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Dittature militari in America Latina. L'esperienza argentina

di Giuliana Gianna - 26/01/2008


Nei due decenni che vanno dagli anni Sessanta alla fine degli anni Settanta, in molti paesi latinoamericani si sono registrate svolte autoritarie concretizzatesi in colpi di stato guidati dai militari. Lo scopo era quello di abbattere i regimi democratici che in questa sfera del nuovo continente hanno sempre stentato a consolidarsi. L’eco della rivoluzione cubana che a partire dal 1959 instaura nell’isola caraibica un regime che legherà la sua sopravvivenza, in epoca di guerra fredda, all’alleanza con l’Unione Sovietica, era destinato ad avere un seguito in tutto il continente latinoamericano dove invece gli Stati Uniti d’America, per motivazioni strategiche e geopolitiche, non intendevano far sviluppare gli ideali promossi dalla rivoluzione. Le dittature militari di questi anni, quindi, sono caratterizzate dalla paura che in alcuni paesi possano prevalere regimi politicamente ostili agli Stati Uniti.


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La politica degli Stati Uniti riguardo alle altre nazioni americane, agli inizi del XX° secolo, si fondava sulla dottrina di Monroe e sul “corollario” che il Presidente Theodore Roosevelt aveva formulato nel 1904 secondo il quale Washington ammetteva l’intervento negli affari delle Repubbliche americane escludendone gli europei. Progressivamente gli americani abbandonarono il “corollario” Roosevelt ed il metodo dell’intervento militare, iniziando così a stemperare questa politica ma senza tuttavia rinunciare mai al diritto di intervento.
Questo atteggiamento, che sembrava in qualche modo annunciare la politica di buon vicinato che Roosevelt inaugurerà nel 1933, si manifestò nelle riunioni delle conferenze panamericane e negli sforzi americani per mettere fine ai conflitti tra i Paesi dell’America del Sud. Il dopoguerra, tuttavia, portò ad un raffreddamento tra i Paesi latino americani e gli Stati Uniti. Sul piano economico, infatti, il programma Marshall aveva provocato lo scontento di numerose Repubbliche americane in quanto gli aiuti governativi degli Stati Uniti ai paesi latino americani erano in effetti limitati e gli investimenti principali in questi paesi provenivano solamente da capitali privati.
Tra tutti gli Stati sud americani, l’Argentina fu quello che intrattenne i rapporti meno buoni con gli Stati Uniti. Durante la guerra, grazie alla presenza di numerosi immigrati tedeschi, le organizzazioni naziste furono molto attive in Argentina e la Germania vi investì importanti capitali. Sebbene all’inizio, l’Argentina si rifiutasse di rompere le relazioni diplomatiche ed economiche con l’Asse, il 27 marzo 1945, si decise finalmente a dichiarare guerra alla Germania e al Giappone, senza dubbio per essere ammessa alle Nazioni Unite e regolarizzare di conseguenza i suoi rapporti con l’Inghilterra e gli Stati Uniti.
Riprese le relazioni diplomatiche fra i due paesi, Spruille Braden nominato ambasciatore Usa a Buenos Aires, ingaggiò una lotta accanita contro il governo argentino rimproverandogli la sua mansuetudine verso l’Asse e il suo carattere dittatoriale, lo scopo era quello di rendere impopolare il colonnello Peròn e di impedirgli di essere eletto alla Presidenza della Repubblica. Eletto presidente il 24 febbraio 1946, Peròn fece mostra di avvicinarsi all’Urss, ma questa politica non durò molto e il 2 agosto, il generale dichiarò che l’Argentina sarebbe stata sempre nel campo degli Stati Uniti precisando che “il comunismo è un grande pericolo che minaccia tutte le democrazie occidentali”. I rapporti tra i due Paesi americani migliorarono senza divenire mai realmente buoni.
Sebbene in piena guerra fredda l’America Latina fosse stata dichiarata zona di influenza degli Stati Uniti ciò non si tradusse subito in un maggior dominio sull’America Latina, grazie anche al rafforzamento del meccanismo panamericano, il quale tuttavia non valse ad impedire che l’America latina diventasse campo di infiltrazione della propaganda o degli interessi commerciali europei. Così dopo la fase costruttiva degli anni del buon vicinato, sotto la superficie di una crescente collaborazione, si formavano le crepe di un nuovo e più profondo dissenso. La guerra aveva accelerato il cambiamento socio-economico dell’America Latina e l’impegno finanziario degli Stati Uniti e le relazioni tra le due Americhe non potevano che risentire sia dello spostamento del fulcro degli interessi degli stessi Stati Uniti sia del crescente peso che la superpotenza americana esercitava nel mondo.
