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Travaglio interiore e visione salvifica nelle Confessioni di S. Agostino

di Francesco Lamendola - 12/07/2007

 

  

Le «Confessioni» di S. Agostino sono una delle opere di più sconcertante modernità che l'antichità ci abbia lasciato."

"Esse sono innanzitutto l'analisi del travaglio interiore che dopo una giovinezza dissipata è sfociata nella conversione; il titolo stesso - «Confessiones», cioè confessione dei peccati e lode a Dio- sottolinea il carattere ambivalente di questa autobiografia: l'autore, nel ripercorrere il suo passato, si rivolge direttamente a Dio per glorificarne la misericordia, che ha avuto ragione della sua protervia nel peccare.

"Agostino stese le «Confessioni»nei primi anni del suo episcopato, tra il 397 e il 398. Cioè molto dopo la conversione, che era avvenuta nel 386. Lo spunto gli venne dalla necessità di rispondere a quanti lo criticavano per il suo passato manicheo, ma la complessità dell'opera è tale che solo un motivo per più profondo può averla ispirata. Egli stava entrando nell'età di mezzo re da un anno era assorbito dai nuovi compiti richiesti dalla propria assunzione  alla cattedra vescovile di Ippona. L'ottimismo iniziale della sua conversione era scomparso di fronte alla difficoltà dei compiti imposti dalla milizia cristiana. L'ideale ascetico di una vita da trascorrere nella meditazione era stato accantonato e Agostino era diventato, come egli stesso dichiara, un uomo «profondamente impaurito dal peso dei propri peccati». Le diverse prospettive che gli si affacciavano, nel quadro di questo intenso travaglio interiore, richiedevano perentoriamente un riesame di quella parte del proprio passato che era culminata nella conversione. Ecco quindi il tono di ansioso ripiegamento sui propri anni trascorsi e sulle possenti emozioni di allora, che le necessità del presente hanno allontanato ma non distrutto e che ancora traspaiono al di là dei nuovi sentimenti scaturiti dalla professione vescovile."

 

                                                                    B. Gentili- E. Pasoli- M. Simonetti

                                              «Storia della letteratura latina», Bari, 1979, p. 456

 

 

 

 

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Dei tredici capitoli che formano le Confessiones, composte verso il 397-98, i primi ove costituiscono l'autobiografia vera e propria, culminante nella conversione e, qualche tempo dopo, nella morte dell'amatissima madre Monica, che venne sepolta ad Ostia. Gli ultimi quattro sono, in effetti, libri di filosofia, nei quali S. Agostino tocca alcuni dei temi più ardui del pensiero umano, dal mistero della memoria, al mistero del tempo, alla creazione dal nulla, alla bontà divina. Si tratta di un'opera fortemente strutturata ma, al tempo stesso, originalissima: si può dire che Agostino abbia creato un nuovo genere letterario, che non esisteva nelle culture antiche (né in quella greca né nella latina); e in quel genere il suo libro è rimasto insuperato, perché né il Secretum di Petrarca, né le Confessioni di Jean-Jacques Rousseau, né altre opere moderne dello stesso genere l'hanno uguagliata in potenza e vigore drammatico. Inoltre, così come nessun autore prima di Agostino aveva scandagliato il mistero della propria anima con una tale profondità e sistematicità, con una tale assoluto sforzo di sincerità e di verità, così nessuno è stato capace di fondere armoniosamente il racconto autobiografico, e sia pure prevalentemente di una biografia interiore, con pagine di altissima meditazione filosofica e spirituale.

 

N: B: Ci serviamo, per la citazione dei passi di S. Agostino, della traduzione di carlo Vitali nell'ormai classica edizione delle Confessioni a cura di una fra i massimi conoscitori di questo Autore e dell'età sua, Christine Mohrmann (Milano, Rizzoli, 1958, 1975).

 

 

LIBRO PRIMO

 

La prima parte del primo libro (capitoli I-V) è una parte a sé: si apre con una lode ed invocazione a Dio, fra le più solenni e commoventi che mai siano state scritte, e prosegue con una riflessione sul mistero del rapporto fra l'anima e Dio. In effetti, per Agostino Dio è nell'anima e l'anima in Dio; ma Dio è anche presente in tutto l'Universo, che pure non lo può contenere, poiché Egli è infinito: sgomenta solo il fatto di parlarne, eppure, guai a quelli che non parlano di Lui! L'uomo non è altro che un continuo anelito verso il suo Creatore: anelito che sarebbe vano, se non venisse soccorso dalla Sua infinita misericordia.

 

"Grande sei, o Signore, degno di somma lode; grande è la tua potenza, senza limiti la tua sapienza. L'uomo vuol Cantare le tue lodi, l'uomo, particella della tua creazione, che porta seco il peso della sua natura mortale, del suo peccato, la certezza che Tu resisti ai superbi. Eppure l'uomo, particella della tua creazione, vuol cantare le tue lodi. Tu lo sproni, affinché gusti la gioia del lodarti, poiché ci hai creati per Te e il nostro cuore non ha pace fino a che non riposi in Te. Dammi grazia, o Signore, di conoscere appieno se prima ti si debba invocare o lodare; se la conoscenza di Te debba precedere l'invocazione.

