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Spiritualità

di Maurizio Pallante - 06/10/2018

Spiritualità

Fonte: Maurizio Pallante


IL MODO DI PRODUZIONE INDUSTRIALE: CRESCITA DELLA MERCIFICAZIONE E MIGRAZIONI
Il prodotto interno lordo di un sistema economico e produttivo è il valore monetario delle merci a uso finale vendute e comprate nel corso di un anno. Nelle società fondate sul modo di produzione industriale l’economia è stata finalizzata alla crescita del prodotto interno lordo, indipendentemente da ogni valutazione non soltanto dell’utilità delle merci prodotte, vendute e comprate, ma anche delle conseguenze che ne derivano a livello sociale e ambientale. Per far crescere la produzione di merci è necessario che le innovazioni tecnologiche vengano finalizzate all’aumento della produttività. Ma non basta. Occorre che in parallelo aumenti la domanda di merci, perché, se le quantità sempre maggiori di merci prodotte non venissero vendute, il meccanismo della crescita s’incepperebbe. A tal fine deve aumentare progressivamente il numero delle persone che non possono soddisfare le loro esigenze vitali se non comprando sotto forma di merci tutto ciò di cui hanno bisogno per vivere, perché non sono in grado di autoprodurre nulla, né immaginano che alcuni beni e servizi si possano scambiare sotto forma di dono reciproco del tempo nell’ambito di rapporti comunitari. La dipendenza della propria vita dalla possibilità di acquistare sotto forma di merci tutti i beni di cui si ha bisogno, conferisce alle merci un valore simbolico che travalica il loro valore effettivo. Il benessere e la ricchezza si identificano col possesso di merci. Riuscire ad averne sempre di più diventa la massima aspirazione esistenziale. Riuscire ad acquistare le merci migliori e le novità che aumentano, o sostituiscono la gamma delle merci che già si posseggono, diventa il segno della realizzazione umana. A partire dalla seconda metà del diciottesimo secolo questa concezione dell’economia e del benessere si è estesa a tutti gli strati sociali nei Paesi industrializzati, diventando il perno del sistema dei valori condivisi. Dalla seconda metà del ventesimo si è estesa progressivamente a tutti i Paesi del mondo, incontrando forme di resistenza sempre più deboli, che ha spazzato via con la forza laddove è stato necessario.

La finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci è la causa fondamentale delle migrazioni, che negli ultimi duecentocinquanta anni hanno trasferito quantità crescenti di popolazioni dalle campagne alle città, dalle attività agricole alle attività industriali e ai servizi, dall’economia di sussistenza all’economia mercificata. Questo processo è iniziato nella seconda metà del settecento in Inghilterra, con la progressiva trasformazione dell’agricoltura da attività produttiva per autoconsumo con vendita delle eccedenze in attività finalizzata alla produzione per il mercato. A tal fine occorreva aumentare i rendimenti agricoli, adottando tecniche agrarie più efficienti che consentissero di lavorare appezzamenti di terreno sempre più vasti con un numero sempre minore di addetti. Contestualmente la privatizzazione delle terre comuni impedì ai piccoli contadini di continuare a utilizzarne le risorse – pascolo, caccia, raccolta della legna e delle piante selvatiche – che costituivano un complemento indispensabile alla loro produzione agricola, per cui non riuscendo più a vivere di autoconsumo, né a inserirsi nelle trasformazioni produttive in atto, erano costretti a lasciare le campagne e trasferirsi nelle città, dove i primi opifici industriali avevano un crescente bisogno di operai. Nei Paesi dell’Europa nord occidentale e negli Stati Uniti, dove il modo di produzione industriale e l’economia di mercato stavano prendendo il sopravvento sull’economia di sussistenza, i flussi migratori dalle aree rurali alle aree urbane si sono continuamente intensificati, superando, sin dalla seconda metà del diciannovesimo secolo, i confini nazionali.

