma mistica, che poté in seguito attenuarsi nelle applicazioni concrete della sua profezia per opera dei suoi seguaci.
Questo religioso, che Dante doveva collocare nel cielo del Sole, nacque a Celico in Calabria verso il 1130; nel 1189 fondò nella foresta della Sila il monastero del Fiore, e morì nel 1202 in fama di profeta. È quindi tutto nel secolo XII: ma l’influsso gioachimitico è così vivo nel secolo seguente, che parlarne qui non è fuor di posto. Un influsso più contingente, più, direi, medievale, per quanto si riferisce al contenuto profetico delle sue opere: un influsso di carattere più universale per quanto riguarda il loro spirito mistico.
Il quale risponde a una tendenza già viva al tempo di Gioacchino: la tendenza a superare il formalismo esteriore della Chiesa ritraendone le verità verso l’intimo; a contrastare alla disciplina pesante della gerarchia additando al cristiano una sfera di libertà assoluta dove potesse diventare artefice delle proprie gioie e dei propri sogni; a risolvere i contrasti che laceravano la vita stessa della Chiesa cercando una sintesi - antica e nuova - nel rapimento affettivo, nell’amore verso Dio esteso sino ai confini di un totale annegamento psichico. Ma questo annegamento è pregiudizialmente la negazione dell’eresia vera e propria. È opposizione, sì, alla Chiesa mondana e alle forme in cui essa vive e agli uomini che l’incarnano: ma l’opposizione diventa distacco, rinuncia alla polemica attiva, rifugio in una creazione ideale che solo implicitamente  esprime la critica della realtà. Le eresie, invece,  erano manifestazioni militanti, anche perché gli impulsi  che ne alimentavano le forze erano spesso in relazione  con chiari interessi pratici. Tanto è vero che una delle caratteristiche delle eresie medievali è il confluire in esse di movimenti sociali, o anche l’alternarsi o lo scambiarsi nel loro seno di elementi sociali e religiosi.  […]
Ora, d contro a questo affermarsi e contrastare di eresie  il misticismo profetico di Gioacchino da Fiore appare, come ho già detto, la negazione di una volontà veramente eretica. Un sottile vapore eretico poteva esalare da quel suo guardare i fatti religiosi per cercarvi dentro un valore arcano, una cifra che si offrisse a interpretazioni vaticinatrici, sovrapponendosi al loro significato ufficiale.  L’estasi mistica in un certo senso può anche far deviare  dalla linea della fede comune, imprimendole un carattere troppo soggettivo. Annegandosi in Dio mediante l’amore Gioacchino, come tutti i mistici, riduceva la religione a un fatto di sentimento: e il sentimento non ha poi il diritto, agli occhi dei credenti razionali, di cavare da sé costruzioni troppo logiche e coerenti, com’è costume di tutti gli utopisti. E Gioacchino fu appunto un costruttore imperterrito di geometrie allegoriche e profetiche, che erano la traduzione delle sue visioni di mistico, di solitario, di veggente. La Bibbia, secondo lui, è una continua allegoria, che egli s’affatica a classificare, e a dividere e suddividere, in modo che tutti i fatti finiscono con o smarrire i limiti consueti di tempo e di luogo e col configurarsi in un mondo di simboli e di calcoli, per cui il tempo della storia umana si misura su ère prettamente spirituali. Naturalmente l’interesse di queste elucubrazioni è tutto medievale: nell’intellettualità del Medioevo il visionario aveva gli stessi diritti di cittadinanza che avevano i raziocinatori: adesso qualche visionario in giro rimane ancora (basta pensare a certi interpreti esoterici di Dante), ma si tratta di gente innocua, guardata tutt’al più con curiosità. E in realtà Gioacchino da Fiore presentava, come s’è detto,  i suoi quadri di storia spirituale sorretti da un’architettura così perentoria, che molti spiriti nobili e chiari ne furono tentati.
Le ère in cui egli divide la storia dell’umanità sono sette: le prime sei rappresentano le età ebraica e cristiana, la settima sta a sé e sarà la più breve e poco lontana dalla fine del mondo. Queste età si possono raggruppare in tre grandi periodi, che corrispondono ai tre stati dell’umanità, i quali si svolgono in modo progressivo, dal meno perfetto al più perfetto. Sono i tre periodi del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, cioè l’ebraico, il cristiano e il terzo che verrà, e nel quale lo stesso Spirito Santo rivelerà agli uomini, già innalzati e progrediti per il passaggio dal primo al secondo periodo, la verità intera.  Ecco dunque balenare al profeta acuto e sottilizzante il regno dello Spirito Santo, in cui verrà bandito un vangelo più perfetto anche di quello di  Cristo. Non più misteri, ma la diretta verità suprema, conquistata non con la ragione, ma con la visione del sentimento. L’amore, la pace, la libertà, saranno le tre luci di questo regno, in cui gli uomini saranno liberi  dal peso della possessione terrena, dalla malsana tirannia della ricchezza, e felici nella povertà assegneranno ala loro vita l’alto scopo di contemplare la verità, la bontà e la bellezza.
Il veggente solitario, che si affannava in tal modo a tradurre in una storia delle età future il risultato del suo almanaccare su quanto era stato ed era il contenuto delle sue estasi mistiche, fissava il 1260 per l’inizio del rinnovamento della storia umana: e morendo nel 1202 dava tempo al destino di maturare per l’ora fatidica i suoi frutti di bene. Il destino, invece, maturò proprio per quell’anno e i successivi una messe di sangue e di odio: ma rimase nell’aria la parola di Gioacchino, affidata al “Liber concordiae novi ac veteris Testamenti” e all’”Expositio in Apocalypsin”: rimase a incoraggiare altri veggenti e mistici, e a rappresentare dinanzi alla chiesa ufficiale la possibilità di itinerari liberi e luminosi nei regno di Dio. Certo ‘abate da Fiore non combatteva il dogma, e però nella sua parola allucinata , ove squillava un accento di convinzione intransigente,  il germe dell’eresia non poté annidarsi se non in modo involontario.