I rapporti con l’Argentina non furono segnati dal problema del comunismo ma dal proseguire della rivalità già esistente prima e dopo la seconda guerra mondiale. La diffusa ostilità verso gli Stati Uniti che si era attenuata durante la fase della politica di buon vicinato era ricomparsa massicciamente nel dopoguerra. L’esempio argentino divenne ben presto contagioso ma incominciò a preoccupare gli americani solo allorchè apparvero in esso venature filosovietiche o filocomuniste. Fu solo a partire dagli anni Sessanta che l’America latina venne investita dalla competizione Usa-Urss. La crisi di Cuba nel 1962 e l’affermazione del castrismo imposero al governo di Washington di riconsiderare la sua strategia latino americana, senza limitarsi a una politica di tolleranza verso tutto ciò che non turbava la supremazia degli Stati Uniti; in secondo luogo, mostrava che l’America Latina attraversava fasi di tensione socio-economiche che potevano spalancare le porte al ripetersi di casi uguali a quello cubano, imponeva quindi una politica di sorveglianza che oltrepassava la soglia dell’attenzione generica e richiedeva forme di intervento più diretto. “Pur di evitare infiltrazioni comuniste, anche i regimi dittatoriali dovevano essere tollerati e aiutati”: la percezione del mutamento in atto era stata chiaramente mostrata da Kennedy con l’avvio dell’Alleanza per il progresso nel 1961. All’inizio degli anni Settanta la svolta generale verso la formazione di governi militari venne accolta senza turbamenti da parte dell’amministrazione Nixon, se non altro perché buona parte degli ufficiali che li sostenevano erano stati formati in accademie degli Stati Uniti.
Nel corso di questi anni, dunque, i governi democratici di molti paesi latino americani vengono progressivamente abbattuti per essere sostituiti da regimi militari dittatoriali. L’esilio diventa in questa fase un fenomeno di massa, uno delle innumerevoli armi di repressione sistematicamente usate dai militari per eliminare dissidenti, oppositori politici o presunti tali. Nelle nazioni in cui si instaurano tali regimi ha inizio una vera e propria “guerra interna” contro il “nemico interno” che provoca numerosi vittime e ripetute violazioni dei diritti umani.
Il concetto di “nemico interno” venne rielaborato in America Latina, negli anni Sessanta e Settanta, ed adattato dai vertici militari delle dittature golpiste in funzione difensiva, anticomunista e antisovversiva in generale. In un clima di Guerra Fredda e di scontro tra Est ed Ovest, l’idea alla base di questa rielaborazione è quella per cui si considera che il pericolo per uno stato non provenga più tanto da minacce esterne, che possono quindi minare le frontiere geografiche della nazione, bensì da minacce interne, dai sovversivi, che possono minacciare le “frontiere ideologiche” dello Stato. In sintesi, in nome dell’anticomunismo e per paura che gruppi e partiti d’ispirazione marxista, presenti negli stati latinoamericani, potessero destabilizzare o minacciare gli interessi economici e geopolitici, gli Stati Uniti iniziano a promuovono e finanziare colpi di stato e repressioni in diversi paesi del Sud America. Posto in questi termini però il discorso risulta riduttivo e come spesso si è fatto, si rimanda a fattori unicamente esterni la complicata analisi legata alle dittature militari degli anni Sessanta e Settanta. Infatti va ricordato che in molti paesi latinoamericani l’intervento diretto e indiretto dell’esercito nella politica e nell’amministrazione dello stato è una pratica consolidata sin dai processi di indipendenza dal regno iberico avvenuti durante la prima metà dell’Ottocento .
Nel corso degli anni Settanta quindi regimi militari prendono progressivamente il potere in tutto il Cono Sud del continente latinoamericano, anche in quei paesi con consolidate tradizioni democratiche quali il Cile e l’Uruguay, mentre in altri paesi come Brasile, Paraguay, Argentina e, più in generale, nelle repubbliche centroamericane, l’esercito, che a più riprese interviene nella vita politica dello stato, inaugurerà una nuova stagione di colpi di stato militari che si differenzieranno notevolmente dai precedenti soprattutto per l’intensità e la brutalità dei metodi repressivi.
Particolarmente complicato risulta analizzare le ragioni per cui anche in Argentina nel 1976 i militari si impossessarono, attraverso un colpo di stato, del potere politico. Per spiegarlo occorre immediatamente dire che l’Argentina, a differenza del Cile e dell’Uruguay, nel corso della sua storia politica ha assistito a numerosi colpi di stato, tanto che questa pratica sembra quasi acquisita all’interno del normale alternarsi dei governi del paese. La lunga notte dei golpe, dittature e contraccolpi armati in Argentina inizia nel 1930 e termina veramente solo nel 1983. In più di cinquanta anni di storia solo due presidenti riescono a giungere alla fine del loro mandato di governo, che la costituzione argentina fissa in sei anni, e non è un caso che siano entrambi ex generali dell’esercito in congedo.