Negli ultimi decenni del novecento, la sconfitta della variante socialista del modo di produzione industriale, certificata dall’abbattimento del muro di Berlino nel 1989, l’estensione della sua variante liberista a Paesi in cui vive quasi il 40 per cento della popolazione mondiale (Cina, India, Russia) e la valorizzazione del modello economico finalizzato alla crescita della produzione di merci nell’immaginario collettivo di tutti i popoli del mondo, hanno innescato flussi migratori a livello planetario, che sono stati assorbiti all’interno di quei tre enormi Paesi in cui il processo di industrializzazione si è sviluppato rapidamente, ma si sono diretti dai Paesi in cui ciò non è avvenuto, o è avvenuto più lentamente, verso i Paesi di più antica industrializzazione: dall’Europa dell’Est, dal Nord Africa e dal Medio Oriente verso i Paesi dell’Europa occidentale; dal Messico verso gli Stati Uniti.

LA CRESCITA DELLA MERCIFICAZIONE: ASPETTI POSITIVI E ASPETTI NEGATIVI
Il passaggio dall’economia di sussistenza all’economia di mercato ha aumentato in maniera esponenziale la produzione di beni materiali. L’aumento dei profitti che ne è conseguito ha consentito di indirizzare quote crescenti di denaro nella ricerca scientifica. I redditi monetari di percentuali sempre maggiori delle popolazioni sono aumentati e il benessere materiale si è esteso anche agli strati sociali più poveri. La medicina e la chirurgia hanno fatto progressi straordinari, la durata della vita si è allungata, sono state debellate malattie prima incurabili. I livelli d’istruzione sono aumentati. L’analfabetismo è diminuito. Si sono velocizzati i trasporti e, di conseguenza, si sono ridotte le distanze. Le comunicazioni hanno superato i limiti continentali e il mondo è progressivamente diventato un villaggio globale. Tutti questi vantaggi hanno rafforzato la convinzione che il modo di produzione industriale fosse la realizzazione del migliore dei mondi possibili.

Questa medaglia ha però avuto il suo rovescio. La crescita delle produzioni agricole e industriali ha progressivamente ridotto la disponibilità di risorse non rinnovabili (dalle fonti energetiche fossili alla fertilità dei suoli). Dalla fine dell’ottocento le emissioni biodegradabili dei cicli produttivi (anidride carbonica e metano) hanno cominciato a superare le capacità della biosfera di metabolizzarle. Dagli anni ottanta del secolo scorso il consumo delle risorse rinnovabili è arrivato a eccedere le capacità di rigenerazione annua del pianeta. Per aumentare la produttività sono state utilizzate sostanze tossiche di sintesi che hanno incrementato la diffusione di malattie incurabili. Poco prima della sua morte, nel 2016, uno dei massimi oncologi a livello mondiale, Umberto Veronesi, ha lanciato l’allarme sul fatto che l’incidenza dei tumori stava salendo da un terzo alla metà delle popolazioni dei Paesi industriali. La bellezza di molti paesaggi naturali incontaminati, o ai quali nel corso dei secoli l’antropizzazione aveva aggiunto bellezza alla bellezza originaria, è stata devastata da un’edilizia residenziale e industriale di scarsissima qualità, che li ha ridotti in luoghi allucinanti, dove l’inorganico ha soppiantato l’organico, l’aria è attossicata dai fumi, il rumore è insopportabile, le strade sono piene di rifiuti, i corsi d’acqua trascinano liquami maleodoranti, gli edifici si sgretolano. Dove non si capisce perché esseri umani che vi sono arrivati alla ricerca di un’occupazione, accettino di continuare ad abitare e non ne fuggano per tornare a vivere, come i loro antenati, di autoproduzione in ambiti comunitari.