"Ma chi ti invoca se prima non ti conosce? Chi non ti conosce potrebbe invocare una cosa per un'altra. O non piuttosto ti si invoca per conoscerti? Ma «Come si invocherà colui in cui non si crede? E come si può credere senza qualcuno che ti faccia conoscere?» «Loderanno il Signore coloro che lo cercano».  Cercandolo, infatti, lo troveranno, e, trovatolo, lo loderanno.

"Signore, io ti cercherò invocandoti, e ti invocherò credendo in Te, poiché Tu ti ci sei fatto conoscere. Te chiama la fede che mi desti, la fede che mi inspirasti per il tuo Figliuolo incarnato, per il ministero del tuo banditore."(…)

"Forse che il non amarti è piccola calamità? Ahimé! Per la tua misericordia, mio Signore e mio Dio, dimmi che cosa sei per me. Dillo all'anima mia: «Io sono la tua salvezza». Così, così dillo, che io intenda. L'orecchio del mio cuore è qui, davanti a Te: aprilo e ripeti alla mia anima: «Io sono la tua salvezza». Verrò correndo dietro tal voce e ti raggiungerò. Non nascondermela la tua faccia! Morirò pur dio vederla, affinché io non muoia! Angusta casa è l'anima mia perché ti possa accogliere: e Tu amplificala. Cade in rovina, e Tu riparala: lo confesso, lo so. Ma chi altri potrebbe mondarla? A chi altri se non a Te alzerò la mia voce: «Purificami, Signore, dai miei peccati occulti, e tieni lontano il tuo servo dai peccati altrui»."

 

Inizia il racconto della vita di s. Agostino, con uno sforzo supremo per strappare il ricordo dei primissimi mesi di vita, quando le tenebre dell'inconsapevolezza offuscano le facoltà e la memoria retrospettiva. Ma subito, fin da questa prima pagina autobiografica, vi è una  netta prevalenza della riflessione sul mistero di Dio, creatore sapiente di ogni essere vivente. Poi una domanda inquietante: prima di nasce fui qualcosa, fui qualcuno? Domanda troppo ardua, e destinata a rimanere senza risposta. Non resta che rendere gloria a Dio, che nella sua infinita bontà contiene ogni cosa e la conduce all'esistenza (cap. VI). Questo andamento meditativo, che intreccia e sovrappone continuamente i due piani del ricordo personale e della riflessione filosofica e teologica, sarà caratteristico dell'intera opera.

Fin dalla più tenera infanzia, Agostino non trova nel bambino - e quindi in sé stesso bambino - che miserie, capricci e tendenza alla prevaricazione: lacrime per ottenere qualcosa, volontà di colpire con violenza chiunque gli si opponga. E tuttavia il tono prevalente non è di condanna o disprezzo per le debolezze della natura umana, ma di confidente e stupita ammirazione per la generosità del soccorso divino, della divina sapienza che volge al bene ogni cosa. Infine Agostino rinuncia a tentare di ricostruire gli anni della primissima infanzia: che rapporto vi è tra essi e il presente, se il ricordo di essi è totalmente caduto dalla memoria? Uno psicanalista freudiano non sarebbe certamente d'accordo con una tale affermazione; e, poiché la cultura contemporanea è largamente permeata di freudismo, ecco che le Confessioni entrano subito in urto con un aspetto importante della odierna concezione della vita. Eppure avevamo parlato di assoluta modernità di quest'opera di S. Agostino. In realtà, non c'è contraddizione: un'opera non è "moderna" perché asseconda tutte le tendenze (e magari le mode) della cultura dei nostri giorni, ma perché rispecchia le inquietudini e il senso di sdoppiamento dell'io che caratterizzano la modernità: quel duplice io che vuole, allo stesso tempo, cose contrastanti, e che si sente lacerato e infelice perché ha smarrito il senso della propria unità originaria.

Alla prima infanzia segue la puerizia, caratterizzata dalla pronuncia delle prime parole (cap. VIII), dal gioco e dai primi castighi corporali, inflitti  dal maestro - all'uso romano - perché il piccolo Agostino amava la palla più dei libri (cap. IX). Qui l'Autore svolge una breve riflessione sulle incongruenze dell'educazione, incentrata sulla retorica che insegna l'arte del parlare ornato, ma somministra agli alunni vuote storielle mitologiche (cap. X). Guarito da una grave malattia, Agostino viene preparato a ricevere il battesimo che, però, viene differito. Qui ci vengono presentati i genitori: la madre, credente e tutta rivolta all'educazione cristiana del bambino; e il padre che, pur essendo ancora pagano, lascia fare: figura secondaria, mentre a giganteggiare è, sin da ora, Monica, presentata come esempio perfetto di madre cristiana (cap. XI). Crescendo, l'amore di Agostino per lo studio non aumenta: gli adulti ve lo costringono, e fanno bene; ma il suo cuore è ribelle (cap. XII). È pur vero che i metodi educativi dell'epoca, e specialmente l'assiduo insegnamento dei poemi classici, allontanano da ciò che importa nella vita, che è essenzialmente scoprire e amare Dio: ma proprio a quelle cose il piccolo Agostino si appassiona. S'incanta e sogna davanti alle peregrinazioni di Enea nel Mediterraneo, leggendo l'Eneide di Virgilio; mentre detesta con tutte le sue forze la matematica (cap. XIII).

