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Un luogo per orientarsi tra il pieno e il vuoto dei disturbi alimentari

di Maria Teresa Carbone - 28/11/2007


Intorno al tema «Luoghi e spazi della cura nel trattamento dei disturbi del comportamento alimentare» si tiene oggi al Centro congressi dell'Hotel Giò di Perugia la conferenza programmatica promossa dalla Direzione Regionale Sanità e Servizi Sociali della Regione Umbria. Articolato su due sessioni, «I luoghi della cura» e «La rete degli interlocutori», l'incontro si propone come la prima vera occasione di riflessione sui bisogni di salute, sui modelli organizzativi e sulle effettive ricadute degli
interventi assistenziali nella popolazione interessata da queste patologie.

Lontani i tempi in cui gli studi dell'antropologo Edward Banfield fecero diventare il centro lucano di Chiaromonte un emblema dell'arretratezza meridionale. Oggi il paese ospita un servizio pubblico modello per la cura dell'anoressia e della bulimia

A Chiaromonte si arriva da Lauria, sulla Salerno-Reggio Calabria. È qui che si imbocca la superstrada Sinnica, quaranta chilometri attraverso il parco nazionale del Pollino: grandi rocce scavate dal vento, una vegetazione fitta ammantata dei colori dell'autunno, fiumare asciutte pronte a gonfiarsi di acqua nei mesi invernali. I segni della presenza umana sono rari: non si incrociano molte macchine, e i pochi paesi che si vedono in alto sulle colline appaiono isolati, raccolti. Chiaromonte non fa eccezione: un piccolo centro abitato di poco più di duemila abitanti, il cui nucleo storico è arroccato su uno sperone roccioso, mentre più in basso, a mezza costa, si trovano le case più recenti, costruite nell'ultimo mezzo secolo. E proprio mezzo secolo fa, nel 1958, questo paese così appartato fornì all'antropologo statunitense Edward Banfield i materiali per un saggio, Le basi morali di una società arretrata, divenuto famoso per una formula fin troppo fortunata, «familismo amorale».
Suona quindi come un felice paradosso che «Montegrano» (come Banfield ribattezzò nel suo studio Chiaromonte), emblema dell'arretratezza e dell'inerzia meridionale, ospiti da circa un anno una struttura di riferimento, nel nostro paese e anche all'estero, per i disturbi del comportamento alimentare: il primo centro residenziale pubblico di cura del Mezzogiorno e il secondo in tutta Italia dopo l'esperienza pilota di Palazzo Francisci a Todi. Ma forse di paradosso si tratta solo in parte, e anzi non è un caso che appunto in una località così piccola, dove la capacità e i tempi dell'ascolto sono di certo ancora oggi più elevati rispetto alle grandi città, abbia trovato sede questa struttura, nella quale l'anoressia e la bulimia, insieme alle forme sempre più numerose e sfuggenti in cui si declinano oggi i «disturbi alimentari», vengono infine affrontate (e curate) come disagi che investono tutti gli aspetti della personalità.