Inevitabilmente una domanda si pone. Lo sviluppo scientifico e tecnologico che ha apportato così grandi vantaggi in termini di benessere materiale, non avrebbe potuto anche consentire di evitare gli aspetti negativi che quelli positivi hanno trascinato con sé? A rigor di logica la risposta non può che essere: sì, avrebbe potuto. E allora perché non è avvenuto? Perché non c’è un’inversione di tendenza nemmeno ora (a. d. 2018) che dati evidenti e inequivocabili, in particolare le conseguenze sempre più devastanti dei cambiamenti climatici, indicano che tutti i fattori di crisi ambientale hanno superato la soglia oltre la quale si autoalimentano e, probabilmente, anche la soglia del non ritorno? Una sola risposta è possibile. Perché tutte le energie e tutte le preoccupazioni sono indirizzate a far crescere il prodotto interno lordo. Solo a questo si guarda. Solo questo interessa. Il prodotto interno lordo viene considerato la misura del progresso. Se non cresce non c’è progresso. Se non si fa di tutto per farlo crescere vuol dire che si è perso il senso del futuro. I problemi ambientali vengono rimossi, nel senso psicanalitico del termine, perché si pensa, anche se non si ammetterebbe mai, che non si possano risolvere se non si riduce la crescita economica. Perché inconsciamente si sa che la causa dei problemi ambientali è la crescita. Come si fa ad ammettere l’esistenza di una realtà che mette in discussione il fondamento del modo di produzione industriale? Meglio chiudere gli occhi per non vederla. Dio, ha scritto il profeta Isaia, acceca quelli che vuol perdere.

METAMORFOSI DEL DENARO. MERCATO ED ECONOMIA DI MERCATO
La produzione di merci, ovvero di oggetti e servizi da vendere, è intrinseca alla storia umana, così come l’autoproduzione per autoconsumo e gli scambi non mercantili fondati sul dono e la reciprocità. Dal momento che non si può autoprodurre, o scambiare sotto forma di dono reciproco del tempo, tutto ciò che serve per vivere, o rende piacevole la vita, la produzione di merci contribuisce in maniera determinante a migliorarne la qualità. Consente di soddisfare, o di soddisfare meglio, una più vasta gamma di bisogni e di desideri. Arricchisce le conoscenze, mette in relazione le culture. Il mezzo di scambio nella compravendita delle merci è il denaro, un oggetto di per sé inutile – foglietti di carta filigranata, pezzetti di metallo coniati, oggi anche semplici impulsi elettronici – a cui sia gli acquirenti che i venditori (che sono due facce della stessa medaglia, perché tutti i venditori sono anche acquirenti e viceversa) conferiscono un valore simbolico equivalente al valore reale delle merci. Il modo più vantaggioso di effettuare gli scambi, sia per i venditori, sia per gli acquirenti, è costituito dal mercato, un luogo fisico o virtuale dove la concorrenza – in senso etimologico – di più venditori e di più acquirenti, consente di determinare il prezzo più equo per ogni merce. Il modo di produzione industriale, avendo posto a fine dell’economia la crescita della produzione di merci, e avendola assurta al ruolo di misura del benessere e del progresso, ha ostacolato e impedito progressivamente sia l’autoproduzione, sia gli scambi non mercantili perché riducono la necessità di comprare tutto quello che serve per vivere. Di conseguenza l’economia è diventata economia di mercato, non perché gli scambi merce-denaro avvengano nel mercato, ma perché si produce tutto per il mercato. Se tutto ciò che si produce è merce e tutto ciò che serve si deve comprare, il denaro da mezzo degli scambi commerciali diventa il fine della vita degli esseri umani, che sono diventati i mezzi della crescita del prodotto interno lordo, sia in quanto produttori, sia in quanto consumatori di merci.

