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Il nuovo corso del Kosovo: intervista a Stefano Vernole

di Stefano Vernole/Angelo Maria D’Addesio - 28/11/2007

Fonte: ilparoliere.ilcannocchiale

 



AMD: Le ultime elezioni locali hanno archiviato la parentesi della Lega Democratica del Kosovo. Anzi ora la situazione politica passa nelle mani del Partito Democratico e degli ex esponenti dell’UCK. Cosa potrà scaturire da questa situazione?

S.V.: La vittoria del PDK e la formazione di un governo guidato da Hashim Thaci, simboleggia la naturale accelerazione di una parte della società albanese verso la richiesta dell’indipendenza, tanto più che si sta avvicinando a grandi passi la data del 10 dicembre, termine ultimo a disposizione della trojka statunitense-russo-europea per trovare una soluzione condivisa da entrambe le parti. Ovviamente questi risultati rivestono anche altri significati, intanto la scarsa considerazione che gli stessi Albanesi del Kosovo hanno per la loro classe dirigente; non si tratta solo della mancanza di leader dopo la morte di Ibrahim Rugova ma della scarsa legittimità degli appartenenti ad un esercito, l’ ex UCK, più conosciuto per il suo forte coinvolgimento nel narcotraffico che nella difesa della patria. E’ abbastanza clamoroso che, sull’orlo del traguardo, la maggioranza albanese non si rechi alle urne per affermare la propria voglia di indipendenza. Allo stesso tempo, la maggioranza relativa conseguita da Thaci, simboleggia che il tempo delle trattative diplomatiche è ormai finito e che dopo il 10 dicembre, contrariamente ai desideri serbo-russi, non ci sarà più spazio per le mediazioni. La mia sensazione è che dopo questa data assisteremo a una forte situazione di instabilità, scandita da attentati e scontri armati, necessari affinché la Provincia rimanga destabilizzata e la “vigilanza” della NATO (a guida statunitense) continui indefinitamente. La forte astensione elettorale è dovuta anche al fatto che molti hanno già capito che il Kosovo non sarà mai uno Stato realmente indipendente, bensì una sorta di entità con sovranità limitata amministrata dalla mafia balcanica e monitorata dall’Alleanza Atlantica. D’altronde il suo legame strategico più naturale in caso di distacco da Belgrado sarebbe quello con l’Albania, che è però una nazione troppo debole per sviluppare un’autonoma strategia geopolitica in un’area così importante; l’accoglienza entusiastica riservata a Bush Jr. durante la sua visita a Tirana, le bandiere statunitensi sventolate in tutto il Kosovo albanese, confermano che questo ruolo propulsivo è stato delegato a Washington.

AMD: In ogni caso dicembre sarà una tappa fondamentale per la piccola regione balcanica che passerà dall’amministrazione controllata ONU all’autonomia. Sarà un passo definitivo oppure la Serbia resterà ancora fortemente ancorata alla regione?

SV: Attualmente le proposte di Belgrado si caratterizzano ancora per l’offerta di una forte autonomia alla propria Provincia del Kosovo e Metohija, sul modello di Hong Kong o su quello delle isole di Oland (autonome ma sotto sovranità finlandese). Non credo che queste proposte verranno accolte, stante la forte pressione statunitense per un completo distacco del Kosmet dalla madrepatria; a poco servirà anche la contrarietà di alcune nazioni europee, Spagna, Grecia, Cipro, Romania, Slovacchia e Svezia, timorose di un’auto-proclamazione del governo Thaci. In linea generale la Serbia cercherà inizialmente di rallentare il cammino indipendentista, ventilando la possibilità di annettersi la Republika Srpska, con la quale sono stati recentemente rafforzati i rapporti economico-politici. Successivamente, di fronte alla prospettiva di perdere l’intero Kosovo e vista la dichiarata volontà di resistenza dei Serbi di Kosovska Mitrovica, Belgrado rafforzerà la sua presenza militare ai confini meridionali e farà affluire, naturalmente in maniera non ufficiale, rinforzi alla sua minoranza nel nord della Provincia. La Serbia non può permettersi di perdere completamente la sua influenza sul Kosovo, non solo per i noti motivi storico-religiosi ma anche per quelli più strettamente economici, che coinvolgono le miniere di Trepca e il bacino della Sitnica; proprio le problematiche relative alla gestione di questi interessi impedirono in passato una spartizione del Kosovo e Metohija, soluzione che forse avrebbe impedito una guerra e che ora appare impraticabile anche per la contrarietà della Comunità Internazionale. Gli stessi progetti infrastrutturali finanziati in questi giorni dalla Serbia riguardano il tratto autostradale Leskovac-Presevo, che termina proprio vicino alla famosa valle di Presevo, centro d’irradiazione del nazionalismo albanese e teorica materia di scambio in caso di divisione del Kosmet.