Piuttosto sarebbe da vedere se, straniandosi in tal modo dalla realtà, il calabrese non incoraggiasse i veri eretici, i catari che come s’è visto, erano invece legati alle condizioni reali della società e affidavano ai loro pensamenti non un ufficio di profezia volto al futuro, ma un assunto polemico legato in tutto al presente.»

La posizione di Arturo Pompeati (Ferrara, 1880 - Venezia, 1961), professore di Letteratura italiana nell’Istituto universitario di Venezia dal 1930 al 1950, studioso di Dante e di Victor Hugo, ci sembra riflettere un certo neopositivismo che tende a relegare ogni aspetto del misticismo religioso in una sorta di Limbo della ragione, arrivando a rimproverare a Gioacchino da Fiore un eccessivo distacco e una sostanziale estraneità, se non proprio indifferenza, nei confronti della concreta realtà economica e sociale del suo tempo.
Al misticismo rarefatto dell’abate calabrese, infatti, egli contrappone San Francesco, come figura capace di superare la pretesa ambiguità del gioachimismo e di realizzare una sintesi fra rapimento mistico e solidarietà sociale, tra rinnovamento interiore e riorganizzazione collettiva, insomma fra preghiera e azione.
Abbiamo scelto di riportare l’interpretazione del Pompeati, un critico peraltro di notevole valore e oggi ingiustamente dimenticato, per ribadire il fatto che non si comprenderà mai a sufficienza la società medievale, né la sua cultura, la sua spiritualità, i suoi valori, fino a quando si continuerà a leggerle nella chiave di siffatte antinomie, che sono, invece, tipicamente moderne, frutto cioè di una società profondamente laicizzata e secolarizzata.
Per l’uomo medievale, e non solo per la persona semplice e illetterata, ma anche per l’intellettuale, ha poco senso porre una alternativa così secca e perentoria fra dimensione interiore e dimensione esteriore, fra spiritualità e giustizia, fra preghiera e azione: l’uomo medievale sarà anche “ingenuo”, giudicato secondo le nostre categorie, ma certamente possiede un io coeso, una forte consapevolezza della propria unità coscienziale.
Si pensi a quel che dice Tommaso d’Aquino a proposito della distinzione del reale nei due ordini, il naturale e il sopranaturale, e su come essi necessariamente si intersechino e si sovrappongano, in quanto il cittadino, membro dell’ordine naturale, è, al tempo stesso, anche il fedele, membro dell’ordine soprannaturale: come si potrebbe isolare, con un taglio netto, l’abitante di questo mondo, il suddito di questo o quello Stato, che è anche, in quanto cristiano, abitante di una realtà invisibile, di un altro mondo?
Per il tomismo esistono distinzione, ma anche complementarità fra i due ordini; sarà solo con Marsilio da Padova e con Guglielmo di Ockham, in pieno Trecento ormai, e dunque alla fine della civiltà medievale, che una netta separazione verrà tracciata fra essi e che le strade della politica si allontaneranno irreversibilmente da quelle della fede; processo che giungerà al culmine con Machiavelli e che non inizia affatto con lui, come avventatamente si continua a scrivere, anche in numerosi libri di testo scolastici.
Per l’uomo medievale, il mondo materiale è un riflesso del mondo soprannaturale: la preghiera, la meditazione, l’estasi mistica, non sono altro dalla ragione, sono l’altro aspetto della ragione medesima, l’aspetto necessario e complementare; e non certo una evasione dall’impegno concreto della vita sociale o una fuga dal rigore del pensiero logico.
Ciò detto, resta da vedere - così si domandano studiosi come il Pompeati - se Gioacchino da Fiore ebbe consapevolezza delle potenzialità dirompenti ed ereticali del proprio pensiero.
A nostro avviso, anche questo interrogativo è mal posto e sostanzialmente fuorviante; sarebbe come domandarsi se una tale consapevolezza la ebbe San Francesco: e con maggior ragione, visto che molti dei suoi “fraticelli” imboccarono realmente la strada dell’eresia, o quantomeno vennero combattuti come tali dalla Chiesa, mentre ciò non avvenne, almeno formalmente, riguardo all’ordine florense, personalmente fondato da Gioacchino.
Uomini come Gioacchino e come Francesco, ma anche come Iacopone da Todi o Dante, non si ponevano simili domande circa il proprio pensiero e circa il proprio operato, per il semplice fatto che non si sentivano affatto iniziatori di movimenti di riforma né, tanto meno, protagonisti della storia, nel senso che intendiamo noi moderni; ma soltanto e unicamente dei docili strumenti di una Potenza più grande dell’umana, che essi cercavano di interpretare fedelmente e al servizio della quale si ponevano, senza cercare per se stessi gloria o riconoscimenti.
L’uomo medievale non è individualista e non si ritiene così grande da poter influire sul corso della storia, e meno che meno sul corso della storia della salvezza, se non nella misura in cui si fa voce e braccio della volontà divina, che è la vera artefice di ogni cosa, visibile e invisibile.
Ma, se proprio qualcuno volesse insistere con quella domanda, risponderemmo che no: Gioacchino non ebbe quella consapevolezza; certo non più di quanta ne ebbe mai San Francesco, finché visse.