Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Contro il '68 (novità editoriale)

Contro il '68 (novità editoriale)

di Alessandro Bertante - 24/05/2007

Fonte: agenziax

copertina
 

Contro il '68

La generazione infinita

di Alessandro Bertante


I sessantottini autosconfitti sono stati sistemati nell’industria culturale, da dove era più facile svolgere il ruolo che i vincitori gli avevano assegnato, cioè riscrivere la storia.
dalla prefazione di Marco Philopat

Se le generazioni vanno giudicate soprattutto per l’eredità che lasciano, è davvero strano che i sessantottini siano riusciti a confondere le carte per così tanto tempo. Come è possibile che, nonostante gli anni ottanta, il berlusconismo e la Lega, i fascisti al governo, la sottocultura televisiva e il precariato eretto a sistema di gestione del lavoro, nessuno abbia ancora messo seriamente in discussione il percorso politico e la parabola esistenziale della generazione infinita? Con questo pamphlet amaro e provocatorio Alessandro Bertante, figlio di quella generazione, solleva contro il mito del ’68 i dubbi, le critiche e i rancori di chi si è trovato a fare i conti con una realtà molto distante dalle favole compiaciute che i contestatori di un tempo si ostinano a rievocare.
Prefazione
Mi chiamo Philopat e più di ogni altra cosa mi sento un personaggio dei cartoni animati; in questa veste posso permettermi di parlare liberamente del rapporto tra il sessantotto e i suoi strascichi nell’odierna industria culturale italiana. Colgo l’occasione offertami da questo provocatorio pamphlet di Alessandro Bertante.

Leggendo le pagine di Contro il ’68 sono rimasto colpito dalle frasi che spiegano la differenza che ha avuto nell’immaginario nostrano la partita di calcio Italia-Germania finita 4 a 3 durante i mondiali in Messico del 1970 (si trattava solo di una semifinale), rispetto alla vittoria finale dell’Italia, sempre sulla nazionale tedesca, nei mondiali del 1982 in Spagna. Quel trionfo inaspettato passò in sordina, mentre Italia-Germania 4 a 3 è persino il titolo di un film. La sinistra italiota si è nutrita per anni, e forse continua a farlo, delle gesta dei “messicani” Gianni Rivera e Gigi Riva, mentre gli “spagnoli” Paolo Rossi e Franco Causio sono stranamente passati nel dimenticatoio. Non che sia un appassionato di football, anzi... Ma in alcuni dibattiti mi è capitato di sollevare la questione calcistica, manco fossi Beppe Viola, parlando di un’epoca di cui per certuni era perfettamente inutile occuparsi a livello storico e per descrivere come e perché i punk si ritrovarono, proprio all’inizio degli anni ottanta, in una situazione così isolata e disperata. Nella società come nel calcio ci sono momenti ricordati e celebrati fino alla nausea, altri invece sono sistematicamente dimenticati. Infatti nessuno si è mai sognato di fare un film nostalgico sui mondiali spagnoli... Nel 1982 c’era il riflusso, il craxismo della Milano da bere, e il movimento era una tabula rasa. I punk, unici giovani bocconcini sovversivi per uno spropositato apparato di repressione poliziesca, erano barricati dentro il covo del Virus e insieme a tutta Italia gioivano per le imprese di Pablito Rossi. Alcuni di loro cominciarono in quei giorni a frequentare la libreria Calusca di Primo Moroni e a capire meglio ciò che era successo negli anni settanta. Probabilmente, se non ci fosse stato questo incontro, i punk milanesi non sarebbero riusciti ad aprire lo scrigno blindato dei cosiddetti anni di piombo. Forse, avrebbero presto pensato che ogni cosa inventata, creata e scaturita nella loro gioventù era spazzatura, merda, roba da buttare via se paragonata alle imprese sessantottarde... Appunto come una semifinale calcistica che nella riscrittura a posteriori supera di gran lunga una finale. Senza questo incontro, i punk avrebbero anche loro ingurgitato l’unica verità storica disponibile, quella scritta dai vinti su commissione dei vincitori.

