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Una pagina al giorno: l'infanzia negata di Giovanni Papini

di Francesco Lamendola - 18/03/2008

 

 

 

 

"Io non sono mai stato bambino. Non ho avuto fanciullezza.

"Calde e bionde giornate di ebbrezza puerile; lunghe serenità dell'innocenza; sorprese della scoperta quotidiana dell'universo: che son mai? Non le conosco o non le rammento. L'ho saputo dai libri, dopo; le indovino, ora, nei ragazzi che vedo; l'ho sentite e provate per la prima volta in me, passati i vent'anni, in qualche attimo felice di armistizio o di abbandono. Fanciullezza è amore, letizia, spensieratezza, ed io mi vedo, nel passato, sempre, separato, meditante.

"Fin da ragazzo mi son sentito tremendamente solo e diverso - né so il perché. Forse perché i miei eran poveri o perché non ero nato come gli altri? Non so: ricordo soltanto che una zia giovane mi diede il soprannome di vecchio a sei o sett'anni e che tutti i parenti l'accettarono. E difatti mene stavo il più del tempo serio e accigliato: discorrevo pochissimo, anche con gli altri ragazzi; i complimenti mi davan noia; i gesti mi facevan dispetto; e al chiasso sfrenato dei compagni dell'età più bella preferivo la solitudine dei cantucci più ritirati della nostra casa piccina, povera e buia. Ero, insomma, quel che le signore col cappello chiamano un bambino scontroso e le donne in capelli un rospo.

"Avevan ragione: dovevo essere, ed ero, tremendamente antipatico a tutti. E mi ricordo che sentivo benissimo intorno a me questa antipatia la quale mi faceva più timido, più malinconico, più imbronciato che mai.

"Quando mi ritrovavo per caso con altri ragazzi non entravo quasi mai nei loro giochi. Mi piaceva star da parte a guardarli coi miei occhi verdi e seri di giudice e di nemico. Non per invidia: era piuttosto disprezzo quel che sentivo dentro in quei momenti., Fin da quel tempo incominciò la guerra fra me e gli uomini. Io li sfuggivo e loro mi trascuravano; non li amavo e mi odiavano. Fuori, nei giardini, chi mi scacciava e chi mi rideva dietro; a scuola mi tiravano i riccioli o mi accusavano ai maestri; in campagna, anche in villa dal nonno, i ragazzi dei contadini mi tiravan le sassate, senza che avessi fatto nulla a nessuno, quasi sentissero ch'ero d'un'altra razza. I parenti m'invitavano o mi accarezzavano quando proprio non potevano farne a meno, per non mostrare davanti agli altri una parzialità troppo indecente; ma io mi accorgevo benissimo della finzione e mi nascondevo e ad ogni loro parola rispondevo sgarbato ed acerbo.

"Un ricordo più i tutti gli altri s'è inciso nel mio cuore: umide serate domenicali di novembre o dicembre, in casa del nonno, col vino caldo in mezzo alla tavola, dentro una zuppiera, dentro il gran lume a petrolio bronzato; col vassoio delle bruciate accosto e tutta la famiglia - zii e zie, cugini e cugine, in quantità - coi visi rossi attorno.

"Il patriarca, accanto al fuoco, bianco ed arguto, rideva e beveva. Scoppiettavano i ciocchi già mezzi coperti di cenere delicata; sbattevano i bicchieri sui piatti; squittivano le zie bigotte e sapute sui casi e gli scandali della settimana e i ragazzi ridevano e strillavano in mezzo al fumo turchino dei sigari paterni. A me tutto quel brusio di festa economica e idiota faceva male all'anima e al capo. Mi sentivo straniero lì dentro, lontanissimo da tutti. E appena mi riusciva passavo di nascosto la porta e a passi prudenti, rasente il muro umidiccio, m'inoltravo nell'andito lungo e tenebroso che portava fin all'uscio di casa. E lì sentivo il mio piccolo cuore di solitario che batteva con veemenza, come se stessi per far un non so che di male, per commettere un tradimento. In quell'andito v'era una porta vetrata che dava sopra una corticina scoperta: la schiudevo appena e mi mettevo ad ascoltar l'acqua che veniva giù stanca e a malincuore, rimbalzando sui mattoni e sulle pozze; che veniva giù senz'entusiasmo, senza furia, ma con l'ostinatezza lenta e odiosa di qualcosa che non finirà mai. Ed io l'ascoltavo nel buio, col freddo nel viso e cogli occhi bagnati e se dallo spiraglio qualche goccia mi schizzava d'un tratto sulla carne mi sentivo felice, come se quella stilla venisse a purificarmi, a invitarmi altrove, fuori delle case e delle domeniche.  Ma una voce mi richiamava alla luce, al supplizio, ai commenti. «Che ragazzo maleducato!».

"Sì, è vero: io non sono mai stato bambino. Sono stato un vecchio e un rospo pensoso e scontroso. Fin da allora il meglio della mia vita era dentro di me. Fin da quel tempo, tagliarmi fuori dall'affetto e dalla gioia, mi rintanavo, mi distendevo in me stesso, nella fantasticheria bramosa, nella solitaria ruminazione del mondo rifatto attraverso l'io. Non piacevo agli altri e l'odio mi rinchiuse nella solitudine. La solitudine mi fece più triste e spiacente; la tristezza serrò il cuore ed  aizzò il cervello. La diversità mi staccò anche dai prossimi e la separazione mi fece sempre più diverso. E fin da quel principio di vita cominciai a gustare la virile dolcezza di quell'infinita e indefinita malinconia che non vuole sfoghi e consolazioni, ma si consuma in sé stessa, senza scopo, creando a poco a poco quell'abitudine della vita interna e solitaria, che si allontana per sempre dagli uomini.