Ogni dieci anni, infatti, il paese vede alternarsi un golpe militare. Il 6 settembre 1930 il generale José Félix Uriburu prende il potere deponendo il presidente Hipólito Yrigoyen. Da questo momento fino al 1940 i militari di fatto sono l’ago della bilancia della politica argentina, nessun Presidente di nessun partito può governare la nazione senza il loro consenso. Nel giugno del 1943, mentre i politici dei vari partiti sono divisi tra interventisti e chi invece preferisce tenere fuori l’Argentina dal secondo conflitto mondiale, i militari escono dalle caserme per prendere nuovamente le redini del potere politico. Perón arriva al potere con l’intenzione di fare dell’Argentina una nazione “economicamente libera, politicamente sovrana e socialmente giusta”.
Per capire un po’ meglio questo movimento sociale e politico che prende nome dal suo leader carismatico a cui ancora oggi nell’Argentina contemporanea partiti, leader politici e presidenti si rifanno, è utile ricordare che “il peronismo – come movimento politico – non dà solo voce e protagonismo a strati sociali fino a quel momento invisibili e silenziosi. Con la sua particolare struttura argomentativa il messaggio peronista compie infatti una doppia operazione: mentre innalza le masse allo status di soggetto di cittadinanza politica, rafforza i tratti carismatici di un leader che appare come l’enunciatore di una proposta di giustizia sociale unificatrice di entità quali la Nazione, il Popolo, la Patria”. Inoltre l’avvio del fenomeno peronista significò il superamento di vecchie differenze e contrapposizioni, giacchè a partire da Peròn l’accettazione o il rifiuto della sua leadership divennero elementi di definizione politica. Peròn si trasformò quindi nell’incarnazione dell’identità argentina, era riuscito a recuperare l’Argentina dalle mani degli stranieri vendicando anche il vecchio senso di umiliazione nei confronti dell’Europa e degli Stati Uniti.
L’Argentina resta sotto i controllo di Perón fino al 1955. A settembre di questo anno le forze armate con un colpo di stato lo allontanano dalla presidenza. Il generale Eduardo Lonardi diventa presidente provvisorio dichiarando l’avvento di una revolución libertadora che non avrà “né vincitori né vinti” . Ha inizio, da questo momento in poi, un periodo in cui i peronisti saranno esclusi dalla vita politica del paese, un periodo in cui i governi che si avvicendano cercheranno sistematicamente di smantellare il modello politico costruito nel decennio precedente. Appare chiaro come la vita politica di un paese in cui si assiste all’esclusione di una consistente forza politica e sociale come il peronismo non possa procedere verso la stabilità e l’equilibrio democratico. Gli anni in cui Perón è costretto all’esilio 1955-1973 l’Argentina è infatti percorsa da continue tensioni sociali che vedono contrapporsi due parti. Non è un caso che si parli di “sistema politico dualista” in cui da un lato operano i settori popolari che si identificano con il peronismo e che sono spesso costretti ad esercitare la loro pressione in maniera extra-istituzionale, e dall’altro quei settori che intendono ricostruire le libertà e il pluralismo. Questo “dualismo” costringe l’Argentina ad una lacerazione interna dovuta alla polarizzazione tra settori popolari e fronte antiperonista. Il nazionalismo restauratore continuava a influenzare ideologicamente i diversi governi militari: questi accoglievano con soddisfazione l’eredità totalizzante ed escludente che dalla fine dell’Ottocento serviva a definire l’identità e si proponevano come i depositari assoluti dell’argentinità e gli artefici della salvezza della nazione. Furono questi i principi con i quali il golpe del 1976 insediò nel paese la dittatura più sanguinosa della storia argentina.