Era interesse di costoro addossare l’intera responsabilità di ogni misfatto al periodo della seconda metà degli anni settanta, in particolare al movimento del ’77, di cui in questi mesi si celebra il trentennale, ricordandolo perlopiù come un tragico epilogo del sessantotto. Ma non andò così. Primo Moroni, che nel corso dei suoi ultimi vent’anni di vita non si stancò mai di organizzare dibattiti, incontri e conferenze dal titolo: “Liberiamo gli anni settanta”, nel suo libro scritto con Nanni Balestrini, L’orda d’oro, a proposito del ’77 scriveva: “in quell’anno si sommano gli effetti di una prolungata stagione di lotte operaie e di una esplosione culturale dei movimenti di rivolta dei disoccupati e dei giovani, di tutti coloro che si sentono minacciati dal nuovo assetto produttivo che si intravede all’orizzonte nel postindustriale”. Nei primi mesi del ’77, anche se a Milano il tutto fu anticipato all’estate del 1976, il tono delle lotte era ancora quello della rivoluzione dietro l’angolo, della speranza messianica, della fiducia euforica in una comunità liberata, ma nei mesi successivi, dopo l’impatto con la durezza della repressione e soprattutto con la spietata logica della competitività sul lavoro, la disoccupazione inevitabile, l’emarginazione galoppante, divenne predominante il tono disperato e autodistruttivo, il rifiuto di sopravvivere in un’epoca disumana, in cui tutti i valori della solidarietà sarebbero stati cancellati. Sempre in L’orda d’oro si legge: “In questo senso possiamo dire che il ’77 fu al contempo una sintesi degli anni sessanta e settanta e una cupa premonizione degli anni ottanta”. Questo prezioso e fragile anello di congiunzione generazionale sembra totalmente trascurato dai sessantottini che stanno riscrivendo la storia di quel decennio, anzi, in qualche modo i settantasettini sono i più vituperati, criminalizzati e infine dimenticati. Eppure, esattamente come i punk, sono esistiti e hanno portato avanti una battaglia durissima in una situazione capovolta, una lotta corpo a corpo con una società in rapido cambiamento. Poi si sono sorbiti per trent’anni i racconti di un fantastico mondo che non avevano vissuto e che non sarebbe mai più arrivato. Da qui nascono i livori dei più giovani nell’Italia dei giorni d’oggi, i figli dei sessantottini che non riescono più ad accettare una verità raffazzonata e che finalmente provano ad alzare la voce.

Per una questione anagrafica, dei fasti della stagione sessantottina i punk inizialmente conoscevano solamente i giovani settantasettini. “I punk sono i figli disperati del no future, figli inconsapevoli di un modello di produzione ormai superato, e con lui tutto il ciclo di lotte precedenti” scriveva ancora una volta Primo Moroni. Se oggi si guarda e si ascolta attentamente l’interminabile film sul festival del Parco Lambro del 1976, girato da quattro troupe di videoteppisti e da tre troupe di cinematografari coordinati da Alberto Grifi, si può notare che, nonostante il look e l’abbigliamento siano diversi, gli sproloqui e le argomentazioni allucinogene dei partecipanti al festival si avvicinano sorprendentemente a quelle dei punk: rifiuto del lavoro, centralità del soggetto desiderante, crisi della militanza e della forma partito. Soprattutto esprimevano preoccupazione per un futuro che senz’altro sarebbe stato radicalmente diverso, non solo da quello dei padri, ma anche da quello dei loro fratelli maggiori... E così fu... Se oggi i sessantottini, indipendentemente da dove si collocano, destra o sinistra, sono ai vertici dell’industria culturale italiana, per i pochi settantasettini sopravvissuti non ci sono nemmeno le briciole. I vertici della politica di sinistra invece sono rimasti saldamente in mano alla classe dirigente precedente al sessantotto. Per fare qualche esempio si può parlare di D’Alema, allora dirigente della Fgci, e quindi dall’altra parte della barricata, o di Fassino, che nella sua tragicomica autobiografia afferma di non avere vissuto il sessantotto in quanto, dopo la morte prematura del padre, si era dovuto sobbarcare le responsabilità di un adulto. O ancora di Veltroni, che probabilmente allora faceva il chierichetto, magari a fianco a un prete rosso, ma pur sempre un chierichetto. I sessantottini autosconfitti sono stati quindi sistemati nell’industria culturale, da dove era più facile svolgere il ruolo che i vincitori gli avevano assegnato, cioè riscrivere la storia. Qualcuno ha mantenuto una sfumata apparenza degli antichi valori, altri, i più cinici, si sono trasferiti a destra. Nessuno di loro aveva probabilmente capito un film americano di quel periodo, amato sia dai punk sia dai settantasettini: I guerrieri della notte.