La spia di un bisogno diffuso
La storia del centro «Giovanni Gioia» di Chiaromonte lo conferma. Sono passati poco più di due anni da quando i genitori di una ragazza anoressica, che avevano dovuto sostenere spese molto ingenti per fare curare la figlia in un centro privato svizzero, si rivolsero alla Asl di Lagonegro per sapere se avrebbero avuto diritto a una qualche forma di rimborso. Una pratica burocratica fra le tante; ma i responsabili della Asl, e in particolare il direttore Mario Marra, si resero conto che il problema di quella famiglia era la spia di un bisogno diffuso, al quale non si era ancora fatto fronte, nonostante l'attenzione crescente (ma spesso superficiale) che la stampa e i media dedicano da qualche anno tempi ai «disturbi dell'alimentazione».
Secondo i dati ministeriali sono circa due milioni i ragazzi che in Italia soffrono di problemi connessi al comportamento alimentare e decine di milioni nel mondo si ammalano ogni anno. Ogni cento ragazze, nella fascia compresa tra i dodici e i venticinque anni, dieci soffrono di disturbi più o meno lievi, e una o due delle forme più gravi come anoressia e bulimia. Dati, d'altronde, che con ogni probabilità sottovalutano il fenomeno, poiché si riferiscono a quasi dieci anni fa e non tengono conto del fatto che negli ultimi tempi quella che era una patologia quasi esclusivamente femminile colpisce un numero sempre più alto di ragazzi, e che oltre i venticinque anni sono tante, oggi, le donne affette dal binge eating disorder, le abbuffate compulsive le cui conseguenze non sono meno pesanti rispetto all'anoressia o alla bulimia. Eppure, malgrado una situazione tanto drammatica, la risposta della sanità pubblica è stata finora frammentata, disorganica, lenta (come documenta la scheda in basso).
Ma a incoraggiare Marra in questa impresa, che si presentava al tempo stesso indispensabile e temeraria, è stato soprattutto l'incontro con una psichiatra di Perugia, Laura Dalla Ragione, responsabile del progetto che ha trasformato il cinquecentesco Palazzo Francisci di Todi nella prima struttura pubblica per i disturbi del comportamento alimentare: fino all'anno scorso - appunto fino all'apertura del centro di Chiaromonte - l'unico posto dove nel nostro paese fossero riuniti i quattro livelli terapeutici (l'ambulatorio, il day hospital, la residenza e la struttura riabilitativa). Ma soprattutto un posto speciale, dove la vita delle ragazze si scandisce in un ritmo armonioso e costante di attività diverse, dalla musica all'arte alla danza, capaci di attirarle fuori dalla solitudine di cui sono prigioniere e di dare loro, anche grazie a un rapporto più equilibrato con il cibo, una nuova percezione del proprio corpo e di sé.
All'ingresso, una citazione di Plotino, «L'anima ha bisogno di un luogo», riassume meglio di tante parole l'orientamento dei terapeuti di Palazzo Francisci. (E infatti, proprio questo titolo ha scelto la responsabile del centro umbro, Laura Dalla Ragione, per un saggio sui disturbi alimentari e la ricerca dell'identità scritto insieme alla specialista di medicina integrata Simonetta Marucci e appena uscito per Tecniche nuove).
Realizzato in tempi eccezionalmente brevi, un anno circa, grazie all'impegno della Asl di Lagonegro ma anche del sindaco di Chiaromonte, Luigi Viola, che ha da subito creduto molto in questo progetto, il centro «Giovanni Gioia» è davvero «un luogo per l'anima». Da fuori, l'edificio che lo accoglie, un piccolo ospedale costruito negli anni Sessanta e oggi dismesso, appare piuttosto anonimo, simile a tante strutture sanitarie dello stesso tipo sparse per l'Italia. Oltrepassata la porta, però, appare evidente lo sforzo dei responsabili di dare agli ambienti un calore che non ha nulla di ospedaliero, dalle camere a due letti, non troppo diverse - con le loro scrivanie, le coperte colorate e i manifesti alle pareti - da quelle che gli ospiti (per lo più ragazze sui vent'anni, ma anche donne mature e perfino un fragile adolescente appena arrivato, e all'apparenza ancora smarrito) hanno lasciato nelle loro case, ai grandi ambienti comuni, dove la giornata scorre secondo un calendario ben cadenzato. Un ordine tranquillo e insieme rigoroso che gli ospiti si sono impegnati, al momento dell'ingresso, ad accettare, firmando un preciso «contratto terapeutico».
Sono queste regole di base - prendersi cura della propria salute, evitare comportamenti autolesivi, come nascondere cibo o bere quantità esagerate di acqua o girare per la residenza nelle ore notturne - a rappresentare il primo passo verso la guarigione, grazie al sostegno costante di un nutrito numero di operatori. In tutto, infatti, la «casa» accoglie sedici ospiti, più dieci in semiresidenza, continuamente assistiti da una quarantina di diverse figure: educatori, psicologi, dietisti, terapeuti che si occupano delle varie attività, dall'arte alla educazione corporea e perfino all'ippoterapia e all'onoterapia (gli umili asini si sono rivelati terapeuti incredibilmente efficaci).
«A un anno circa dall'apertura del centro, il bilancio è molto positivo» commenta con evidente orgoglio la responsabile del centro, la psicoterapeuta Rosa Trabace, che non nasconde tuttavia la difficoltà di far funzionare un sistema complesso, così lontano dal rigido modello ospedaliero e basato invece sull'incrociarsi di competenze diverse: «C'è un grande investimento di energie, ma al termine dei tre o quattro mesi del periodo di residenza le ragazze sono finalmente pronte ad affrontare la fase forse più delicata, il rientro a casa, che prevede comunque una serie di incontri di sostegno».

Nuovi progetti
Mentre escono chiacchierando a bassa voce dalla grande sala dedicata alle attività artistiche, tutta tappezzata di disegni e di collage, le ragazze assomigliano a tante loro coetanee, le facce sorridenti, le felpe colorate, le unghie smaltate di nero. Sarà al momento dello spuntino di metà mattina (uno dei cinque pasti in cui si cadenza la giornata), che affiorerà un po' di smarrimento, di tensione. Davanti al frutto o alla fetta biscottata - ogni ospite ha un programma di alimentazione individuale, studiato da dietologi e nutrizionisti - qualcuna sembra perdersi in un vortice scuro di timori. Ma gli educatori e la dietista girano fra i tavoli, incoraggiando le riluttanti con una battuta, un sorriso. I tempi devono essere rispettati, non è consentito attardarsi.
In un'altra sala, due terapeute, in attesa dell'arrivo delle ospiti, dispongono sul pavimento una serie di immagini di fiori tutti diversi: è un progetto nuovo, spiegano, che coinvolge numerose attività, dall'arte alla musica all'espressione corporea, e che porterà (ma le ragazze non lo sanno ancora) a una sorta di piccolo spettacolo finale. Osservando questi fiori così attraenti nella loro varietà e immedesimandosi nelle loro forme attraverso immagini, suoni, movimenti, le ragazze potranno cominciare a riflettere da una prospettiva che avevano dimenticato su di sé e sul proprio corpo, questo corpo che è al centro della loro ossessiva attenzione e che nei tre o quattro mesi di ricovero imparano, alla lettera, a «riscoprire».

Educazione all'autostima
Non ci sono specchi, infatti, sulle pareti del centro, ma una volta la settimana ognuna a turno incontra, guidata dallo psicoterapeuta, la propria immagine, in quello che rappresenta uno dei momenti più importanti di questo percorso tanto faticoso quanto affascinante. «La terapia dello specchio - spiega la psicologa Ada Nubile - si scandisce in sette appuntamenti, dal primo, in cui la ragazza si guarda ancora avvolta negli abiti ampi che il regolamento prevede, fino all'ultimo, quando arriva il momento di affrontare il corpo nella sua nudità, coperto solo da un costume da bagno». Una progressiva educazione alla autostima e alla percezione realistica della propria immagine, ma anche, soprattutto, il ritrovamento dentro di sé di quel «luogo» che «l'anima» sembrava avere smarrito.