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Con la Revoluciòn Libertadora si apre in Argentina un’altra fase di forte violenza politica con la messa al bando del partito di maggioranza e le organizzazioni ad esso legate. Si incrementa l’apertura verso il mercato mondiale e si avvia un progressivo smantellamento dell’industria nazionale con un conseguente aumento di precarietà del lavoro. Il clima politico diventa teso e a causa dell’acuta instabilità politica si susseguono diversi capi di governo. Nel 1971 il capo dell’Esercito, il generale Alejandro Lanusse, assume la presidenza e indice le elezioni a cui, per la prima volta dopo tanti anni, saranno ammessi esponenti peronisti. Come gesto di buona volontà, Lanusse restituisce a Perón la salma imbalsamata di Evita, nascosta dai militari con l’aiuto della gerarchia ecclesiastica in un cimitero italiano. A novembre Perón torna in Argentina, acclamato da migliaia di persone, ma poiché il suo arrivo è avvenuto dopo il termine stabilito da Lanusse , non può presentarsi alle elezioni e quindi torna a Madrid. Al suo posto candida il suo portavoce Hector J. Càmpora e la parola d’ordine diventa: “Càmpora al Governo, Perón al potere”. L’11 marzo 1973 Càmpora viene eletto presidente. Il 20 giugno Perón intraprende il viaggio di ritorno: il suo segretario privato e ministro di Càmpora, José Lopez Rega, un ex caporale della Polizia e astrologo esoterico, fa collocare un contingente armato sul palco dove Perón terrà il suo primo discorso dopo il ritorno in Argentina. Il ritorno festeggiato da più di due milioni di persone si concluderà in un massacro. Perón costringe Càmpora alle dimissioni: si organizzano rapidamente nuove elezioni da realizzarsi nel settembre del 1973. Il 23 settembre Perón viene eletto presidente per la terza volta; vicepresidente sarà sua moglie Isabelita. Nell’esercizio del potere Perón inserisce nei posti chiave politici appartenenti alla destra reazionaria del partito (il capo della polizia Villar, come ministro del benessere sociale López Rega e come segretario generale della CGT Rucci), mentre chiede sacrifici alla classe operaia in nome del bene nazionale. Nei mesi precedenti alla sua morte, Perón seda le mobilitazioni e rinforza l’apparato repressivo dello stato. Alla sua morte, avvenuta il primo luglio del 1974, si insedia Isabelita, ma in realtà le redini del Governo sono tenute da Lopez Rega il quale crea uno stato di polizia, inaugurando la fase del terrorismo di stato con la formazione dell’Alleanza Anticomunista Argentina (detta Triple A) e di bande paramilitari al servizio del potere politico per eseguire omicidi e sequestri degli oppositori al regime. Durante l’escalation della violenza politica, del vuoto istituzionale e della crisi economica, provocata dall’aumento mondiale del prezzo del petrolio, i militari decidono di assumere direttamente il potere davanti all’indifferenza di gran parte della popolazione. Il 24 marzo del 1976 ha inizio in Argentina la dittatura militare con il triumvirato Massera (comandante della Marina), Agosti (comandante dell’Aeronautica) e Videla (comandante dell’esercito e presidente di fatto). Per le strade non si videro i classici carri armati, non ci furono scontri o morti, non si rese nemmeno necessario sparare un colpo, non ci fu bisogno di ostentare la forza. Nessuno poteva però immaginare ciò che sarebbe accaduto. Diversamente da quanto avvenuto nel vicino Cile, in Argentina non ci sono mai stati gli stadi pieni di prigionieri politici. La lezione di Pinochet era servita a qualcosa. Non si doveva provocare la condanna internazionale, ma piuttosto dare un’immagine di moderazione e legalità. Un’immagine difficile da mantenere quando ciò che si vuole coprire è l’annientamento di ogni forma di opposizione. Intorno ai desaparecidos si era alzato un muro di silenzio. Con i diritti avevano perso anche l’esistenza civile. Nessun interrogativo trovò una risposta: la Polizia non aveva visto nulla, il Governo faceva finta di non capire di cosa si stesse parlando, la Chiesa non si pronunciava, gli elenchi delle carceri non registravano le loro detenzioni, i magistrati non intervenivano. Dal momento in cui avveniva il sequestro, la persona restava totalmente isolata dal mondo esterno: depositata in uno dei numerosi campi di concentramento o in luoghi intermedi di detenzione dove veniva sottoposta a torture infernali e lasciata all’oscuro della propria sorte. Si ritiene, infatti, che la tecnica di sequestrare e far sparire le vittime della repressione sia stata in qualche modo ideata per evitare quanto verificatosi pochi anni prima in Cile all’indomani del golpe militare del generale Pinochet, quando le immagini televisive degli arresti di massa e degli oppositori ammassati negli stadi avevano fatto il giro del mondo suscitando ondate di indignazione dell’opinione pubblica mondiale. La assoluta segretezza degli arresti, viceversa, garantì per lungo tempo al regime militare argentino una sorta di “invisibilità” agli occhi del mondo. Altra finalità era quella di terrorizzare la popolazione soffocando così ogni possibile dissenso al regime. Le modalità degli arresti e l’assoluto mistero sulla sorte degli arrestati, fecero sì che le stesse famiglie delle vittime tacessero per paura, cosicché persino nella stessa Argentina per lungo tempo il fenomeno rimase taciuto, oltre che totalmente ignorato nel resto del mondo.
