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Basta con la smania manipolatrice e la megalomania degli architetti che si credono Dio

di Francesco Lamendola - 04/04/2012


 

 


 

Si parla tanto, da un po’ di tempo (anche se non abbastanza), dei grandi architetti che scaraventano opere sempre più fastose, sempre più deliranti, sempre più invasive, nei nostri paesaggi urbani, al solo scopo, si direbbe, di far parlare di sé, di suscitare scandalo, di ferire i sentimenti della gente che, in quei luoghi, vive e lavora e che vorrebbe vedere tutto intorno un po’ di bellezza o, almeno, un po’ meno bruttezza, un po’ meno squallore, un po’ meno angoscia.

Si parla poco, invece, di una pletora di architetti minori, o non famosissimi - ma che sperano di diventarlo - i quali giorno per giorno, nei quartieri delle città medie e piccole, silenziosamente, inarrestabilmente, tirano su i loro brutti edifici di cemento, sovente con pretese di originalità e di creatività, spacciandoli per opere d’arte; e di quella pletora di pubblici amministratori che, per legare la propria gestione a qualche cosa di duraturo, non importa se bello o brutto,  si rivolgono ad essi, pagandoli molto generosamente con le pur dissestate casse comunali, per la realizzazione dei loro impudenti ecomostri.

C’è una congiura della bruttezza, che vede associati sindaci, consiglieri e architetti da strapazzo, al fine di buttar giù quel che rimane dei vecchi quartieri e dei vecchi edifici, spesso dignitosi nella loro modestia e povertà, per sostituirli con palazzoni tanto pretenziosi quanto insostenibili dal punto di vista paesaggistico e ambientale, che incombono arroganti e massicci sui cittadini, riempiono di sé il loro campo visivo, li costringono ad una coesistenza penosa; e tutto per una smania di manipolare le cose, le strade, le città, per una megalomania di chi vuol mettersi in mostra ad ogni costo, di chi si sente un piccolo Dio, dotato del potere di fare e disfare e, soprattutto, di imporre la propria idea urbanistica ed estetica a migliaia di cittadini-sudditi ridotti a di assistere, impotenti e scoraggiati, allo scempio edilizio incontrollato e irragionevole.

Già è grave che vi siano sindaci i quali non sanno rispettare né, tanto meno, valorizzare, le bellezze naturali che, nonostante decenni di cementificazione selvaggia, l’Italia ancora offre, come sfondo, alle loro città e cittadine: qua nascondono un lago, là coprono il panorama di una valle, alzando insulsi  casermoni o, addirittura, muri e muraglie che sembrano voler imprigionare i cittadini in un lager collettivo da cui è escluso ogni scorcio di natura e di bellezza.

Ancora più grave, in un certo senso, perché denota una vera e propria perversione del senso estetico, è che lo scempio edilizio, oltre che da ragioni bassamente speculative o di malintesa tutela ambientale (ad esempio, quale protezione contro le esondazioni dei corsi d’acqua, come se non fosse proprio il cemento la causa principale delle alluvioni in ambito urbano), sia originato da una sete di protagonismo: di natura pseudo-modernizzatrice da parte degli amministratori, e pseudo-artistica da parte degli architetti malauguratamente coinvolti.

Pare che per rendere una città sempre più “moderna” sia necessario disfare e rifare continuamente la struttura dei quartieri, l’edilizia pubblica e privata, la viabilità; e che, per dotarla di un volto artisticamente al passo coi tempi, sia necessario costruire edifici sempre più alti, sempre più vistosi, sempre più pacchiani: questo, almeno, è quello che si vede girando per le vie dei centri urbani, specialmente se si lascia passare qualche anno di assenza e poi si torna a vedere cosa è maturato, nel frattempo, dentro la testa degli amministratori e degli architetti.

Può accadere che, nel giro di appena tre o quattro anni, una persona non riconosca più una città, magari la propria città, la città in cui è nata e vissuta e dalla quale si era allontanata per motivi di lavoro: la fretta, regina incontrastata della modernità, ha guidato con mano febbrile radicali trasformazioni, ha demolito edifici e quartieri dal volto umano, che disponevano ancora di un po’ di verde, per sostituirli con nuove colate di cemento, vetro e acciaio, sempre più prepotenti e aggressive, sempre più indifferenti ai sentimenti dei cittadini.