Segue una acuta osservazioni pedagogica. Da piccolo, Agostino adorava la lettura di Virgilio tanto quanto aborriva quella di Omero; probabilmente, egli osserva, per i bambini sarà la stessa cosa, quando vengono costretti a studiare il latino, come lui lo era a studiare il greco (cap. XIV).

 

"La difficoltà, proprio la difficoltà di imparare a fondo   una lingua straniera aspergeva per così dire di fiele la greca soavità di quei racconti fantastici. Non intendevo nessuna di quelle parole e mi si stava addosso senza pietà, con gravi minacce e castighi, affinché le imparassi. Anche del latino, da bambino, non ne conoscevo punte, eppure le appresi con la sola attenzione, senza paura delle battiture, anzi fra le carezze delle nutrici, gli scherzi del sorriso, l'allegria dei compagni di giuoco. Le imparai senza essere gravato dall'incubo di castighi, stimolato invece dal mio intimo ad esprimere i miei concetti: il che non avrei potuto fare se non avessi preso familiarità con alquante parole, non dai maestri, ma da tutti quelli che parlavano; e nelle loro orecchie alla mia volta io partorivo quello che era in me.

"Di qui appare chiaro che ha maggiore efficacia, nell'apprendere,  una curiosità volontaria che non una costruzione intimidatoria…"

 

Dopo aver rivolto un'ardente preghiera a Dio, perché quanto di buono ha appreso nell'infanzia sia ora volto al suo servizio (cap. XV), Agostino si scaglia di nuovo contro i metodi d'insegnamento basati sulle opere classiche: da essi il fanciullo impara a vedere nelle divinità (Giove, Giunone, ecc.) continui esempi di passioni sfrenate e carnali, ciò che lo allontana irrimediabilmente da una retta comprensione del divino (cap. XVI). Egli non se la prende, si badi,, contro il contenuto di verità di quelle storie: già Cicerone, più di quattro secoli prima, le aveva messe in ridicolo, affermando che solo le vecchiette superstiziose vi prestavano ancora fede; ma contro il pernicioso influsso che quegli esempi compiaciuti di libidine e di violenza non potevano non esercitare nell'ambito, di per sé tanto delicato (perché non sorretto dalla capacità di giudizio critico) della vita morale del fanciullo. Vano è anche, sul piano strettamente pedagogico, un insegnamento basato quasi interamente su vane esercitazioni letterarie, dove si acquista la padronanza delle parole ma non delle cose (cap. XXVII); e inutile è lo sfoggio della retorica che, per di più, allontana dalla contemplazione della verità, ossia del divino (cap. XVIII).

Contro la tesi di una innata innocenza infantile, poi, l'Autore evidenzia in modo addirittura impietoso le colpe e i difetti propri dell'infanzia. Rievocando la sua infanzia, difatti, egli trova che pur di vincere nei giochi, non esitava a ricorrere all'inganno; e, se veniva scoperto, passava alle mani: proprio lui che era così sollecito nel denunciare il comportamento scorretto degli altri. Inganno, falsità, violenza, egoismo: ecco emergere tutti i difetti che, nel bambino, si notano di meno che nell'adulto solo perché, pensiamo noi, si esercitano in una sfera meno "seria" e perché generalmente vengono scusati dal non raggiunto possesso della ragione (cap. XIX).

 

"Codesta dunque l'innocenza infantile? No, Signore, no, mio Dio, essa non esiste. Perché queste frodi che si cominciano con pedagoghi e maestri, o per noci, palline e passerotti, coll'andar degli anni sono proprio le stesse che si tendono ai governatori, ai re, e che hanno per oggetto oro, poderi, schiavi: così come la sferza cede il posto a castighi più gravi"

 

Da ultimo Agostino leva un rendimento di grazie a Dio, Signore e Creatore dell'universo, che attira tutti gli esseri verso la verità che in Lui risiede.

 

 

LIBRO SECONDO

 

Amaro è il ricordo dell'adolescenza, anche se mitigato e addolcito dalla consapevolezza della infinita grazia divina (cap. I).

 

"Voglio ricordare le turpitudini del mio passato e la corruzione carnale della mia vita; non già che le ami, ma per amar Te, o mio Dio. Per amor del tuo amore mi accingo a rievocare il mio cammino nelle vie del peccato, ricordo pieno di amarezza, affinché Tu mi colmi della tua dolcezza, dolcezza non fallace, dolcezza felice e sicura…"

 

La forza degli istinti ribolle nell'animo di Agostino giovinetto, la sua natura di africano sensuale ed eccitabile lo sospinge versi i piaceri materiali della vita. Egli ha ben sintetizzato l'elemento fondamentale della sua indole con la sua famosa frase: «Una sola cosa mi sorrideva: amare ed essere amato». All'età di sedici anni, Agostino cade nella lussuria, nell'indifferenza degli adulti, preoccupati solo di fare di lui un oratore elegante e di successo (cap. II).