I golpes militari in Argentina, come in tutti i paesi dell’America Latina, godevano dell’ appoggio, oltre che delle classi più abbienti del paese, anche di quello di una parte abbastanza consistente della classe media che vedeva nei militari un forte spirito patriottico utile per affrontare i problemi economici e politici in cui il paese si trovava. Gli stessi militari che prendono il potere nel ‘76 definiscono il nuovo periodo storico come il Processo di Riorganizzazione Nazionale i cui obiettivi strategici sono: sterminare la guerriglia, riordinare l’economia e disciplinare la società. Con il pretesto di effettuare tale processo di riorganizzazione nazionale, i militari instaurano il terrorismo di Stato su grande scala: dichiarano lo stato di assedio abrogando i diritti costituzionali, sospendono le attività politiche e di associazione, chiudendo il Congressso e proibendo i sindacati, i giornali, sequestrando attivisti politici e sindacalisti. Per ottenere qualsiasi tipo di informazioni su veri o presunti nemici del regime viene istituzionalizzata la pratica della tortura, praticata in clandestini centri di detenzione nei quali vengono incarcerati i detenuti illegali. Si applica il metodo della sparizione di massa per accrescere il clima di paura e terrore tra la popolazione con l’obiettivo di paralizzare i gruppi di opposizione e si realizza anche un perverso sistema di appropriazione dei neonati delle detenute in stato di gravidanza: è l’inizio del dramma dei desaparecidos. Solo nel 1977 vengono effettuati i primi atti di denuncia: nasce l’organizzazione delle Madres de Plaza de Mayo, gli esiliati partecipano a fori internazionali per denunciare i crimini, altre associazioni si andranno formando in seguito come Familiares e Abuelas. Grazie alla loro coraggiosa azione le Madri di Plaza de Mayo, madri dei giovani desaparecidos, sfidando il regime con una protesta pacifica, riuscirono a far conoscere alla opinione pubblica mondiale il dramma che stava avvenendo nel loro Paese. Nel 1979 la Commissione interamericana dei diritti umani dell’Organizzazione degli stati americani (O.S.A) visita l’Argentina. Nel corso della visita, il gruppo tattico dell’E.S.M.A nasconde i prigionieri in un campo di concentramento clandestino provvisorio. Impiegando i documenti di uno dei detenuti e falsificandone la firma, l’ESMA acquista per conto della Curia un’isola nel delta del fiume Paranà, destinata al relax settimanale del cardinale Juan Carlos Aramburu e là vi trasferisce i detenuti. Quando l’O.S.A. lascia il paese, i prigionieri vengono riportati all’ESMA e l’isola rimessa in vendita. La relazione finale dell’O.S.A asserisce che le migliaia di desaparecidos sono state assassinate dalle forze governative dando per certo l’uso sistematico della tortura. I militari rimangono al potere fino al 1983 e il motivo della loro caduta va ricercato principalmente nell’insensata azione di guerra promossa nel 1982 dal presidente Galtieri il quale, facendosi paladino della realizzazione delle tematiche nazionaliste tanto care ai militari, decide di occupare le isole “Malvinas” (Falkland), da 150 anni nelle mani degli Inglesi. Il risultato dell’operazione bellica è disastroso e proprio sull’onda di questo altissimo prezzo pagato, l’Argentina inizia il processo di transizione alla democrazia con la destituzione di Galtieri e la salita al potere di Bignone, il quale prima di abbandonare il potere fa un ultimo regalo alla giunta militare promulgando la Legge dell’Autoamnistia. Nel dicembre 1983 il presidente Raul Alfonsìn, appena eletto, ristabilisce pienamente le libertà democratiche e le garanzie costituzionali tentando, ma riuscendovi solo in parte, di far giudicare e condannare i colpevoli dei massacri e delle torture. Il nuovo Parlamento dichiara nullo il decreto di amnistia. Con il decreto 187 del dicembre 1983 viene istituita La Comisión Nacional sobre la Desaparición de Personas per raccogliere le denuncie e le testimonianze sulle violazioni dei diritti umani e per investigare sui desaparecidos. Tutto il materiale raccolto dalla Commissione fu trasmesso alle competenti autorità giudiziarie e grazie alle informazioni raccolte fu possibile celebrare i processi che porteranno alla condanna dei vertici della giunta militare. Nel corso di circa un anno la Commissione ascolterà le testimonianze di persone passate per i centri di detenzione clandestina, revisionerà i registri carcerari e quelli dei commissariati di polizia, cercherà di risalire ai documenti dove venivano registrati i passaggi di proprietà dei beni appartenuti ai desaparecidos, visiterà i luoghi indicati come Centri di Detenzione Clandestina e chiederà istanze ai diversi uffici delle forze armate che però raramente collaborarono, adducendo come scusa che la documentazione richiesta era sotto segreto militare. I dossiers furono catalogati, schedati e consegnati in un rapporto di 50.000 pagine al Presidente della repubblica Alfonsìn e una sintesi fu pubblicata nel libro Nunca Mas che è diventato uno dei best-sellers della letteratura argentina. Il 9 dicembre del 1985 arrivano le prime condanne: la Corte federale condanna Videla e Massera all’ergastolo per omicidio pluriaggravato, privazione illegale della libertà, torture e furto; l’ex generale Roberto Viola viene condannato a 17 anni di prigione per privazione illegale di libertà, tortura e furto. La Corte suprema di giustizia ratifica queste condanne benché riduca le pene; tutta la piramide repressiva viene investita, dai capi militari di grado più elevato fino all’ultimo poliziotto e ai suoi collaboratori civili. Ma le pressioni dei militari continuano ad avere un grosso peso nella politica argentina tanto che nel 1986 viene promulgata dal Parlamento la legge del Punto Final grazie alla quale vengono estinti tutti i reati commessi da militari e poliziotti non ancora incriminati. Nonostante un ampio appoggio sociale, il governo cede alle pressioni militari e con la successiva legge della Obediencia Debida approvata dal Parlamento nel luglio 1987, si esenta dalla colpevolezza chi ha torturato o ucciso eseguendo un ordine superiore e si istituzionalizza così l’impunità con la scarcerazione di tutti i responsabili, ad eccezione degli alti comandi che rimarranno in prigione fino all’indulto presidenziale del 1990 concesso da Menem che giustificò il suo atto con “la necessità di voltare pagina e dimenticare una volta per tutte gli orrori del passato”.