Nelle società industriali la preoccupazione maggiore degli esseri umani è avere quantità sempre maggiori di denaro, non solo per accrescere il loro potere d’acquisto, ma come valore in sé. Non si spiegherebbe altrimenti come mai la quantità di denaro circolante nel mondo sia, secondo i calcoli più restrittivi, 16 volte il valore del prodotto interno lordo mondiale. O come mai persone che ne hanno accumulato più di quanto potrebbero scialarne nel corso della loro vita, loro, i loro figli e i figli dei loro figli, continuano a lavorare senza sosta per accumularne sempre di più. Sia coloro che ne posseggono enormi quantità, sia coloro che hanno appena il necessario per vivere seguono con apprensione l’andamento del prodotto interno lordo e degli indici monetari: le variazioni delle Borse Valori, i rendimenti dei titoli di Stato, lo spread, i tassi di cambio tra le monete. Ma non si interessano degli altri. Non provano compassione per chi soffre. Non si sanno incantare davanti a un paesaggio o a un tramonto. Preferiscono intasarsi nelle strade dello shopping e nei centri commerciali. Per usare le parole di Pierpaolo Pasolini, sotto la dittatura del consumismo – una dittatura ben più efficace di quella del fascismo perché non imposta dall’esterno con la forza, ma accettata come una libera scelta e interiorizzata – è avvenuta una vera e propria mutazione antropologica. L’interesse, l’attenzione, le aspirazioni degli esseri umani si sono concentrate esclusivamente sulle esigenze materiali. Se non cambia questo sistema di valori, come potrebbero preoccuparsi dei problemi ambientali, di cui non percepiscono la connessione con la crescita della produzione e dei consumi di merci? Come potrebbero credere che la crescita di quei consumi sia la causa dei cambiamenti climatici, di cui cominciano a preoccuparsi; dell’aumento dell’incidenza dei tumori, di cui numeri sempre più grandi di famiglie fanno esperienza diretta; delle masse di poltiglie di plastica grandi come continenti che galleggiano negli oceani, di cui i giornali cominciano a parlare; dell’impoverimento dei Paesi non industrializzati, che induce masse crescenti dei loro popoli a migrare nei Paesi che li hanno impoveriti, con la speranza di poter raccogliere almeno le briciole che cadono dalle tavole di chi li abita? Come potrebbero convincersi che la soluzione di quei problemi sia l’abbandono di ciò in cui sono stati abituati a vedere il progresso e il senso stesso della vita?