In quell'anno lascia Madaura, dove aveva iniziato gli studi e ritorna dai suoi nella natia Tagaste, per prepararsi a un soggiorno di studio a Cartagine, "suggerito più dall'ambizione che non dalle possibilità economiche di mio padre, modesto cittadino di Tagaste". Il periodo trascorso in famiglia nell'ozio temporaneo rinfocola le inquietudini e le disordinate passioni del ragazzo; il padre se ne accorge, ma invece di impensierirsene, se ne compiace, "quasi già rallegrandosi dei nipoti futuri". Nemmeno la madre, cristiana ancora piuttosto tiepida, mostra di preoccuparsene, ad esempio suggerendogli di avviarsi al matrimonio (cap. III). Segue il racconto del famoso furto notturno delle pere. Può sembrare - e a molti è sembrato - eccessivo il tono di esecrazione con cui Agostino rievoca quell'episodio della sua adolescenza; ma abbiamo già visto che, per lui, i vizi e i difetti dei piccoli non sono che l'anticamera di quelli, ben più terribili (e tuttavia idealmente analoghi) che caratterizzano il mondo degli adulti. Inoltre, Agostino indugia con particolare contrizione su quel furto di pere, in apparenza di poco conto, perché ne vuole sottolineare il carattere di assoluta gratuità, in quanto non motivato nemmeno dalla tentazione della gola: si trattò, dunque - egli conclude - di un atto malvagio per eccellenza, in quanto originato unicamente dal piacere di infrangere la legge morale (cap. IV).

 

"Dopo aver protratto il gioco, secondo la nostra pessima usanza, fino a tarda ora nelle piazze, nel cuor della notte la trista combriccola di noi ragazzacci si recò a scuotere quell'albero e a depredarlo: e ne portammo via un gran carico, non per mangiarne a sazietà, se pur ne assaggiammo, ma per darne in pasto persino ai maiali: nostro unico piacere fu di fare ciò che non era lecito, perché ciò ci piaceva.

"Eccolo, il mio cuore, o Dio, ecco il mio cuore, ecco quel mio cuore che ti ha mosso a pietà dal fondo dell'abisso. Ti dica ora questo mio cuore che cosa lo movesse ad essere cattivo senza alcun vantaggio, a non avere una ragione di malizia se non la malizia stessa.  Torbida malizia: ed io la amai; amai la mia rovina, amai la mia caduta; non ciò per cui cadevo, ma proprio la caduta; io, anima malvagia che mi sradicavo dal tuo fermo sostegno per la mia rovina, non correndo dietro ad alcunché con disonestà, ma alla disonestà per se stessa."

 

L'episodio delle pere serve ad Agostino anche per sviluppare una riflessione di tipo quasi socratico, e cioè che, nel fare il male - ossia nel peccato - l'anima cerca un bene, ma lo cerca sregolatamente e nelle cose di infimo livello, ossia quelle materiali, distogliendosi dai veri beni e in particolare da Dio, il Bene supremo (cap. V). Nel capitolo seguente Agostino sviluppa e approfondisce il concetto: le passioni degli uomini li portano verso i beni di grado inferiore, ma quegli stessi beni, elevati alla massima perfezione, sono tutti presenti in Dio: è in Lui, e soltanto in lui, che l'anima può infine trovare quello che oscuramente cerca fra le ombre dei vaneggiamenti terreni, spegnendo quella sete che intimamente lo divora, e che invano cerca di spegnere nella ricerca affannosa e degradante dei piaceri materiali (cap. VI).

 

"Le carezze dei voluttuosi vogliono amore: ma nulla è più affettuoso del tuo amore, nulla si ama più salutarmente della tua verità, bella e luminosa quant'altre mai.

"La curiosità sprona in apparenza all'acquisto della scienza: Tu sai tutto, in sommo grado. Persino la ignoranza e la stoltezza si velano con il nome di semplicità e di innocenza, perché nulla si può trovare più semplice di Te, e nulla più innocente di Te, come che al malvagio è di danno il suo stesso malfare. L'ignavia vorrebbe tendere alla tranquillità: e quale sicurezza di tranquillità fuor che nel Signore? Il lusso vuole esser chiamato sufficienza e abbondanza; Tu sei la pienezza e la sorgente inesauribile di soavità che non conoscono corruzione.

"La prodigalità prende le apparenze della liberalità; ma Tu possiedi tutto. La gelosia briga per eccellere: chi più eccelso di Te? L'ira cerca la vendetta: e chi esercita la vendetta più giustamente di Te? Il timore si inquieta per ogni avvenimento insolito e improvviso che incombe sulle cose amate, si preoccupa della sicurezza: che cosa è insolita, improvvisa per Te? E chi può dividere da Te ciò che ami? Dove, se non in Te, una salda sicurezza? La cupidigia si rattrista e si consuma per la perdita delle cose che le davano gioia, perché vorrebbe che nulla potesse essere tolto a sé, come a Te.

"In tale modo va fornicando l'anima quando, allontanandosi da Te, cerca fuori di Te obietti che trova puri e limpidi solo ritornando a Te. Coloro che si allontanano da Te, che si ergono contro Te tutti ti imitano disordinatamente. Però anche con codesta forma di imitazione vengono a riconoscere che sei il creatore  di tutta la natura e che perciò non esiste luogo in cui l'uomo possa considerarsi in tutto separato da Te."

 

La grazia divina, riversandosi nell'anima, ha tuttavia il potere di far ravvedere gli uomini, riconducendoli all'Amore che, solo, può appagare ogni loro desiderio (cap. VII). Poi, tornando a riflettere sulle motivazioni di quel lontano furto di pere, Agostino rivede la sua precedente affermazioni: non l'amore del male in sé lo spinse ad agire, ma il piacere di condividere quell'atto con i suoi compagni: da solo, infatti, non l'avrebbe commesso (cap. VIII). Esiste, dunque, una facoltà dell'anima che si definisce come perversa solidarietà nel male: è l'agire in gruppo (in branco, come si usa dire oggi nel gergo giornalistico) che fa scattare la molla di molte azioni malvagie e apparentemente gratuite. Nel gruppo, infatti, viene abolito il principale freno che ci trattiene, di norma, dal commettere cattive azioni: il sentimento della vergogna (cap. IX).