Quando il governo Alfonsìn cominciò a indagare sulla sorte degli scomparsi non si trovò nulla. Tutto era svanito, disperso, dileguato, desaparecido. Il tentativo di annullare il passato, di far scomparire le sue tracce, è manifesto: anche i governi democratici che si sono susseguiti hanno scelto l’oblio. Ma il passato non scompare mai e la verità lentamente ma finalmente è emersa grazie anche alle confessioni dell’ex capitano della marina militare, Adolfo Scilingo che ha svolto servizio proprio all’ESMA. Nel 1995 Scilingo ha raccontanto in modo particolareggiato al giornalista Horacio Verbitsky la metodologia di sterminio alla quale gli stessi carnefici si riferivano con il termine vuelos (voli). Nella sua testimonianza racconta della procedura, dell’autorizzazione della Chiesa Cattolica, dell’utilizzo di iniezioni anestetiche, del tipo di aerei utilizzati (Lockheed L-188 Electra, Shorts SC.7 Skyvan 3M-400), dell’ampia partecipazione degli ufficiali. “Era qualcosa che doveva essere fatto. Non so cosa senta un boia quando deve uccidere... A nessuno piaceva farlo ma era gradevole... Era qualcosa di supremo che si faceva per il paese. Un atto supremo”. Questa breve testimonianza evidenzia chiaramente il clima di follia e di terrore che regnava in quegli anni in Argentina. Una delle conseguenze, in un certo qual modo positiva, di questa confessione è stata l’unificazione dei discorsi sulla storia argentina degli ultimi due decenni. Prima della confessione di Scilingo si è sempre parlato di una storia ufficiale e di un’altra raccontata dai pochi superstiti o dai familiari delle vittime. Durante i primi anni della dittatura le Madri di Plaza de Mayo erano infatti etichettate come Las locas de Plaza de Mayo (le pazze), quale ratifica della scissione che si era prodotta nella società argentina tra discorso ufficiale e discorso minoritario. La prima storia era documentata dagli atti di un governo dittatoriale, il loro discorso era omogeneo, il loro agire sembrava incontestabile. La seconda storia era costruita da un’immensa massa di ombre che non potevano testimoniare, da interrogativi sulla loro sorte: i desaparecidos furono con la loro assenza la principale accusa contro il terrore. Con la confessione di Scilingo la storia finalmente si unifica e sempre grazie alla sua testimonianza è stato possibile ricostruire le varie fasi della metodologia di sterminio. I gruppi operativi, conosciuti come patotas, erano i commandos addetti al sequestro: le “patotas” erano costituite da membri dei vari corpi dell’esercito, che solitamente prendevano il comando delle operazioni, e da componenti scelti tra le forze dell’ordine. All’inizio la patota arrivava a tarda notte a bordo di un mezzo rubato, solitamente un Ford Falcon verde. Con il passare del tempo e quando il terrore si era già impadronito della società civile, arrivavano anche in pieno giorno con operazioni sui luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università o nei bar. Quando trovavano dei bambini li portavano via e, se molto piccoli, venivano regalati o venduti a famiglie di militari o poliziotti che non potevano avere figli. In pochissimi casi la patota lasciava i figli ai vicini o davanti ai portoni degli orfanotrofi e degli ospedali. Se non trovavano la vittima in casa al momento dell’irruzione, restavano ad attenderla prendendo come ostaggi i familiari e tutti quelli che entravano nell’abitazione. I membri delle patotas si muovevano per tutto il paese sotto falso nome, con documenti contraffatti e con auto rubate. Godevano dell’incondizionata protezione del governo militare e venivano utilizzati, oltre che per il sequestro dei sovversivi, anche per operazioni di indubbia illegalità. Dopo il sequestro entravano in gioco i gruppi addetti al saccheggio che portavano via dalle abitazioni mobili e mercanzie varie che costituivano il bottino di guerra e che veniva diviso tra gli stessi membri della patota o con i diretti superiori.