AMD: Voglia di indipendenza dopo anni di radicamento nella penisola slava. Sarà veramente positivo separarsi da Belgrado sul piano sociale, politico ed economico?

SV: Innanzitutto, quando si separerà da Belgrado, il Kosovo dovrà iniziare a pagare il suo debito estero, che fino ad oggi è sempre stato saldato dalla Serbia e come partenza non sarà niente male … Teniamo conto che il Kosovo è stato in questi anni letteralmente mantenuto da una pioggia di finanziamenti esteri spropositati date le sue dimensioni, che hanno consentito di alleviarne la disastrosa situazione economica. Più del 50% della popolazione della Provincia è disoccupata, l’economia è assolutamente dipendente dagli aiuti internazionali e dalla gestione delle rotte balcaniche del narcotraffico operata dalla mafia albanese. Il problema maggiore per il Kosovo non sarà solo la separazione dalla Serbia, che pure rappresenta un importante ponte terrestre per le sue comunicazioni europee e potrebbe divenire un serio ostacolo di carattere logistico, ma anche l’assoluta mancanza di sovranità economico-finanziaria. Con il processo di privatizzazione apertosi dopo il 1999, le grandi compagnie multinazionali stano pian piano impossessandosi delle ricchezze regionali e del controllo delle imprese più importanti; se qualcuno avesse voglia di protestare contro lo scippo, ci saranno sempre le truppe della NATO e la base statunitense di Camp Bondsteel a riportare la calma ... Può essere che anche tra gli Albanesi ci sia qualcuno che crede sinceramente al folle progetto della Grande Albania, secondo il quale attorno al Paese delle Aquile dovrebbero gravitare tutti gli schipetari del Kosovo, della Macedonia, del Montenegro, della Serbia Meridionale e della Chameria; in realtà sarebbe stato molto più saggio da parte del governo di Pristina cercare un accomodamento con l’esecutivo di Belgrado e rilanciare la naturale cooperazione tra i popoli dell’area balcanica (in questi giorni sono stati firmati ad esempio importanti accordi di cooperazione tra Serbia e Slovenia, che stanno a testimoniare come, malgrado l’indipendenza, l’economia di Lubiana sia ancora fortemente dipendente dai suoi scambi commerciali con Belgrado). Gli Stati Uniti, che sono i veri patrocinatori del processo d’indipendenza del Kosovo dalla Serbia, non hanno in realtà nessuna intenzione di regalare alla maggioranza albanese della Provincia uno status da nazione sovrana.

AMD: Il Kosovo è un coacervo di culture, di lingue, di etnie: albanesi, slavi, ortodossi ed islamici. Che possibilità ha di riuscire (ed in che modo) questa complessa convivenza nel paese?