“Gli uomini che hanno il potere sono coloro che ci hanno spinto uno contro l’altro.” Sono le parole della scena iniziale del film, con cui il capo della gang dei Riff, Cyrus, arringa le migliaia di ragazzi delle bande di strada dei diversi quartieri di New York. Frasi semplici e dirette: allearsi per opporsi all’oppressione e alla violenza poliziesca; combattere i padroni del potere e conquistare la città intera. E qui ci sono dei paralleli con la celebre speranza della rivoluzione dietro l’angolo che mosse i giovani ribelli italiani all’alba del 1977. Al termine del comizio, Cyrus viene ucciso da alcuni traditori e i Guerrieri saranno ingiustamente accusati dell’omicidio. Anche i settantasettini erano, già allora, i capri espiatori di una tragedia che coinvolgeva l’intera società e come i Guerrieri si sentivano braccati, senza scampo. Le manifestazioni che si susseguivano ogni sabato si svolgevano in un clima di conflitto aperto. La notte, i ragazzi tornavano in quartieri che già si stavano riempiendo di masse amorfe e teledipendenti che chiedevano più sicurezza e di cui proprio oggi, almeno a Milano, vediamo dispiegarsi i cortei bipartisan. Erano braccati, ma non volevano arrendersi a un futuro così di merda. Il lungometraggio della storia però non ebbe un lieto fine come in I guerrieri della notte, i nostri Guerrieri furono semplicemente lobotomizzati, chi nelle galere, chi nel riflusso e in tantissimi con l’eroina. Il cambio repentino del modello produttivo, l’improvviso declino della grande fabbrica fordista e di tutto il ciclo di lotte operaie collegato, causarono profonde lacerazioni nel precario equilibrio delle forze di opposizione gettando le basi per l’imposizione del nuovo ordine sociale che si sarebbe dispiegato negli anni a venire. Le responsabilità di tutto ciò non vanno certo ricercate in qualche migliaio di giovani resistenti che si opponeva tale ordine. Arrivò poi la grande ristrutturazione e i punk gridarono il no future. Giunse il mercato globale e i centri sociali divennero fragili case del popolo. Arrivarono infine i ministri del culto televisivo, l’espansione dell’impero e la ridefinizione della proprietà privata e tutto si fece silente... Tranne le rinnovate genuflessioni culturali della generazione infinita sul tipo: “che bello il ’68, quanto è brutto il ’77”. Evviva l’ondata creativa, abbasso la violenza. Scordandosi a priori le contraddizioni interne innescate da molti fattori. Uno su tutti: la strategia della tensione.