Il secondo libro delle Confessioni, il più breve di tutti, si conclude quindi con una citazione dal Vangelo di Matteo (XXV, 21): «entra nel gaudio del tuo Signore», perché solo in Lui si trova quella gioia piena e pura che invano inseguiamo nei beni terreni.

 

 

LIBRO TERZO

 

Trasferitosi a Cartagine, il giovane Agostino dà sfogo senza ritegno alla sua morbosa ricerca dell'amore, non rendendosi conto di essere affamato, in realtà, di un cibo completamente diverso, un cibo spirituale( cap. I).

 

"Perciò l'anima mia era inferma, piagata, si gettava al di fuori, miseramente avida di sfregarsi al contatto delle creature sensibili. Ma anch0'esse non le avrei amate se non avessero avuto anima.

"La dolcezza di amare e di essere amato era per me molto maggiore se andava unita al possesso del corpo dell'amante. Inquinavo così la vena dell'amicizia con le lordure della concupiscenza, ne offuscavo il candore con l'alito diabolico della concupiscenza, e, ciò non ostante, sozzo e disonesto qual ero,, nella mia immensa vanità volevo apparire fine e di belle maniere.

"Ed andai a precipizio verso quell'amore di cui bramavo la catena."

 

Anche un'altra passione afferra il giovane provinciale inurbato, quella per gli spettacoli e specialmente per il teatro (cap. II). A Cartagine prosegue brillantemente i suoi studi di retorica, mosso dall'ambizione di diventare un grande avvocato; intanto, però, è attratto e anche un po' spaventato dalla sfrenata turbolenza degli altri studenti, ai quali si unisce più per non sfigurare che per intima convinzione (cap. III). Si tratta di una turbolenza così sfrenata che qualche anno, divenuto insegnante, lo stesso Agostino deciderà di lasciare Cartagine per Roma, alla ricerca di un ambiente più calmo e ordinato. Intanto legge l'Ortensio, opera di Cicerone andata disgraziatamente perduta, nella quale il grande oratore romano difendeva lo studio della filosofia contro l'avvocato suo grande avversario, Ortensio appunto. Quel libro opera uno straordinario influsso sull'animo del giovane studente di Tagaste, influsso che viene descritto con poche, ma efficaci e commosse parole (cap. IV).

 

"Ebbene, quel libro cambiò la mia mentalità, cambiò anche il tono delle mie preghiere a Te, Signore, cambiò radicalmente le mie aspirazioni e i miei desideri. Di colpo ogni sorta di vane speranze rinvilì; con incredibile ardore di cuore presi a desiderare la sapienza imperitura: e già incominciavo ad alzarmi per far ritorno a Te.(…)

"Come ardevo, mio Dio, come ardevo di spiccare il mio volo dalle cose terrene a Te! Non sapevo quale fosse la tua azione su me: poiché «in Te risiede la sapienza».

 

Per contro, la lettura della Bibbia non produce dapprima, nel giovane africano, un'impressione altrettanto favorevole: la durezza dello stile, a paragone dell'eleganza ciceroniana, lo allontana (cap. V). A quell'epoca, ardente di una religiosità ancora confusa, Agostino si avvicina alla religione dei manichei, di cui subisce profondamente l'influenza (da cui, per certi aspetti, non li libererà forse mai del tutto, anche se condurrà poi una durissima polemica contro di essi). Tuttavia, per adesso, non ci dà molti particolari di quella fase della sua vita; si diffonde invece a compiangere lo smarrimento della sua anima, paragonandola al Figliuol prodigo della parabola evangelica (cap. VI). Poi ricorda che, se per i manichei il Male è un principio sostanziale che si contrappone al Bene, in realtà esso non è che una ignoranza del vero Bene, e non ha una consistenza propria: dottrina che avrebbe sviluppato compiutamente più tardi e che ha dato luogo a infinite discussioni e polemiche. È un fatto che Agostino, qui, per reazione al dualismo manicheo sembra essere più vicino alla concezione neoplatonica che a quella cristiana ortodossa, secondo la quale l'esistenza di un polo negativo e demonico, anche se non originario (come volevano i manichei), è parte integrante di una compiuta prospettiva dogmatico-teologica. Del resto, vi sono stati studiosi (come Prosper Alfaric, nella sua monografia su S. Agostino del 1918) che hanno negato che egli si sia convertito al cristianesimo nel 386 quanto piuttosto al neoplatonismo; e che solo in seguito egli sia passato definitivamente al cristianesimo, ma solo perché vi ritrovava gli elementi essenziali insegnati nelle Enneadi di Plotino, filosofo che continuò ad ammirare per tutta la vita. Sia come sia, non è questa la sede per approfondire una questione di tanto peso; ci accontentiamo di avervi accennato, rimandando il lettore desideroso di approfondire la questione agli studi specifici di Becker, di Scheel, di Thimme, di Alfaric e del celebre Alfred Loisy.