LA MUTAZIONE ANTROPOLOGICA ATTUATA DAL CONSUMISMO
Nell’analisi di Pierpaolo Pasolini sulla mutazione antropologica operata dalla diffusione del consumismo sono impliciti due elementi che, se vengono esplicitati, consentono di approfondirla. In un sistema economico che finalizza la produzione alla crescita dell’offerta di merci il consumismo è indispensabile per far crescere sistematicamente la domanda. È un fattore determinante per la sua stabilità. Pertanto la critica al consumismo non è solo la critica a uno stile di vita appiattito sul materialismo, ma anche al modo di produzione industriale che lo impone per sopravvivere. Non ha soltanto una connotazione etica, ma anche una valenza politica. Gli acquisti compulsivi potranno anche essere considerati un vizio privato, ma sono una pubblica virtù. Se non si modifica la finalizzazione dell’economia alla crescita, la critica al consumismo rimane sterile e inefficace. Inoltre, se si ritiene che l’appiattimento sulla dimensione materialistica operato dal consumismo costituisca un impoverimento della natura umana, e che questo impoverimento privi delle difese necessarie a non subire passivamente il condizionamento su modelli di comportamento eterodiretti, la ricostituzione dell’integrità sostanziale degli esseri umani richiede la riconquista della dimensione spirituale, di cui sono stati progressivamente privati. La valorizzazione della spiritualità è indispensabile per liberarli dall’incantesimo del consumismo e per liberare l’economia dal vincolo della crescita.
La finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci presuppone una concezione del mondo antropocentrica: la convinzione che tutte le forme di vita, animale e vegetale, abbiano la funzione di rispondere alle esigenze umane. Siano risorse a disposizione della specie umana e non abbiano un valore in sé stesse. Anche alcune componenti dell’ambientalismo che hanno interiorizzato i criteri dell’economicismo più di quanto non ne siano consapevoli, le definiscono capitale naturale e sostengono la necessità di non sprecarle affinché non si esauriscano, ma di sfruttarle giudiziosamente, utilizzandone soltanto gli interessi, ovvero una quantità non superiore alla loro riproduzione annua. Il problema è che le quantità richieste dalla finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci crescono per definizione e gli interessi non sono più sufficienti a sostenerla da quasi quattro decenni. Nel 2017 l’umanità ha consumato nel periodo da 1° gennaio al 1° agosto una quantità di sostanza organica pari a quanta ne è stata rigenerata dalla fotosintesi clorofilliana nel corso dell’anno. Per soddisfare i consumi dei restanti cinque mesi dell’anno si è dovuto intaccare il capitale naturale. Se non si smetterà di considerare i viventi non umani risorse da trasformare in merci, per di più in quantità sempre maggiori e tempi sempre più brevi, non si potrà percepire la perfezione intrinseca in ogni forma di vita e non si potrà mai sentire l’esigenza di rispettarla. Se non si ridarà alla spiritualità il suo giusto valore non si potrà capire che sono le relazioni con gli altri viventi a definire ontologicamente ogni individuo e a metterlo in connessione col Tutto, a partire dall’atto fondamentale della vita, la respirazione, che è uno scambio con la fotosintesi clorofilliana effettuata dalla vegetazione sotto l’effetto della radiazione luminosa inviata dal Sole sulla Terra. Con la respirazione i viventi, compresi i vegetali, inspirano ossigeno ed espirano anidride carbonica. Con la fotosintesi clorofilliana le piante assorbono anidride carbonica ed emettono ossigeno. Il Sole dona la vita alla vegetazione e la vegetazione la dona a tutti i viventi, ognuno dei quali viene definito dall’intreccio delle relazioni che lo connettono ad altri esseri viventi e ai luoghi in cui vivono. La spiritualità consente agli esseri umani di percepire queste relazioni costitutive del loro essere e di capire che la riduzione delle altre specie viventi a risorse per la soddisfazione delle loro esigenze materiali, non è soltanto un atto di violenza nei loro confronti, ma lacera questa trama e si traduce in una mutilazione anche per loro. Senza riconoscere alla spiritualità il suo valore costitutivo della natura umana non sarà possibile attenuare i problemi ambientali che stanno portando la specie umana all’autoannientamento, perché nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci ogni misura indirizzata a quel fine sarebbe vissuta come una limitazione a un presunto diritto di avere sempre di più, e non come la creazione di condizioni che consentono di vivere meglio.

RIVALUTARE LA SPIRITUALITÀ
Rivalutare la spiritualità non significa condannare moralisticamente il legittimo desiderio di benessere materiale, perché anche questo fa parte della natura umana. Significa promuovere la consapevolezza che il benessere materiale non è tutto e, se diventa tutto, si trasforma in malessere. Se si pensa di essere felici acquistando l’ultimo modello di un prodotto, la momentanea soddisfazione che se ne ricava viene sistematicamente frustrata dalla successiva immissione sul mercato di un modello più nuovo, come viene fatto usualmente per mantenere intatta la propensione al consumo. Ogni barlume di felicità che si pensa di trovare nelle cose si trasforma sistematicamente in delusione. Inoltre, se l’obiettivo della società è far crescere la domanda, il sistema dei valori condivisi induce a privilegiare i rapporti mediati dal denaro e le relazioni sociali che favoriscono l’aumento del potere d’acquisto: le progressioni di carriera, l’acquisizione di nuovi clienti, l’inserimento in lobbies di potere, le possibilità di concludere affari ecc. Le relazioni umane fondate sulla solidarietà e il disinteresse vengono trascurate, perché si ritengono, anche inconsciamente, meno importanti. Le persone nella fascia d’età lavorativa dedicano più volentieri il tempo al lavoro che alla cura dei propri figli in tenera età o dei genitori anziani. Nei confronti delle persone a cui non si vende, o da cui non si compra nulla, si tende a essere indifferenti. Le famiglie che abitano nei condomini delle grandi aree urbane non si conoscono tra loro. Se una persona che vive sola muore, capita di tanto in tanto che i vicini se ne accorgano soltanto dopo molti mesi. La conseguenza di questo modo di rapportarsi con gli altri è la diffusione di una solitudine non scelta che genera sofferenza. Finché si è produttivi e si spendono tutte le proprie energie per guadagnare soldi, ci si illude che questa sofferenza possa essere compensata dalla magra soddisfazione di esibire livelli di consumo più alti di quelli dei propri conoscenti, ma quando si esce dal mercato del lavoro per anzianità, corrode i restanti anni di vita. Oltre a generare una sofferenza diffusa, l’appiattimento sulla dimensione materialistica fa vivere in uno stato di tensione permanente, lacera la coesione sociale, stimola l’aggressività. Fa avere tanto, ma non fa vivere bene.