Si volle soprattutto evitare di ripetere gli errori commessi da Pinochet in Cile, dove i militari fecero spettacolo della violenza e della ferocia con cui si reprimeva il popolo. Non ci furono a Buenos Aires gli stadi pieni di detenuti, non ci fu il bombardamento del palazzo presidenziale, così tragicamente evidenziato dalla morte del presidente eletto dal popolo, come a Santiago; non ci furono carri armati per le strade; la città sembrava normale, le operazioni si facevano con camion e macchine senza targa, di notte, con uomini in borghese. Nacque così l’idea strategicamente brillante dei desaparecidos, cioè quella di far scomparire nel nulla le persone prelevate; il che da una parte paralizzava la famiglia, che continuava a sperare che la persona ritornasse e non voleva renderne più difficile la situazione, ma dall’altra toglieva ogni evidenza iconografica all’informazione e la mancanza di immagini metteva in dubbio l’esistenza stessa della repressione. Quello cileno fu un golpe trasmesso praticamente in diretta, nel senso che le cose avvenivano alla luce del sole, si vedevano sequestrare le persone, si poteva visitare uno stadio, che poi è diventato un po’ il simbolo della dittatura cilena, dove settemila persone erano recluse e torturate alla vista della stampa internazionale. Gli argentini, invece, fin dal primo momento operano nella clandestinità, nel buio e nel silenzio. Il golpe aveva come obiettivo il raggiungimento della pace sociale, dell’ordine e della stabilità, attraverso l’eliminazione di qualunque possibile oppositore: sindacalisti, intellettuali, studenti e soprattutto i giovani. Le Forze Armate studiarono bene un piano per sterminare tutti gli oppositori, oppositori anche ideologici; questa è l’anomalia della tragedia argentina, non gli oppositori in armi, ma chi dissentiva sul piano economico, sul piano sociale; chi faceva il catechismo nelle borgate era considerato un sovversivo e in quanto tale veniva sequestrato e ucciso, perché frequentare i poveri era sovversione. Anche la Chiesa cattolica non prese una decisa e ferma posizione di condanna: se da un lato diversi sacerdoti vennero perseguitati per il loro impegno a favore dei poveri e dei bisognosi, dall’altro le alte gerarchie ecclesiastiche preferirono mantenere private frequentazioni con personaggi in vista della Giunta militare. E solo nel 1997 la Chiesa Argentina ha prodotto la tanta attesa autocritica ammettendo la complicità di alcuni suoi esponenti con la giunta militare.
Una adeguata presa di posizione, nei riguardi della vicenda dei desaparecidos, che pure interessava un gran numero di cittadini italiani, non si ebbe neppure in Italia, dove l’attenzione politica era distratta dal terrorismo dilagante in quegli anni. Tra i due paesi vi erano rilevanti rapporti economici, essendo l’Argentina interessata, tra l’altro, all’acquisto di armi e di imbarcazioni militari e che assai stretti erano i legami tra alcuni capi militari argentini e la Massoneria deviata di Licio Gelli. L’ammiraglio Massera, dal quale dipendeva l’ESMA, uno dei più famosi luoghi di tortura e di repressione, era stato appoggiato da Gelli nella sua nomina al comando della Marina e, in cambio, quando entrò a far parte della Giunta, si adoperò per far aprire in brevissimo tempo a Buenos Aires gli sportelli del Banco Ambrosiano, che era in mano alla P2; e lo stesso Massera, quando andò in congedo e si diede alla politica, venne ancora appoggiato e finanziato dal Banco Ambrosiano. Alla P2 apparteneva anche Carlos Guillermo Suarez Mason, comandante del I corpo dell’Esercito. L’esistenza di questi legami poteva dare una spiegazione del perché la tragedia argentina non avesse trovato il giusto spazio sulla stampa italiana e, in particolare, su giornali come “Il Corriere della Sera”, che in quel tempo era controllato dalla P2. Un atteggiamento di indifferenza e di silenzio venne tenuto anche dall’ambasciatore d’Italia a Buenos Aires, il quale accolse l’invito dei militari a negare l’asilo politico alle persone ricercate, come se effettivamente si trattasse di delinquenti comuni, oggetto di normali operazioni di polizia. Si preferì anteporre il mantenimento di buoni rapporti con i militari al potere, a tutela degli interessi dei grandi gruppi italiani, pubblici e privati, contribuendo alla politica di oscuramento voluta dai generali argentini sulla violenza in corso. In questo modo l’opinione pubblica, il popolo italiano non avrebbe potuto riproporre quegli atteggiamenti di ripulsa che pochi anni prima costringevano all’ostracismo il Cile di Pinochet. Il golpe argentino, a differenza di quello cileno, fu caratterizzato da una violenza più subdola e sotterranea: non ci furono né carri armati né posti di