In ogni modo, ad Agostino appare chiaro che i criteri della giustizia divina divergono da quelli della giustizia umana, e di ciò non si può evitare di tener conto quando si affronta il problema del Male da un punto di vista teologico (cap. VII). Tuttavia, se il giudizio umano - fuorviato dalle apparenze - può errare nel giudicare ciò che gli appare una cattiva azione, e magari non essere tale agli occhi di Dio, da ciò non deriva alcun relativismo etico. Esistono comunque delle azioni che sono intrinsecamente peccaminose, quali - ad esempio - le pratiche dei sodomiti, davanti alle quali Agostino non esita ad affermare che «anche se tutto il genere umano le commettesse, tutto il genere umano sarebbe reo di codesto crimine» (cap. VIII): e questo, almeno, è un parlare chiaro.

 

"Ma quando Iddio comanda qualche cosa contraria ad usi o istituzioni di chicchessia, anche se essa in quel determinato luogo non sia mai stata fatta, si deve fare; se è andata in disuso si deve rinnovare; se non è mai stata stabilita si deve stabilire (…) Come infatti nella distribuzione dei poteri nella società umana il potere più elevato ha diritto all'obbedienza del subordinato, così Dio a quella di tutti."

 

E questo è un passo che sarebbe piaciuto (e quasi certamente è piaciuto) a Sören Kierkegaard, in particolare al Kierkegaard di Timore e tremore, tutto preso dal mistero che emana dall'ordine assurdo (umanamente parlando) che Dio rivolge ad Abramo di sacrificare il suo unico, amatissimo  figlio Isacco, sul Monte Moriah.

 

"Ciò vale anche per le colpe il cui movente è la deliberata volontà di fare il male agli altri o con ingiustizia, o con violazione di diritti. E l'uno e l'altro può aver luogo sia per motivi di vendetta, come fa l'avversario all'avversario, sia per cupidigia di un bene indebito, come il brigante con il viaggiatore; sia per evitare un male, come si fa ad uno che ci è causa di timore; sia per invidia - il misero verso il più fortunato o il bene arrivato verso colui che non vuole veder suo pari, oche si contrista di veder tale, sia per il solo compiacimento del male altrui, come gli spettatori delle lotte dei gladiatori, i motteggiatori, i mistificatori degli altri."

 

Vi sono poi dei peccati che sono tali solo in apparenza: Agostino ribadisce il concetto che il giudizio umano è spesso inadeguato, ed erra sia quando condanna, sia quando loda, perché altro può essere il giudizio di Dio, che sa vedere nel mistero dell'anima (cap. IX). Segue una ulteriore puntata contro i manichei che, per la verità, ha più l'aria di un colpo basso: giocando un po' sul concetto manicheo di "cibo spirituale" destinato a liberare la sostanza spirituale contenuta negli alimenti, Agostino poco generosamente mette in caricatura questo aspetto delle loro credenze, deridendo ciò in cui aveva creduto (cap. X).

Il terzo libro è chiuso da due episodi che creano un'atmosfera carica di attesa. Il primo è un sogno della madre Monica che sembra chiaramente alludere a un cambiamento di vita da parte di suo figlio, se non a una vera e propria conversione (cap. XI).

 

"Sognò infatti che se ne stava ritta in piedi su di un'assicella e che uno splendido giovane le veniva incontro lieto e sorridente, mentre essa si consumava nella tristezza della desolazione. Egli le chiese la cagione di quella sua mestizia e di quel suo piangere continuo; non che avesse bisogno di sentirselo dire, ma come succede, per aver modo di dirle quanto voleva. Avendo ella risposto che piangeva la mia rovina, egli volle che si riconfortasse, esortandola a ben notare ed a vedere che là dove era ella mi trovavo anch'io. Ed ella riguardò e vide che io le stavo accanto sulla stessa assicella."

 

Il secondo episodio riguarda la profezia di un vescovo, al quale Monica si era rivolta per convincerlo ad avere un colloquio con Agostino nel quale confutare i suoi errori e allontanarlo, così, dall'influenza dei manichei. Al che il sant'uomo rispose:«Lascia che se stia così; solo, prega il Signore per lui; studiando, troverà da sé la natura e l'empietà di quegli errori». E aveva concluso dicendole: «Vattene pure; così tu possa vivere a lungo, come è certo che il figlio di codeste lagrime non può andar perduto».

 

 

LIBRO QUARTO

 

Il quarto libro si apre con l'inizio dell'insegnamento a Tagaste, ove Agostino è rientrato da Cartagine. Continua a frequentare i manichei, anzi è divenuto "uditore": ora, quel periodo della sua vita gli appare come una dolorosa serie di errori (cap. I).

 

"Per tutto il corso di quei nuove anni - dal diciannovesimo al ventottesimo - fui insieme sedotto e seduttore, ingannato e ingannatore in ogni genere di passioni; pubblicamente con l'insegnamento delle così dette scienze liberali, occultamente con la pratica di una falsa religione ;là superbo, qui superstizioso, vano in entrambi i casi; da una parte correvo dietro al miraggio della gloria popolare, fino agli applausi da palcoscenico;, fino alle gare poetiche, alle dispute per corone di fieno ,alle insulsaggini di spettacoli, ad ogni sregolatezza di passioni; dall'altra, anelando di purificarmi da quelle bassezze, ero tutto zelo nel portare ai così detti "Santi" ed "eletti" i cibi dai quali nell'officina del loro stomaco potessero fabbricarci angeli e dèi, mezzi della nostra liberazione. E ci credevo, e compivo tali pratiche: io e gli amici  con me o da me ingrulliti."