La valorizzazione della spiritualità non può essere l’oggetto di una predicazione di carattere etico, tanto meno se basata sulla descrizione delle fosche prospettive di rovina che incombono sull’umanità nel caso in cui perseveri in comportamenti materialistici ed egoistici. Può essere soltanto l’esito di una metanoia generata dal vuoto esistenziale di una vita orientata unicamente alla soddisfazione dei bisogni materiali, che non solo mortificano una componente fondamentale della natura umana, ma non possono non generare frustrazione proprio per le loro caratteristiche intrinseche, che vengono presentate dai loro sostenitori come connotazioni positive: l’egoismo e l’illimitatezza. Chi si propone di far prevalere le sue esigenze e di perseguire il suo successo a scapito degli altri, non può mai fidarsi di nessuno, non conosce la serenità, non prova mai la consolazione di sentirsi accolto con benevolenza o di ricevere un aiuto disinteressato nelle difficoltà. E quando si sostiene che i bisogni materiali sono illimitati, cosa si dice se non che generano una perpetua insoddisfazione?

La spiritualità accomuna, per utilizzare la dedica che Carlo Michelstaedter premette al suo libro Il dialogo sulla salute, dove salute significa etimologicamente salvezza, «quanti […] non abbiano messo il loro Dio nella loro carriera», ma si manifesta in ogni individuo in forme diverse che, nel loro insieme, delineano un paradigma culturale alternativo a quello dominante nelle società che hanno finalizzato l’economia alla crescita della produzione di merci. In questo paradigma culturale la meditazione è più importante dell’azione, anche se l’azione non è sottovalutata – in termini evangelici si direbbe che la sensibilità di Maria prevale sull’attivismo di Marta – la contemplazione della bellezza prevale sulla ricerca dell’utilità, la durata nel tempo sull’effimero, la collaborazione e la solidarietà sulla competizione, l’attenzione nei confronti degli altri sull’indifferenza, l’equità sulle diseguaglianze tra gli esseri umani, il biocentrismo sull’antropocentrismo, le relazioni umane disinteressate sui rapporti mercantili, il tempo degli affetti sul tempo del lavoro. La tecnologia è finalizzata alla riduzione dell’impronta ecologica e non all’aumento della produttività. Le esigenze degli esseri umani sono più importanti della crescita del Prodotto interno lordo. Il progresso non implica la cesura sistematica col passato. Oltre ad avere la valenza di una rivoluzione culturale, la valorizzazione della spiritualità comporta una riduzione della domanda di merci che mette in crisi la finalizzazione dell’economia alla crescita. Non è compatibile con l’economia della crescita. Non a caso i suoi sostenitori, di destra e di sinistra, hanno fatto di tutto per sradicarla dall’animo degli esseri umani.

IL MUNUS: IL DONO CHE SI ASPETTA UNA RESTITUZIONE
Se la finalizzazione dell’economia alla crescita della produzione di merci, ha trasformato il denaro da mezzo di scambio a fine della vita degli esseri umani, la valorizzazione della spiritualità lo riconduce al suo ruolo di mezzo e restituisce valore alle relazioni umane fondate sul dono reciproco del tempo. Il dono del tempo ha un valore completamente differente rispetto al dono di cose, che è l’unica forma di dono accettabile nell’ambito dell’economia della crescita, perché comporta un aumento della domanda di merci. Il valore del dono del tempo si fonda sulla condivisione delle scelte di vita e sulla solidarietà. Il latino ha due parole per definire il concetto di dono: munus e donum. Il munus è il dono che implica una restituzione. Il donum è il dono gratuito, fatto per amore, senza aspettarsi nulla in cambio.

