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Lo "pseudo compost" di Bologna

di Alessandro Iacuelli - 07/07/2007

 
 

Gli illeciti ambientali nel settore dei rifiuti tossico-nocivi sbarcano di prepotenza, in tutta la loro drammaticità, anche in Emilia Romagna. Ad entrare in azione è stata stavolta la Procura della Repubblica presso il tribunale di Bologna, con 5 ordinanze di custodia cautelare, 11 decreti di sequestro per altrettante società e 15 decreti di perquisizione. In totale sono 47 le persone coinvolte nell'inchiesta condotta dal pm bolognese Antonio Guastapane. Duecento i carabinieri impegnati fra Emilia Romagna, Veneto, Friuli Venezia Giulia, Lombardia e Toscana. L'operazione, denominata "Pseudocompost", ha portato alla luce un giro d'affari di otto milioni di euro. L'indagine è partita da alcuni accertamenti sulla Sineco, società di smaltimento di rifiuti industriali, anche tossici, con sede a Castenaso, alle porte di Bologna. Ad avviare l'attività illecita sarebbe stato il titolare che, anziché smaltire regolarmente le scorie, con costi elevati, le avrebbe destinate illegalmente ad attività di recupero, molto meno onerose e con sorprendenti nuovi guadagni: ai costi di messa in sicurezza dei rifiuti smaltiti, ha sostituito gli introiti dovuti alla vendita di quegli stessi rifiuti come fertilizzanti. I rifiuti sarebbero così finiti in altri impianti di compostaggio, fra Castel S.Pietro, sempre a Bologna, e le province di Ferrara e Pavia.

Successivamente, il titolare della Sineco ha ceduto l'azienda, per continuare l’attività come semplice intermediario, costituendo la Interservice, una società che si limitava a contattare le aziende con l'esigenza di smaltire fanghi industriali, proporre prezzi concorrenziali, prelevare i rifiuti e rivenderli come sostanze recuperabili. Parte dei rifiuti pericolosi finivano, come compost e tramite una società del mantovano, la Bioindustrie di Goito, in tre terreni adibiti alla coltivazione di pere: due a Malalbergo, nel bolognese, e uno nelle campagne di Ferrara.

Se stavolta il traffico è stato fermato prima che il raccolto delle pere venisse venduto, nulla si è potuto fare per i raccolti precedenti, per cui nonostante i comunicati poco allarmistici da parte dei carabinieri del Nucleo Operativo Ecologio, si può ragionevolmente supporre che vari raccolti di pere siano stati già consumati da ignari cittadini. In manette gli imprenditori bolognesi Angelo Farinelli e Roberto Lelli, presidente e direttore generale dell'azienda di Castenaso.

Perquisizioni e sequestri sono avvenuti anche in società, aziende di trasporto e impianti a Copparo (Ferrara), Osteria Grande e Sala Bolognese (Bologna), Rimini e Pavia. Le ipotesi di reato sono associazione per delinquere finalizzata al traffico illecito di rifiuti pericolosi. Si stima che siano state oltre 800.000 le tonnellate di rifiuti pericolosi e tossico-nocivi, declassificati, usati nei campi e nei frutteti come compost.

Per realizzare l'illecito, le scorie industriali venivano declassificate, mediante una tecnica propria delle ecomafie, e spacciate per innocui fertilizzanti. Ad occuparsi materialmente di cambiare i codici dei rifiuti sarebbe stata, secondo i carabinieri, un'impiegata ventottenne specializzata proprio nel declassificare i rifiuti, la napoletana Maria Rosaria Cavallini, considerata in grado di assegnare ai rifiuti, grazie ad analisi di laboratorio palesemente contraffatte, codici identificativi non connessi alla loro origine o provenienza, ma anche alla loro reale natura.

Fino a pochi anni fa, queste tecniche di smaltimento illecito erano proprie delle regioni a tradizionale presenza mafiosa. Nel corso di questo 2007 che per l'Italia si presenta come un anno nero, dal punto di vista ambientale, i casi verificatisi in Abruzzo, Toscana, Veneto, Lazio e, stavolta, a Bologna dimostrano come tali tecniche siano state in qualche modo "esportate" dal mondo mafioso a quello imprenditoriale.

Probabilmente, presto anche il termine "ecomafia" dovrà andare in pensione: la rapida espansione del fenomeno a tutta l'Italia indica chiaramente che non sono più solo le mafie a smaltire rifiuti tossici nelle campagne e nelle cave. Le cronache mostrano con evidenza come la volontà di massimizzare i profitti, minimizzando i costi di smaltimento dei rifiuti nocivi, sia diffusa ampiamente tra gli industriali e gli imprenditori italiani.