 

Inoltre, in quel periodo Agostino si lega con una donna, non maritalmente, tuttavia con costante fedeltà e affetto, dalla quale avrà un figlio, Adeodato. Ricorda anche uno strano episodio, allorché uno stregone gli offrì la vittoria in una gara di poesia da tenersi in una teatro, se avesse acconsentito a praticare un rito di magia nera, nel quale sarebbero stati sacrificati degli esseri viventi. Egli aveva rifiutato con orrore (cap. II); il fatto, ad ogni modo, ci dice quanto fossero diffuse le arti magiche nel tardo Impero Romano, e quanto l'ambizione divorante di Agostino dove essere ben nota ai suoi concittadini; altrimenti, quel personaggio non avrebbe osato rivolgersi a lui per offrirgli i suoi sinistri servigi. Non rifiuta, invece, di affidarsi ai responsi degli astrologi, cui anzi ricorre volentieri; solo più tardi l'autore delle Confessioni giungerà alla conclusione che il sapere dell'astrologia è vano e fallace, poiché in contrasto con la libertà di scelta dell'uomo (cap. III). Notiamo di sfuggita che in altro modo giudicherà l'astrologia il seguente millennio, durante il quale i massimi esponenti della cultura, Dante compreso, crederanno fermamente all'influsso operato dagli astri sul cosiddetto mondo sub-lunare; e tale sarà la convinzione prevalente fino a tutto il Rinascimento, non sentita in contrasto con i dogmi del cristianesimo, ed insegnata presso diverse università europee.

Poi Agostino racconta il dolore provato per la perdita di un giovane, del quale ignoriamo anche il nome, ma al quale si era legato di profonda (cap. IV); mentre per la morte del padre suo, Patrizio, che alfine si era convertito alla religione della moglie, non dice una parola. Dopo aver riflettuto sulla dolcezza che il pianto offre nei grandi dolori, ai quali offre un sollievo (cap. V), ricostruisce quell'epoca della sua vita, osservando come lo avesse invaso un profondo smarrimento, mescolato a un senso di estrema precarietà di ogni cosa umana, davanti alla cieca violenza della morte, nonché a uno strano piacere nell'abbandonarsi alla disperazione.

 

"Ero infelice, ed infelice è sempre l'anima avviluppata dall'amore delle cose mortali; lacerata quando le perde, sente la miseria da cui è affetta anche prima di perderle.. Tale ero io in quel periodo di tempo; piangevo amarissimamente e nell'amarezza mi riconfortavo. Infelice, sì; eppure quella misera mia vita mi era ancor più cara dell'amico; cambiarla, certo, avrei voluto, ma non perdere lei piuttosto dell'amico, e non so se avrei acconsentito, anche per lui, a quello che si racconta di Oreste e di Pilade, se pure è vero, che volevano morire l'uno per l'altro, insieme, perché non vivere insieme per essi era peggio che morire. Ma non so quale sentimento in opposizione di quello, era nato in me; un profondissimo tedio della vita e la paura della morte. Quanto più lo amavo, tanto più lo odiavo e temevo come il più crudele nemico la morte che me lo aveva rapito ,e mi pareva che essa dovesse portarsi via di colpo tutta l'umanità, posto che aveva potuto portarsi via lui. Tale era il mio stato d'animo: e ben l'ho presente."

 

Per confortarsi di quella perdita, Agostino cerca l'amicizia di altri compagni (cap. VIII); indi scrive una delle più alte pagine sul significato della vera amicizia, che consiste nell'amare l'altro non per se stesso, ma in Dio (cap. IX). Ogni bene terreno, infatti, è caduco ed effimero: cercando le cose per se stesse, anche le più belle, non si fa altro che inseguire il dolore; mentre è in Dio, creatore di ogni bellezza terrena, che l'animo nostro può trovare ciò di cui veramente è assetato (cap. X). Dopo aver rivolto una esortazione alla propria anima, perché rivolga tutta se stessa a Dio, sede della vera pace e della perfetta letizia (cap. XI), Agostino afferma che l'amore dei bei corpi può rivolgerci dalla bellezza materiale a quella spirituale e di lì, infine, alla Bellezza divina: un ragionamento di pretta impronta platonica, e che certo sarebbe piaciuto - e forse piacque, se lo lesse - al S. Francesco del Cantico delle creature. Con questa differenza, però, rispetto a Platone: che la bellezza materiale non rimanda a un'Idea perfetta e totalmente separata dal mondo, ma che proprio nella bellezza delle cose terrene noi possiamo percepire la presenza del divino, che non si ritrae da esse, ma vi permane in tutto il suo fulgore. Il mondo, pertanto, non viene retrocesso a pallido e illusorio riflesso di una realtà trascendente, ma promosso al rango di luogo per eccellenza della ierofania, ossia della rivelazione del sacro.