Dalla parola munus preceduta dalla preposizione cum, che indica il complemento di compagnia, derivano le parole comunità e comunanza, l’aggettivo comune che, sostantivato, indica l’istituzione con cui le comunità si governano, il verbo comunicare e tutte le parole derivate da queste. Le comunità sono aggregati di persone in ambiti territoriali delimitati (nel medioevo da una cinta di mura: in latino moenia), dove si definisce il loro senso di appartenenza, accomunate dalla disponibilità di donarsi reciprocamente una parte del proprio tempo sotto forma di lavoro non remunerato, di collaborazione gratuita in attività che non possono essere svolte individualmente, di condivisione e cura. Il munus è un dono che implica la fiducia reciproca tra chi lo offre e chi lo riceve, implica pertanto l’accettazione da parte di chi lo riceve e vincola a una restituzione, anche se non immediata, né strettamente equivalente, perché nel dono, anche quando non è gratuito e disinteressato, c’è sempre una componente di generosità e solidarietà.
Mentre gli scambi mediati dal denaro sono impersonali e implicano una competizione tra i contraenti – chi vende punta a ricavare la somma più alta possibile, mentre chi compra tende a spuntare il prezzo più basso – gli scambi basati sul dono reciproco del tempo implicano la conoscenza reciproca, la solidarietà e la compassione in senso etimologico (dall’unione della preposizione latina cum, che sostiene il complemento di compagnia, col verbo patior, che significa provare un sentimento), ovvero la condivisione delle paure e delle gioie, del dolore e della felicità, delle aspettative e delle delusioni. Se uno degli appartenenti a una comunità non rispetta le regole del dono e del controdono, rompe il rapporto di fiducia e si autoesclude dai legami comunitari. Benché non siano mai stati codificati formalmente, i rapporti comunitari presentano le stesse caratteristiche in tutti i luoghi del mondo e in tutte le epoche storiche. E presentano anche le stesse forme di deviazione, consistenti nella possibilità di utilizzare il dono come strumento di dominio da parte di chi è in grado di fare e fa doni così grandi che non possono essere restituiti da chi li riceve. Tuttavia deviazioni di questo tipo si possono realizzare solo in presenza di grandi diseguaglianze, che costituiscono di per sé un impedimento sostanziale alla realizzazione di rapporti autenticamente comunitari.

Oltre l’ambito degli scambi interpersonali che avvengono nel quotidiano, in alcune scadenze con una forte connotazione simbolica per la vita delle comunità, il munus assume connotazioni corali, presentandosi sotto la forma di una solidarietà collettiva che coinvolge non solo i rapporti degli esseri umani tra loro, ma anche con i luoghi del mondo in cui vivono e da cui traggono ciò di cui hanno bisogno per vivere. Si pensi ai momenti della vita contadina tradizionale in cui si raccoglievano i frutti del lavoro e dell’attesa di un anno – la mietitura e la trebbiatura del grano, la vendemmia – in cui tutte le famiglie a turno si aiutavano vicendevolmente. Momenti di solidarietà e di festa che sono finiti quando l’economia del dono è stata sostituita dalla mercificazione e i raccolti sono stati effettuati da persone pagate per farlo: contoterzisti, braccianti e giornalieri.