blocco né soldati. I giornalisti di tutto il mondo non trovano quindi un’immagine simbolo del golpe, un quadro che riesca ad immortalare la tragedia argentina. Apparentemente la vita del popolo argentino continua quieta e tranquilla. Oggi sappiamo che la violenza di Videla fu molto superiore rispetto a quella che caratterizzò il golpe Pinochet. E’ quindi interessante cercare di capire cosa è successo: perché il dittatore cileno è stato escluso dalla comunità internazionale mentre i generali argentini hanno potuto continuare tranquillamente ad intrattenere rapporti diplomatici con tutto il mondo? La differenza tra il Cile e l’Argentina risiede anche nella modalità della repressione. In Argentina si è optato per una eliminazione scientifica degli oppositori e dei giovani, ma in un modo che non potesse essere colto dai media televisivi. Questa opera di occultamento ha fatto sì che le televisioni non potessero rappresentare ciò che stava accadendo. Sulla stampa internazionale sono saltuariamente apparsi interessanti articoli, che non riuscivano però a bucare l’indifferenza che accompagnava ciò che avveniva in Argentina. Abbiamo assistito ad una collaborazione tra i governi occidentali ed i militari argentini per fare in modo che la stampa non mettesse in rilievo le violenze. Il fine della tecnica repressiva scientifica utilizzata dagli argentini era quello di evitare che succedesse quello che era accaduto in Cile: si voleva evitare di dover interrompere i rapporti diplomatici. La politica estera delle democrazie occidentali, Italia compresa, privilegiò la tutela degli interessi economici presenti in Argentina a scapito della difesa dei diritti umani.
Il 25 maggio 2003, eletto presidente della Repubblica Argentina, Nestor Kirchner, dopo tanti anni inaugura una svolta nella triste sequela di indulti e perdoni dei suoi predecessori. Già nella sua campagna elettorale Kirchner non aveva fatto mistero di essere stato negli anni Settanta, insieme con la moglie, un simpatizzante della sinistra peronista e di avere perduto tanti amici durante la Guerra Sporca. A pochi giorni dal suo insediamento rimuove, sostituendoli, alcuni tra gli alti vertici militari provocando un generale scontento tra le Forze Armate. Instaura un dialogo e una profonda collaborazione con le organizzazioni delle Madres, Abuelas e Familiares dei desaparecidos e il 12 agosto 2003 il parlamento argentino sancisce la nullità delle leggi del Punto Final e dell’Obbedienza Dovuta grazie alle quali i criminali militari, oltre ad aver goduto dell’impunità in Argentina, erano anche riusciti ad eludere le tante richieste di estradizione dei giudici italiani e spagnoli. Inoltre Kirchner aderisce alla Convenzione delle Nazioni Unite che sancisce la non applicabilità della prescrizione ai crimini di guerra e ai crimini contro l’umanità e presenta al parlamento un disegno di legge per rendere questa Convenzione costituzionale. Si apre così una nuova stagione nella giustizia argentina: diversi giudici hanno iniziato dei procedimenti contro i criminali della dittatura appellandosi alla nullità delle leggi del Punto Final e dell’Obbedienza Dovuta. Nel gennaio del 2004 il governo Kirchner stabilisce che la ESMA diventi un museo che mantenga vivo il ricordo delle atrocità del terrorismo di stato e la lotta delle organizzazioni per i diritti umani. Il 24 marzo 2004 con una solenne cerimonia davanti a una folla sterminata e rivolgendosi alle Madri, alle Nonne, ai Figli e ai Familiari dei desaparecidos Nestor Kirchner chiede pubblicamente perdono per le atrocità commesse dallo Stato nella decade della dittatura e si scusa, a nome dello Stato, per averlo fatto con tanto ritardo. La ESMA, il principale Centro di Detenzione Clandestina, simbolo della repressione veniva donata alla città di Buenos Aires per diventare Museo della Memoria. Si calcola che più di 30.000 persone siano state eliminate durante la guerra sporca al terrorismo; tuttavia, il criterio con il quale circa un migliaio di prigionieri dei Centri di Detenzione Clandestina furono liberati, passando dalla detenzione illegale a quella legale, attraverso il processo di recupero, non ha ancora trovato una spiegazione unanime. E’ ipotizzabile che almeno una parte di loro sia stata liberata grazie ai familiari che erano riusciti ad ottenere l’intercessione di qualche influente membro delle forze armate o di qualcuno appartenente a strati della società a loro vicini, che potevano essere alti prelati o industriali. Ci sono testimonianze di pagamenti di riscatto grazie al quale il detenuto riusciva a passare dalla detenzione illegale a quella legale e poi liberato, ma non sempre, però, il pagamento di un riscatto portava alla liberazione del sequestrato.