SV: Allo stato attuale delle cose il problema della convivenza non si pone; se è vero che prima del 1999 gli Albanesi avevano istituito una sorta di Stato parallelo tollerato dal Belgrado e i problemi riguardavano soltanto le azioni armate dell’UCK, una minaccia che comunque l’esercito serbo aveva dimostrato di poter eliminare, le relazioni tra le due etnie principali, quella slava e quella albanese non erano completamente degenerate. Dopo l’aggressione della NATO e la pulizia etnica compiuta dall’UCK in seguito al ritiro dell’esercito serbo dal Kosmet, tutte le componenti culturali non schipetare (compresi gli slavi musulmani, i gorani, i rom e gli stessi Albanesi considerati collaborazionisti dei Serbi) sono state perseguitate e in buona parte espulse. Se si esclude una fascia di poche decine di chilometri che parte dal confine serbo e arriva alla città divisa in due di Kosovska Mitrovica, le minoranze ortodosse e rom si trovano assediate dalla marea albanese e possono accedere a qualche servizio solo grazie alla tacita intesa con gli Albanesi di buona volontà. Inoltre, anche per minimi spostamenti, gli stessi pope ortodossi devono richiedere la protezione della KFOR, ma non con tutti i contingenti militari i rapporti sono apprezzabili (le relazioni con le truppe italiane sono state finora discrete, se consideriamo il contesto generale e la passività di molti soldati della NATO durante i pogrom antiserbi del marzo 2004). Stiamo cioè assistendo al tentativo di creare uno Stato mono-etnico, all’interno del quale non vi sarà spazio per la rappresentatività delle minoranze, che verranno invitate ad emigrare altrove. Non si tratta tanto di un problema religioso, considerati anche i proclami patriottici del Muftì di Belgrado e le posizioni filoserbe degli Slavi musulmani, quanto del fatto che l’Occidente ha volontariamente dato spazio ad un nazionalismo etnico di stampo tribale, al fine di smantellare la Serbia e colonizzare la regione balcanica. La destabilizzazione del Kosovo rappresenta solo l’ultimo atto di un processo iniziato con i separatismi sloveno e croato, e che potrebbe proseguire con gli Ungheresi della Vojvodina. Quando sarà possibile ristabilire rapporti minimi di convivenza tra le varie nazionalità è molto difficile da stabilire, ma lo stesso problema riguarda pure la Bosnia, la Macedonia e forse lo stesso Montenegro. Forse gli “studiosi” dei vari think thank atlantisti ritengono di poter ricreare una specie di multiculturalismo imprimendo una potente occidentalizzazione alla regione, dimenticando che l’identità nei Balcani si fa forza di una memoria storica difficilmente superabile per mezzo di qualche “donazione”.

AMD: Il Kosovo del passato, quello del presente e quello del futuro. Cosa c’è nel futuro di Pristina, cosa verrà conservato nel passato e cosa spera in sintesi la popolazione kosovara?

SV: Il passato del Kosovo e Metohija narra sostanzialmente della storia spirituale e del dramma politico del popolo serbo; i resti dei 1.200 monasteri ortodossi presenti nella Provincia e i meno di 100.000 abitanti di etnia serba rimasti nonostante le persecuzioni, testimoniano bene di entrambi gli aspetti. La situazione presente è quella di uno Stato “fallito” e “criminale” nel cuore dell’Europa, una rotta strategica per l’eroina che deve affluire nel Vecchio Continente e il laboratorio politico dei tanti drammi che la destabilizzazione statunitense ha provocato nel Vicino e Medio Oriente, rispetto al quale il Kosovo rappresenta un interessante retrovia strategico. Il futuro politico del Kosmet non mi sembra molto diverso da quello che stiamo purtroppo sperimentando attualmente, a meno che i rapporti di forza internazionali non mutino improvvisamente. Al proposito riporto un’interessante e recente dichiarazione dell’inviato russo nella regione, Alexander Botsan-Kartchenko, il quale sostiene che “Gli Stati Uniti vivono in una specie di pseudo realtà nel ritenere che l’indipendenza della provincia serba sia un fatto compiuto, mentre noi Russi consideriamo la situazione dal punto di vista internazionale”. Se Mosca continua a giocare duro anche sul tavolo kosovaro, che nella sua contrapposizione geopolitica con Washington rappresentava l’anello debole, possiamo nutrire qualche speranza su un possibile capovolgimento degli scenari internazionali. Su quello che rimarrà in un Kosovo indipendente, dal punto di vista artistico e culturale, posso solo augurarmi il meglio, visto che in passato luoghi sacri come il Monastero di Decani, erano ritenuti tali anche dagli Albanesi della regione. Confido vivamente che la tutela dei luoghi simbolo dell’ortodossia serba e della stessa cristianità medioevale siano regolati da uno statuto speciale garantito dall’intera Comunità Internazionale, sulla cui affidabilità però è lecito dubitare, dati i precedenti. In senso lato, la popolazione del Kosovo non ambisce a nulla di diverso da quello che spera la maggior parte dei popoli sparsi nel Pianeta, cioè la sicurezza dell’esistenza e una vita dignitosa anche dal punto di vista economico. Che queste condizioni possano essere assicurate dai progetti dell’Occidente capitalistico bisogna sicuramente diffidare. Purtroppo l’Europa, che pure avrebbe le potenzialità economiche per assicurarsi la sua autonomia, continua ad essere assoggettata alla volontà di una grande potenza in declino, gli Stati Uniti, che potrebbero trascinarla con loro verso una disfatta epocale.


Stefano Vernole, giornalista pubblicista, redattore di Eurasia. Rivista di studi geopolitici esperto dell’area balcanica, ha recentemente pubblicato "La lotta per il Kosovo”, Edizioni all'insegna del Veltro, Parma.