Si dirà che, in democrazia, cose del genere non possono accadere senza che la gente protesti, si ribelli e blocchi lo scempio; e che, se questo non avviene, ciò dipende dal fatto che gli amministrati, in fondo, sono abbastanza soddisfatti dei loro amministratori.

Invece non è così: una volta che il progetto sia stato approvato dalla commissione edilizia, il parere dei concittadini diventa ininfluente. Si potrebbero fare infiniti esempi di ciò; ne citiamo uno per tutti. Nella ridente cittadina di Conegliano, in provincia di Treviso, la patria del pittore rinascimentale Giambattista Cima, l’amministrazione ha affidato, nel non lontanissimo 2002, la costruzione di un vasto edificio con due “torri” gemelle in un nuovo quartiere, chiamato Setteborghi, nato dalla riqualificazione di un’area precedentemente adibita a uso industriale.

Massicce, imponenti, di colore verde sgargiante (e subito ribattezzate “piselloni”), le due torri, sormontate da due enormi sovrastrutture metalliche in cima alle quali dovrebbero sorgere dei giardini pensili, e poste sulle rive del Monticano, proprio in faccia al colle su cui sorge un ameno castello rinascimentale, sono state salutate da Italia Nostra come uno sfregio alla città e difese dal loro autore, l’architetto sloveno Boris Podrecca, come un validissimo esempio di architettura rappresentativa del nostro tempo, nonché rispettosa dei valori ambientali.

Bisogna sapere che Podrecca ha edificato opere analoghe in tutta la Mitteleuropa (egli stesso è di solito considerato un architetto “viennese”) e che, un po’ come per il ponte costruito a Venezia, presso Piazzale Roma, dall’architetto Santiago Calatrava, i cittadini non hanno particolarmente gradito l’opera, tanto che in poco tempo sono state raccolte ottomila firme (su una popolazione complessiva di circa 35.000 abitanti) per modificare l’opera e, in particolare, per ottenere almeno la rimozione delle grandi strutture metalliche. Ma, per contratto, nessuna modifica poteva essere apportata senza l’assenso dell’architetto: il quale, infischiandosene dei sentimenti della cittadinanza, ha dato risposta negativa.

Crediamo sia interessante riportare gli argomenti con i quali egli ha difeso la propria opera e respinto le critiche (in una intervista al quotidiano «Il Gazzettino» di Venezia del 22 marzo 2008), perché esemplare del modo di pensare di questi sultani dell’architettura, tronfi delle proprie certezze e della coscienza del proprio valore, anche se misconosciuto dalla plebe ignorante e reazionaria che, presto o tardi, finirà per convertirsi al Verbo del Progresso.

Eccone un estratto.

Le critiche dei coneglianesi che non hanno capito, né gradito l’opera?

«All’inizio un buon cavallo fa sempre povere. Conoscendo l’ambiente coneglianese, se qualche architetto ci spara contro, che spari pure con la sua pistola a tappo!»

Uno sfregio urbanistico?

«Quell’edificio nasce da un impatto prettamente ambientale, senza alcun compromesso mercantile. Per capirlo basta saper osservare con una certa sensibilità ed esperienza urbana. L’edificio lega, infatti, la parte costruita, finale della città, con l’area amena, verde e bucolica, non edificabile, sugli argini del Monticano. Il verde riflette il luogo e la posizione di quell’importante edificio che si snoda come un meandro nel verde della città. Come nella natura non esiste un verde solo, così anche l’edificio, con le sue tonalità di verde, segue la strategia del mimetizzarsi e della mimesi in modo da generare uno stacco minimo rispetto alla cornice del verde naturale.»

Edificio troppo alto?

«Una falsa e spicciola posizione eco-ambientalista attribuisce, a priori, alla verticalità un ruolo di colpa, assumendo posizioni retrograde e anti-innovative. È così che associazioni protettive, che non conoscono né riflettono su esperienze qualitative moderne, sia italiane che europee, si esprimono con una certa faciloneria populistica e fanno da freno all’evoluzione dell’architettura rappresentativa del proprio tempo, definendole uno sfregio. Le Torri, una volta finite, saranno dei giardini alberati protetti da un grillage metallico. Con la propria verticalità funzioneranno da punti di orientamento, elementi di snodo rispetto al paesaggio limitrofo. Se qualcuno va a cercare, come un cacciatore di farfalle, la chiusura prospettica sul castello, la troverà, come a San Gimignano, Lucca, Bologna, Pisa. E allora demoliamo le torri…»

La proposta di Italia Nostra di rimuovere le sommità metalliche?