 

"Se ti piacciono i copri, trai motivo da essi per lodare Iddio, e riporta l'amore sul loro autore, perché tu non gli dispiaccia negli esseri che piacciono a te. Se ti piacciono le anime, amale nel Signore, perché anch'esse sono mutabili e solo fissandosi in lui acquistano stabilità; diversamente sene andrebbero in rovina. Siano dunque amate in Lui, trascinane a Lui teco quante vuoi, e di' loro: «Lui, lui amiamo: Egli ha fatto codeste creature, né è lontano perché, dopo averle fatte, non si è ritirato da esse, ma, fatte da Lui, sono in Lui. Ecco dove egli sta: , ecco dove la verità si insapora. È nel profondo del nostro cuore ma il cuore si è sbandato, lontano da lui. Ritornate al cuore, prevaricatori; stringetevi a Lui che vi ha creati,. Tenetevi a Lui e avrete stabilità; riposate in Lui e avrete riposo. Dove andate, dove andate per luoghi scoscesi? Il bene che voi amate viene da Lui, e quanto si rapporta a Lui è buono, è dolce, ma può giustamente diventare  amaro, se si abbandona Lui e si ama disordinatamente quello che procede da Lui. Dove tende questo vostro ostinato camminare per strade difficili e faticose? Non è là dove lo cercate il riposo.  Cercate pure quello che cercate; ma esso non è là dove lo cercate. Cercate la felicità della vita nelle regioni della morte: non è là. Come potrebbe esservi vita felice  dove non si trova nemmeno la vita?»."

 

Segue un passo stupendo sul mistero dell'Incarnazione, visto come l'evento salvifico che ha riportato la vita nel regno della morte, ribadendo il carattere di trionfo della vita sulla morte che sta al cuore del messaggio cristiano. Sono parole ispirate, che ricordano le pagine più potenti di san paolo; e, infatti, culmina con una citazione dalla Prima lettera a Timoteo (I, 15).

 

"Egli, la vita nostra, è disceso quaggiù; si è preso la nostra morte, la uccise nella sovrabbondanza della vita, e con voce di tuono ci gridò di ritornare di qui a Lui, in quel misterioso recesso da cui prese le mosse per venire a noi nel grembo di una vergine, per la prima volta, dove si disposò con Lui, la creatura umana, carne mortale ,destinata all'immortalità: e di là, «come sposo che esca dal talamo, avanzò qual campione lieto di percorrere la sua via»."

 

Poi Agostino ci informa che, all'età di ventisei o ventisette anni, aveva composto un'operetta, intitolata De puchro ed apto, che purtroppo è andata perduta (cap. XIII); e d'averla dedicata a un celebre oratore di origine siriana da lui non personalmente conosciuto, tale Jerio, che dopo aver primeggiato nell'eloquenza greca, aveva riportato altrettanti trionfi nell'uso di quella latina (cap. XIV). Quanto al contenuto, l'autore delle Confessioni compie una piena autocritica, poiché in quel libretto non era ancor giunto a distaccarsi da una concezione immanentistica dell'estetica (cap. XV). Più in generale, Agostino lamenta che, a quell'epoca, egli stava facendo un cattivo uso della sua intelligenza. A soli vent'anni aveva già letto e studiato le Categorie di Aristotele; e inoltre sai era formato, senza difficoltà, una vasta cultura che spaziava dalla retorica, alla dialettica, alla geometria, alla musica e alla matematica (circa quest'ultima, evidentemente, aveva superato l'antipatia della fanciullezza); ma vagava ancora lontano dalla verità più importante, quella delle cose divine (cap. XVI).

 

 

LIBRO QUINTO

 

Il quinto libro si apre con un inno di lode a Dio (cap. I) e prosegue con la riflessione che Egli è sempre vicino a noi, anche quando noi crediamo di allontanarcene (cap. II). Quindi Agostino si lancia in un duro atto di accusa contro la superbia e la cecità di quelli che allora si chiamavano filosofi naturali e che noi, oggi, chiamiamo scienziati. Non è la loro scienza che viene condannata, anzi, il Nostro ha parole di ammirazione per i risultati raggiunti dal loro sapere; ma è condannata la loro pretesa di fondare una scienza autosufficienze, chiusa in sé stessa e resa superba dalle sue conquiste, senza riconoscere il legame necessario esistente fra Dio e il mondo. Si tratta di un passo di notevole attualità, che il lettore moderno dovrebbe meditare alla luce degli effetti che il predominio dell'apparato tecno-scientifico esercita sulle  nostre vite e sui nostri modi di pensare; un passo (come quello dell'Ulisse dantesco lanciato nel suo "folle volo" verso l'ignoto) che non si deve leggere in un'ottica oscurantistica ma, al contrario, nella sua straordinaria forza profetica, come un monito e un necessario grido di avvertimento.

 

"I superbi non Ti trovano, anche se la loro perspicace curiosità è riuscita a contare le stelle e l'arena, a misurare le plaghe del cielo, a seguire la via degli astri. Con la forza dell'intelligenza e dell'intuizione che Tu donasti loro essi compiono tali ricerche; e fecero scoperte, e annunziarono molti anni prima le eclissi del sole e della luna, indicandone il giorno, l'ora, se totali o parziali: i loro calcoli non li hanno tratti in errore: avvenne proprio come avevano preannunciato. Misero in iscritto le leggi trovate che si studiano anche oggi, e da esse si può fare il calcolo in quale anno, in quale mese dell'anno, in quale giorno del mese, in quale ora del giorno e in quale misura avverranno le eclissi della luna o del sole: e tutto si verificherà a puntino. Quelli che non hanno simili cognizioni rimangono meravigliati, quasi instupiditi; i dotti ne gioiscono, si gonfiano d'orgoglio; la stolta superbia li a