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Epidemie

di Franco Cardini - 28/10/2014

Fonte: Franco Cardini

 

Se qualcuno mi chiedesse un parere “da storico”, circa il problema dell’Ebola e della “grande paura” che essa minaccia di provocare, come qualche anno fa della “Sars” (la polmonite atipica e il suo carattere epidemico), dovrei cominciare con il richiamare il fatto che i nostri media, alternando notizie a carattere minimalizzante e confortante ad allarmi quasi apocalittici, anche se non lo sanno ripercorrono una via di millenarie incertezze e contraddizioni.

In effetti, è proprio così che cominciano i “grandi flagelli annunziati”: sia quelli poi tradottisi in effettive generali calamità, sia quelli poi finiti in bolle di sapone. O, quanto meno, che sono cominciati finora quelli storicamente attestati: dalla grande peste di Atene del 429 a.C., descritta da Tucidide, fino alla peste di Roma del 66 d.C. di cui ci ha parlato Tacito, alla “peste di Giustiniano” del 542 sulla quale c’informa Procopio da Cesarea, a quella del 1347-50 da cui parte il Boccaccio per avviare il suo Decameron fino a quella del 1630, nota a tutti quelli che hanno fatto le scuole medie, almeno fino a qualche anno fa, perché ne tratta diffusamente il Manzoni in un saggio storico, La colonna infame, oltre che – naturalmente – ne I promessi sposi.

Se non altro, bisogna dire che alle pestilenze – in genere accompagnate, “a spirale”, da un tipico fenomeno di “strozzatura maltusiana”, le carestie – sono se non altro toccati sempre in sorta grandi scrittori che ne hanno parlato. O sarà vero il contrario: che le circostanze tragiche, le grandi tragedie, suscitano e affinano gli ingegni?

Noi diciamo “peste”, “pestilenza”: ma sono termini vaghi, imprecisi. Tra le peste polmonare, quella setticemica e e quella ghiandolare (“bubbonica”), per esempio, c’è una bella differenza. Si tratta di affezioni del tutto diverse. I nostri padri definivano spesso “peste” altre cose: come le epidemie di tifo esantematico, con il quale il pur temibile bacillo della pasteurella pestis, scoperto da J. E. Yersin nel 1894, non ha nulla a che vedere. Casi di peste si verificarono ancora in Italia meridionale nel 1945; attualmente essa è ancora endemica in Asia centrale. Ma altre epidemie hanno colpito il genere umano con terribile violenza: si pensi al colera, la cui ultima vera e propria pandemia – cioè epidemia che ha interessato un’area molto vasta del globo – si è avuta tra 1961 e 1970. Oppure si pensi alla cosiddetta “spagnola”, in fondo una volgarissima epidemia influenzale, ma che tra 1918 e 1920 flagellò tutto il mondo: con 300.000-400.000 vittime solo in Italia.

Eziologia e tipologia della diffusione sono sempre le stesse: e, mi duole dirlo, nelle descrizioni del passato somigliano dannatamente a quel che a quanto pare sta succedendo ai giorni nostri. Il Manzoni lo descrive benissimo: prima l’epidemia viene nascosta e negata, le autorità rassicurano che tutto è sotto controllo, la gente ci scherza su; poi, repentinamente, ci si rende conto ch’è un vero flagello, che le vittime sono troppe, che non si sa come arrestarlo, si cerca invano di chiudere i confini e d’impedire la circolazione di uomini e di merci. E allora nascono infinite forme di psicosi: ogni “peste” ha avuto anche i suoi “untori”: nel caso di oggi, si è già cominciato a parlare di al-Quaida, di Saddam e del terrorismo; ma non manca chi parla di un virus “nato in provetta” e si chiede come mai si sia sviluppato proprio in Cina, oggi forse l’unica potenza al mondo in grado di tener testa agli USA. Il “picco” dei contagi si tocca in genere qualche mese dopo che ci si è arresi all’evidenza, quindi la malattia perde forza da sola, mentre la s’impara a combattere e si diffondono cure e forme di autoimmunizzazione. Caratteristica è anche la fiducia in rimedi inefficienti. Le fumigazioni profumate delle pestilenze tre-seicentesche, fondate sul principio che l’epidemia si diffondesse “a causa della corruzione dell’aria”, erano tanto inefficaci quanto le mascherine dei cinesi di oggi, che arrestano le micropolveri ma sono inefficienti contro i virus.

L’epidemia più celebre e più terribile che la storia europea ricordi è quella della “Peste nera” del 1347-50. Essa giunse nella fase culminante di un processo di espansione che aveva portato uomini e navi dai porti dell’Europa cristiana a quelli del Mediterraneo orientale. Su quelle navi viaggiarono anche i topi e su di essi le pulci: i due animali portatori della peste. Nel 1346 l’epidemia aveva colpito Tabriz e Astrakan; nel 1347 i mongoli del khanato dell’Orda d’Oro (Russia meridionale) all’attacco di una base commerciale genovese sul Mar Nero gettarono corpi di appestati oltre le mura, inventando senza saperlo la guerra batteriologica. Alla fine di quello stesso anno 1347, la peste aveva raggiunto Messina e poi Marsiglia e Genova; un anno dopo, stava devastando le città interne del mondo mediterraneo e aveva già raggiunto i porti atlantici francesi, inglesi, danesi. Attraverso i documenti specie commerciali e notarili si può seguire drammaticamente il “film” della peste che risale la penisola italica, espandendosi dal sud verso nord e dalle coste verso le città dell’interno.