«Può darsi che in quell’organizzazione ci siano dei chirurghi esperti di amputazioni: un’operazione di questo genere sarebbe assurda, priva di qualsiasi forma di cultura urbanistica e spoglia di orizzonti intellettuali.»

 

Più che le singole argomentazioni dell’architetto, al quale va riconosciuto almeno il merito della coerenza, quel che colpisce sono il tono generale del discorso, il modo di argomentare, i presupposti culturali e mentali da cui muove l’immodesto personaggio.

Lui ha la verità in tasca, lui sa cosa sia bene e cosa sia bello per una città: non i cittadini, retrogradi e sprovvisti di dignità intellettuale.

L’assunto fondamentale è che “nuovo è bello”, dunque un’opera architettonica, purché abbia i caratteri della modernità, s’impone come meritevole rispetto ad ogni altra considerazione; e chi non approva, significa che vuol frenare il nuovo, dunque che è un anti-innovativo, una specie di luddista, un nemico del progresso.

L’opera moderna, dai colori vistosi, dalla verticalità imponente, ha in se stessa, nell’estetica che la sottende, la propria ragion d’essere e la propria giustificazione; o, per meglio dire, la sua giustificazione è auto-evidente; non è necessario spiegarla, basta dire (dire, non mostrare) che essa è in accordo col paesaggio e che rispetta la vocazione storica di quella determinata città.

Ma l’asso nella manica, l’argomento che chiude la bocca a qualsiasi ulteriore obiezione, è che il pubblico intelligente, in Italia e in Europa, si è già familiarizzato con questo tipo di architetture; come dire: volete essere proprio voi, solo voi, a fare la figura di quelli che stanno alla retroguardia, dei trogloditi, degli ultimi Vandeani? Volete proprio farvi assegnare la maglia nera dei più oscurantisti, conquistarvi la dubbia celebrità di aver bocciato quello che, altrove, viene ovunque accolto con soddisfazione e gratitudine?

Questo è un concentrato di quella arroganza intellettuale, di quel disprezzo per le opinioni delle persone comuni, di quella insofferenza nei confronti delle associazioni di salvaguardia dei beni culturali, che osano fare da diga contro l’assalto all’ambiente, la speculazione edilizia, la cementificazione selvaggia, la privatizzazione del territorio e l’espropriazione al diritto dei cittadini di aver voce nell’assetto ambientale del proprio territorio.

Per codesti “intellettuali” autoreferenziali, che se la fanno e se la dicono, paghi del plauso di pochi loro colleghi e ammiratori e sprezzanti di quel che pensa e che desidera il pubblico, l’importante è sentirsi con il vento della storia in poppa: essi rappresentano il progresso, la razionalità pratica, la cultura dell’avvenire; condividono con il Futurismo un fastidio malcelato verso la tradizione e i suoi valori, l’armonia, l’equilibrio, le proporzioni a misura d’uomo; se potessero, rivolterebbero ogni città come un guanto e rifarebbero tutto daccapo, secondo il loro infallibile estro.

In breve, sono dei decisionisti arrabbiati, degli attivisti compulsivi, dei nevrotici del cambiamento; insofferenti di pastoie, di vincoli, di controlli, condividono con certi politici d’assalto l’avversione viscerale per la democrazia assembleare, per il confronto con la cittadinanza, per il contraddittorio: sono convinti di poter ricostruire il mondo meglio di quanto la storia e la natura messe insieme abbiano mai saputo fare, purché si dia loro carta bianca, al cento per cento.

E quel che è accaduto a Conegliano, accade continuamente, in migliaia e migliaia di città e cittadine di tutta Italia, di tutta Europa, di tutto il mondo: una nuova generazione di amministratori ambiziosi e di architetti presuntuosi ha stretto un patto di ferro per porre una pietra tombale sulla tradizione e per costringere le rispettive cittadinanze, volenti o nolenti, a marciare al passo con i tempi nuovi, con «le magnifiche sorti e progressive» della modernità.

La loro parola d’ordine è: cambiare, cambiare, cambiare tutto, sempre più in fretta, in modo che il popolino non abbia nemmeno il tempo di rendersi conto di quel che sta accadendo; e che, quando se ne sarà reso conto, sia troppo tardi per qualsiasi reazione.

In fondo, bisogna capirli: a loro modo, sono dei filantropi; lo fanno per il nostro bene…