Queste dinamiche revisioniste producono, oltre a incazzosi pamphlet come questo, ricadute sociali devastanti. Non mi sono stupito quando un amico mi ha detto che negli Stati Uniti molti neocon o newcon avevano militato a sinistra del partito democratico. In Italia la situazione è più drammatica che in ogni altro paese occidentale proprio perché la classe dirigente a sinistra è ancora quella presessantottina, mentre la destra ha cavalcato a modo suo quel terremoto sociale, a partire dalle televisioni berlusconiane che nacquero anche grazie alla liberalizzazione ottenuta dopo la grande intuizione del movimento sulle radio libere. Se la storia si dissolvesse, se fosse possibile abbandonarsi alla vertigine della caduta da un precipizio, una volta atterrato con le ossa spezzate mi verrebbe in mente la parabola di Lotta Continua. Questa organizzazione ebbe la grande capacità di coinvolgere migliaia e migliaia di giovani arrabbiati nelle tematiche del movimento, ma dal 1975, soprattutto in Nord Italia, la sua spinta creativa inesorabilmente rallentò, fino al definitivo stop del 1976. “Liberiamo Sofri per liberarci di Sofri” si ostinava a dire Moroni nelle sue innumerevoli conferenze verso la metà degli anni novanta. Lotta Continua, che era piena zeppa di cani sciolti di origine proletaria e sottoproletaria, dapprima venne messa in crisi dal compromesso storico e dalla conseguente legge Reale, poi esplose sulla contraddizione posta dalle donne al convegno di Rimini del 1976; da allora, parte di questi cani sciolti si riversarono nell’autonomia diffusa, in quello che in seguito sarà chiamato il movimento del ’77. Cos’altro avrebbero dovuto fare? Il quotidiano “Lotta Continua” virò improvvisamente da giornale di movimento e bollettino delle lotte operaie a giornaletto delle “lettere”, dell’“intimismo”. Caro psic si chiamava la rubrica più letta... Travolti dal libertarismo più sfrenato, che scivolava sempre più nel liberismo, alcuni giornalisti e redattori della testata iniziarono in quei mesi lo scavallamento a destra, e alcuni entrarono poi alla corte di Giuliano Ferrara, come per esempio Andrea Marcenaro e Carlo Panella. Sono andato nel sito di quest’ultimo e nella spassosa ricostruzione autobiografica intitolata “Breve viaggio nella vita di Carlo Panella”, egli ammette: dopo il congresso di Rimini “partecipo alla trasformazione di ‘Lotta Continua’ da giornale di partito in un quotidiano quasi normale”. Quasi normale? Visti i titoli dei suoi ultimi libri – L’antisemitismo islamico da Maometto a Bin Laden e Il libro nero dei regimi islamici – forse la normalità al giorno d’oggi è quella di fomentare ancora di più la guerra fra i poveracci nelle periferie delle grandi città, da una parte i migranti lavoratori stipati in cinque o sei in un monolocale e dall’altra le masse catodiche con il loro bisogno di sicurezza. Una bella svolta per Panella che era partito in gioventù organizzando occupazioni di case per gli immigrati italiani in Germania. Una svolta che rischia di perpetuarsi di generazione in generazione, se non si riuscirà a porre un freno a quelle che Bertante chiama “esaltazioni mitopoietiche” prive di ogni qualsivoglia contraddizione, visioni edulcorate di ciò che è avvenuto portate avanti da ex di Lotta Continua che votano ancora a sinistra. È il caso di La meglio gioventù. Anche se il regista Marco Tullio Giordana forse non era di Lc, uno fra gli ex più in vista, Enrico Deaglio, ha pubblicato un libro con lo stesso titolo. Un elenco di 3000 piccole biografie dei protagonisti della contestazione di allora, che esclude tutti i violenti e i picchiatori, per esempio Andrea Bellini. Ma è indubbiamente il film a dare l’impressione peggiore. Verrebbe voglia di considerare La meglio gioventù come una parodia di quei tempi, ma presto ci si accorge di non poterlo fare, anzi sembra proprio che gli autori e il regista abbiano tentato di ricreare a tutti costi una storia universale idonea a rappresentare un’epoca intera. Ma quanti sono stati i compagni ponderati, ragionevoli e sempre sorridenti come Lo Cascio? Perché mettere in scena una moglie borghese un po’ psicopatica e che, guarda caso, entra nelle formazioni combattenti, quando per ogni militante dei gruppi clandestini almeno mille sono crepati di eroina o in qualche altro inferno metropolitano? E le droghe, perché sono completamente assenti?