IL DONUM: IL DONO GRATUITO, FONDATO SULL’AMORE
Il donum sostanzia i rapporti basati sull’amore, un’intimità reciproca, una condivisione di scelte esistenziali così profonda che travalica la razionalità e si realizza col dono incondizionato del proprio tempo e delle proprie capacità alle persone amate. Un dono gratuito, che non prevede restituzioni e può assumere forme diverse senza mutare la sua sostanza. È il rapporto tra genitori e figli, tra amanti, tra persone appartenenti a una stessa comunità religiosa. È la pulsione interiore che induce a dedicare la propria vita ad alleviare le sofferenze di coloro che sono stati colpiti con particolare durezza nella psiche, nel corpo, dalle vicende della vita, da sofferenze causate dalle condizioni di deprivazione affettiva o di miseria materiale in cui sono cresciute. È la motivazione che induceva i contadini anziani a piantare alberi di cui non avrebbero mangiato i frutti, per i propri nipoti, memori di aver mangiato da bambini i frutti di alberi piantati dai loro nonni per loro.

Mentre le relazioni fondate sul munus sono inevitabilmente limitate al momento in cui avvengono, le relazioni fondate sul donum sono in grado di superare i limiti spazio-temporali che connotano la condizione umana e di creare legami tra le generazioni attraverso la trasmissione del sapere e delle opere d’arte. Il sapere è il dono delle conoscenze e delle tecniche che ogni generazione riceve dalle precedenti, conserva, integra e lascia in dono alle generazioni successive come un patrimonio da conservare, integrare e tramettere. Le opere d’arte, in tutte le loro forme – musica, pittura, scultura, architettura, letteratura – sono lasciti di bellezza e di armonia aggiunte dagli esseri umani alla bellezza e all’armonia originarie del mondo, arricchiti da ogni generazione e tramandati sotto forma di dono inevitabilmente gratuito alle generazioni successive, fino a quando la modernità ha trasformato l’arte da dono in merce, sottoponendola, come tutte le merci, alle regole della pubblicità, del prezzo, del profitto e della deperibilità.

Ha senso parlare di spiritualità, di rapporti comunitari, di dono del tempo, in questa fase storica in cui la modernità trionfante si diffonde in tutto il mondo, distruggendo le culture tradizionali che giudica sorpassate, le economie di sussistenza, che definisce sottosviluppo, i luoghi naturali e i luoghi antropizzati in epoche pre-moderne? Basta guardarsi attorno. Le aree urbane si estendono sempre di più. Grattacieli sempre più giganteschi hanno sostituito progressivamente gli edifici abitativi e gli edifici industriali dei quartieri che erano periferici prima delle grandi espansioni urbane della seconda metà del novecento, trascinando via i ceti sociali che li abitavano, smantellando le reti delle relazioni che li rendevano vivi e cancellando le fisionomie che li caratterizzavano come paesi, ciascuno con una connotazione specifica. Centri commerciali e supermercati hanno sostituito i negozi di vicinato. La mercificazione è penetrata nei rapporti più intimi. Anche le religioni hanno attenuato le loro connotazioni spirituali e hanno potenziato la vendita a pagamento di riti sopravvissuti alla perdita del senso del sacro. L’aumento del benessere materiale esaurisce le aspettative esistenziali delle persone e ha cancellato dal loro campo visivo i problemi ambientali causati dalla crescita economica. Nonostante tutto, la spiritualità sta riaffiorando e suscita un interesse più diffuso di quanto si sarebbe potuto credere, non solo come bisogno esistenziale, ma anche come elemento fondante dell’unica alternativa possibile alle due varianti del paradigma culturale dominante. Quelle di destra, che lo ritengono valido così com’è, con le iniquità che genera, perché sono funzionali alla crescita, e quelle di sinistra, che si propongono di introdurre criteri di distribuzione più equa del reddito monetario derivante dalla crescita. È difficile credere che la valorizzazione della spiritualità riesca a sostituire il paradigma culturale dominante. Consente però di trovare forme di vita più autentiche e di costruire relazioni umane più significative di quelle esclusivamente commerciali. Ed è l’unica possibilità di riaprire una prospettiva di futuro all’umanità. Per questo è importante parlarne, anche se tutto lascia prevedere che sia destinata a rimanere una prospettiva per pochi.