La strage fu di dimensioni paurose: si calcola che la popolazione dell’Europa occidentale fosse allora di circa 80 milioni. Ebbene, l’epidemia di peste ne uccise ben 25 milioni circa tra il 1347 e il 1351. Sono stime incerte, si badi bene: comunque, si parla di una falcidie che in certe zone colpì tra il 40 e il 60% degli abitanti.

La guerra favorì l’arrivo delle peste: la guerra e la fame ne resero gli effetti ancor più devastanti e ne radicarono per molto tempo la presenza nell’Europa occidentale. Si è discusso molto se le carestie che colpirono quest’area furono una causa della peste o piuttosto una sua conseguenza: si è fatto notare che l’aumento della popolazione e l’espansione eccezionale delle città avevano già incontrato nei decenni precedenti un limite naturale nella produzione cerealicola delle campagne; le masse umane falciate dalla peste furono, insomma, masse di gente affamata o sottoalimentata, con scarse difese organiche da opporre all’aggressione. D’altra parte è anche vero che la peste spopolò le campagne - sia per le vittime che mieteva, sia perché la popolazione tendeva a raccogliersi intorno ai centri urbani, veri e propri granai dove un sistema vincolistico raccoglieva e conservava le derrate, sia infine per l’insicurezza diffusa nel mondo extraurbano da guerre, banditismo e allentato controllo sociale. Le terre coltivate diminuirono, le carestie si fecero più violente, legandosi in un terrificante circolo vizioso ai ritorni di fiamma dell’epidemia.

Chi ha tentato una stima complessiva per l’insieme della popolazione europea è stato più prudente nel valutare il crollo demografico: si è parlato di 73 milioni di abitanti nel 1300, e 45 nel 1400; oppure, escludendo dal computo l’Europa orientale, rispettivamente di 54 e 35 milioni. Ma si tratta, ripetiamolo, di cifre puramente ipotetiche. Resta il fatto, indiscutibile, di un declino diverso da regione a regione, ma complessivamente rilevante, e tale da influire in modo decisivo, come ora vedremo, sulla congiuntura economica e sui livelli di vita della popolazione.

L’Italia era a quel tempo l’area più urbanizzata d’Europa, con oltre 150 città di 5000 o più abitanti ( nel Nord Europa si usano considerare città centri di appena 2000 abitanti), di cui 72 sopra i 10000 abitanti, 11 sopra i 40000, e le 5-6 città più grandi d’Europa, fatta eccezione per Parigi. Di queste, decine e decine persero la metà degli abitanti, alcune i due terzi. Non ci fu un calo demografico repentino, la popolazione di molte città subì piuttosto una discesa graduale, “a scalini”, raggiungendo il punto più basso solo nei primi decenni del Quattrocento, come nel caso di Firenze, che a quella data aveva perso i due terzi della sua popolazione pre-peste (da 100-120000 a 37000). La peste, infatti, fece più volte la sua comparsa dopo il 1348: si può dire che restasse endemica nel macrocontinente eurasiatico del tempo tra i due grandi episodi pandemici del 1347 e del 1630, facendo la ricomparsa in forma acuta molte volte tra XIV e XVII secolo.

E’ ancora presto per valutare sul serio il fenomeno attuale. Certo, le condizioni di oggi – in particolare i voli aerei – inducono un’epidemia a diffondersi con molta maggior rapidità di quanto prima non accadesse.In cambio, i sistemi di controllo e quelli diagnostici e terapeutici sono senza dubbio molto più efficaci. La peste del Boccaccio ebbe bisogno di tre-quattro anni per fare il giro. Partendo dal Mar Nero, per tutta l’asia e per l’intero Mediterraneo, dalla Cina al Maghreb. La “spagnola” ci mise due anni a fare il giro completo del mondo. Nel caso attuale, sarà forse faccenda di qualche mese: qualcuno parla di un “picco” già raggiunto, ma forse si tratta di voci un po’ troppo ottimistiche. Rapidità del contagio e mutabilità del DNA del virus appaiono gli elementi negativi specifici: il virus sta circolando nell’autunno inoltrato, e in questi casi dovrebbe arrestarsi o sospendersi. Gli elementi positivi sono naturalmente legati al progresso nelle scienze mediche e alle prospettive di business, tali da impegnare al massimo le industrie farmaceutiche. Senza dubbio è la globalizzazione che rende più temibile Ebola, perché velocizza il contagio: ma, data la rapidità con cui si diffondono le notizie e gli scambi tecnici relativi a diagnosi e terapie, è anche grazie alla globalizzazione se siamo in grado di difenderci meglio.

Ma attenzione: le epidemie hanno sempre un risvolto politico. Nel 1347-50 si disse che erano stati gli ebrei, d’accordo con i “mori” di Spagna, ad avvelenare i pozzi. Per l’epidemia del 1630, francesi e spagnoli – i grandi contendenti del tempo: si era in piena “guerra dei Trent’Anni – continuarono a lungo a scambiarsi accuse. Fra esse, ce n’era una caratteristica: il nemico aveva sparso il contagio, avvalendosi dei turchi infedeli. Un legame molto stretto collega il periodo della pandemia pestosa 1347-1630 con la caccia alle streghe. Ogni tempo ha l’Usama bin Laden o il califfo al-Baghdadi che si merita.