Naturalmente, non tutti coloro che hanno vissuto quello straordinario decennio hanno preso direzioni simili. Si potrebbero fare dei distinguo, ma sono in molti quelli che partendo nel sessantotto con in testa la frase: “Perdo tutte le mie certezze e vado incontro a qualcosa di ignoto” continuano a battersi tuttora nel tentativo di demistificare alcune di queste orribili verità storiche. Sono questi lampi di luce che illuminano e bruciano il buio di passioni del nostro presente. Un eccesso di vita, un pensiero che riesce a ritrovarsi solo mettendo in discussione tutto ciò che ci circonda, un desiderio di viversi le situazioni fino in fondo, una passione talmente forte da rimbombare dentro. Sono voci fuori dal coro, fuori dal mondo delle apparenze e dello spettacolo con le sue lusinghe sempre più tenaci. Voci che purtroppo non riescono ad arrivare ovunque. In questo libro, Alessandro Bertante se la prende con la generazione dei propri genitori: “Davanti a ogni mia scelta un poco ardita loro avevano la pretesa e la sincera convinzione di averla già fatta, e meglio, con più entusiasmo e partecipazione”. Viene in mente il titolo del celebre libro del militante dell’underground americano degli anni sessanta, Jerry Rubin: Quinto: uccidi il padre e la madre, pubblicato in Italia da Arcana Editrice nel 1976 con un’introduzione di Antonio Negri. Si tratta di affrontare in modo radicale l’avversario più subdolo, il proprio ego. E se da una parte c’è sicuramente l’incapacità di affrontare questo passo, dall’altra c’è un muro di gomma costruito da quella generazione infinita che non è disposta a rimettersi in gioco né tantomeno a farsi da parte. Agenzia X ha creduto importante dare voce alla rabbia di un figlio di sessantottini che finalmente ha deciso di scrivere il proposito di uccidere padre e madre. D’altronde non siamo ancora riusciti a uccidere vero il padre padrone che domina la cosiddetta sinistra nostrana. “In Italia quasi la metà dei delitti viene consumata in famiglia. A questa regola non sono sfuggite le grandi famiglie della politica italiana. Nel 1977 la famiglia della sinistra uccise suo padre, il Partito Comunista Italiano. Un delitto a lungo cercato.” Comincia così, riferendosi alla cacciata di Lama dall’Università La Sapienza, il libro di Lucia Annunziata appena uscito: 1977. L’ultima foto di famiglia; tuttavia, come abbiamo visto in precedenza, i vari D’Alema, Fassino e Veltroni sono assai vivi e vegeti! Il fatto è che questo delitto la nostra società non lo ha ancora compiuto, con tutte le tragiche conseguenze che ciò si porta dietro. Non successe con l’insurrezione contro il governo Tambroni nel 1960, non bastò lo schiaffo che Primo Moroni sferrò all’allora presidente della Fgci, Achille Occhetto, dopo la morte di Ardizzone nel 1962. Evidentemente non riuscirono a farlo le barricate del maggio francese, considerato che quelle violenze sono in molti oggi a nasconderle dietro un triangolo incestuoso condito da Buster Keaton e Charlot, come nell’ultimo film di Bertolucci The Dreamers. “E noi che aspettavamo Novecento. Atto terzo per scatenare la rivoluzione, visto che all’Atto secondo eravamo riusciti a sfondare in ottomila i cinema dove veniva proiettato?” potrebbe dire un redivivo settantasettino milanese...

Sempre nel libro dell’Annunziata, a pagina cinquanta, è riportato il succo del discorso di Adriano Sofri al convegno di Rimini. “Il Pci ha legittimato la ristrutturazione capitalistica dei padroni, trasformandosi in uno strumento di costruzione del consenso operaio; il movimento studentesco è finito; il Pdup è solo una piccola organizzazione fiancheggiatrice, e anche Lotta Continua non ha più certezze. L’unico modo per sopravvivere è ‘vivere con il terremoto’.” Ed è difficile pensare che un’organizzazione del genere dopo queste frasi poté credere di diventare una sorta di ultima cerniera della spaccatura del ’77, tesi di fondo dell’intero libro dell’Annunziata. Forse a Roma e al Sud, ma al Centro e certamente in Nord Italia, dopo il ’76, non ci fu nessun mediatore possibile. Il terremoto si ingoiò la stragrande maggioranza militanti di Lotta Continua. Insomma, non ci fu alcun parricidio, il ’77 attentò alla vita del sessantotto e fallì. Alcuni intellettuali graziati da quel fallito attentato furono messi al lavoro per riscrivere la storia a uso e consumo dei vincitori presessantottini. Semmai, fu un figlicidio, una parola che nemmeno esiste in lingua italiana... Vorrei andare avanti a commentare 1977. L’ultima foto di famiglia partendo da quando il professor Asor Rosa, personaggio chiave nella ricostruzione dell’autrice, afferma che “l’alleanza tra conservazione e disgregazione sociale può apparire strana, ma non impossibile”. Ma dove, mi viene da gridare! È una bufala questa! Conservazione di chi? Del Pci! Disgregazione sociale di chi? Dei giovani settantasettini! Un serpente che si mangia la coda, con la generazione infinita a ficcargliela ancora più profondamente in gola. Infatti qualche amico ricorda che sul muro della sapienza apparve la scritta a spray: “Asor Rosa, un palindromo vivente”. Ebbene, dalle ceneri del ’77 nacque il movimento punk italiano che, seppure con livelli di scontro e obbiettivi molto diversi, riuscì a riattivare il filo rosso della storia dei movimenti dando vita alla stagione dei centri sociali.

Da un certo punto di vista, noi punk siamo stati più fortunati dei giovani cresciuti dopo. Almeno non abbiamo subito così pesantemente l’influenza culturale della generazione infinita, i nostri genitori non avevano vissuto quell’epoca, dopo il 1977 i pochi compagni che solcavano le strade del dissenso ci avevano ben istruiti, eravamo in qualche modo vaccinati e ogni nuova proposta di truffa mediatica per salvare capra e cavoli di una storia scomoda la sapevamo ormai riconoscere al volo. Per i nati negli anni settanta e ottanta non è andata così bene, immagino sia diventato insopportabile sentire parlare di sé come della generazione dei mammoni, degli eterni adolescenti, degli inconcludenti che non se ne vanno di casa. Per questo il libro di Alessandro Bertante è scritto con livore e rancore, polemico nei confronti di chi ha nascosto o mistificato le ragioni e gli avvenimenti della contestazione del sessantotto raccontandola come momento irripetibile, come se fosse stato l’ultimo possibile periodo rivoluzionario dell’umanità. In realtà, se si procede nell’osservazione dal basso dei moti rivoluzionari nel corso dei secoli, si noterà che le azioni e i pensieri di uomini e donne, strenui oppositori delle classi dominanti, sono quasi sempre invisibili per la storiografia ufficiale. E nonostante siano soggetti colpiti duramente dalla repressione, dal ceppo del boia, dal patibolo, dalle torture e dalle stanze afone al neon dell’isolamento carcerario, sono coloro che hanno modellato più in profondità la storia del nostro mondo. L’Idra dalle molte teste che nella mitologia Ercole aveva il compito di annientare era “il simbolo antitetico idoneo a rappresentare il disordine e la resistenza, una potente minaccia all’edificazione dello stato, del impero, del capitalismo” scrivono Peter Linebaugh e Marcus Rediker nel loro bellissimo libro I ribelli dell’Atlantico. La storia perduta di un’utopia libertaria. Da ogni testa mozzata dell’Idra ne nascevano altre due, poi quattro, poi otto. Una moltitudine di teste che per i nuovi padroni del Seicento e del Settecento rappresentava la difficoltà di imporre l’ordine su sistemi di forza-lavoro sempre più globali. Le nuove protuberanze del mostro appartenevano, fra i tanti, anche agli schiavi a contratto, ed è questa la condizione lavorativa attuale di molti figli di sessantottini, per lo meno di coloro che non si sono genuflessi a loro volta. “Presto [le teste] svilupparono al loro interno nuove forme di cooperazione contro i padroni: dall’ammutinamento, allo sciopero, alla sommossa.” Perciò il significato del mostro fu ribaltato dagli oppressi: “L’Idra divenne un mezzo per sfruttare la molteplicità, il movimento e la connessione, le onde lunghe e le correnti planetarie dell’umanità”. Per fermare tali correnti non bastano certo dei grilli parlanti prezzolati. Non crediamo che Contro il ’68 sia una nuova testa dell’Idra, ci auguriamo soltanto lo sviluppo di un dibattito atto a impedire, nella prossima celebrazione del quarantennale, l’ennesima e fantozziana trasmissione televisiva della partita Italia-Germania 4 a 3.

Marco Philopat

Alessandro Bertante giornalista e scrittore, collabora con “la Repubblica” e “Pulp”. Ha pubblicato Malavida per Leoncavallo Libri e Re Nudo per Nda Press.