"No: io non ho mai conosciuto la fanciullezza. Non ricordo affatto d'essere stato bambino. Mi rivedo, sempre, selvatico e soprappensiero, appartato e silenzioso, senza un sorriso , senza uno scoppio di franco piacere. Mi rivedo pallido e attonito come nel primo ritratto.

"La fotografia è strappata a metà, sotto il cuore. È piccina, sudicia e stinta: i bordi del cartoncino son neri, come le cornici dei morti. Un viso sbiancato di bambino astratto guarda verso sinistra, e si sente che lì a sinistra, difaccia a lui, nessuno lo guarda. Gli occhi son tristi, un po' affossati - non son venuti bene? - la bocca è chiusa a forza, coi labbri un po' soprammessi, per non far vedere i denti. Unica bellezza: i riccioli morbidi, lunghi, inanellati che cascan giù sul bavero della marinara.

"La mamma dice che son io a sett'anni. Può essere. Questo ritratto è l'unica prova che resti della mia fanciullezza. Ma vi par forse questo un ritratto di bambino? Questo piccolo spettro slavato, che non mi guarda, che non vuol guardare nessuno?

"Si vede subito che quegli occhi non son fatti per tingersi del celeste del cielo: son bigi, son nuvolosi di suo. Quelle gote s'indovina che son bianche, che son pallide e che saranno rosse soltanto per fatica o vergogna. E quelle labbra così chiuse, volontariamente chiuse, non son fatte per aprirsi al riso, alla parola, alla preghiera, a grido. Son le labbra serrate di chi patirà senza la seccante debolezza dei lamenti. Son labbra che verranno baciate troppo tardi.

"In questa mezza fotografia sbiadita ritrovo l'anima morta di quei giorni; il viso delicato del rospo; il cipiglio dello scontroso; l'accoramento calmo del vecchio. E mi si stringe il cuore ripensando a tutti quei giorni smorti, a quegli anni infiniti; a quella vita rinchiusa, a quella mestizia senza motivi; a quella nostalgia incancellabile d'altri cieli e d'altri camerati.

"No, no: quello non è il ritratto di un bambino. Io vi ripeto che non ho avuto fanciullezza."

 

Dal momento che con la serie di articoli Una pagina al giorno - come, del resto, con quella intitolata Un film al giorno -, non ci proponiamo altro obiettivo che quello di invitare il lettore a cimentarsi direttamente con i testi di vari autori italiani che oggi, per varie ragioni, sono stati un po' dimenticati, non tracceremo qui una biografia di Giovanni Papini, né ci dilungheremo in una analisi critico-letteraria vera e propria.

Il nostro scopo è molto più modesto.

Desideriamo soltanto sgombrare il campo, per quanto possibile, da detriti e incrostazioni ideologiche che, in un modo o in un altro, hanno condannato a un oblio, a nostro avviso immeritato, l'opera di Giovanni Papini, anzi, quest'opera di Giovanni Papini: l'autobiografia spirituale Un uomo finito, appunto.

Troppo impegnativo sarebbe un discorso sull'intera produzione di Papini, su quella letteraria e saggistica, così come su quella filosofica: perché la sua personalità di "toscano maledetto" (come avrebbe detto Malaparte) era multiforme e tumultuosa, estremamente versatile, incredibilmente varia e complessa, al limite (e oltre il limite) della dissacrazione, del paradosso, della contraddizione lampante e clamorosa. Eppure, a suo modo, sincera e lineare, quasi ingenua nelle sue pose titaniche e superomistiche, e commovente nell'abbandono dei suoi slanci mistici e spirituali.

Insomma, una personalità grande e generosa, tenera e irritante, risentita e malinconica, fatta per suscitare ammirazione o repulsione, senza mezze misure e senza compromessi; e sulla quale ha pesato, nell'Italia uscita dalla seconda guerra mondiale, la (meritata) nomea di massima voce letteraria del fascismo.

Morto in buona ora Luigi Pirandello; eliminato fisicamente - e in modo inqualificabile - il filosofo Giovanni Gentile; convertito al Verbo comunista Curzio Malaparte; all'Italia "liberata" e repubblicana restavano ancora alcune spine di pesce in gola, di cui desiderava ardentemente liberarsi in qualche modo: Giuseppe Ungaretti e Giovanni Papini, in primis. Per Ungaretti, qualche esagitato provò a richiedere una epurazione 'esemplare', ma senza successo: troppo grande era la sua statura poetica, universalmente riconosciuta. Restava Papini: e quale miglior condanna del boicottaggio culturale? I suoi ultimi libri, non certo i meno validi, furono fatti scivolare nel silenzio…

 

Un uomo finito vide la luce nel 1912, quando l'autore, nato a Firenze nel 1881 (città in cui sarebbe morto nel 1956), aveva varcato da poco la soglia dei trent'anni. Un titolo sveviano, verrebbe da pensare, visto che  Senilità, il cui protagonista, trentacinquenne, si rinchiude in una precoce vecchiaia interiore, era stato pubblicato nel 1898, esattamente quindici anni prima.

Da questo libro, ricco di squarci lirici intensi e vibranti, e condotto sul filo di una introspezione spietatamente sincera, emerge, in particolare, l'immagine di un'infanzia negata, di un bambino solitario e infelice. Un bambino che non era mai stato un bambino; che era sempre stato, fin dalla più tenera età - come disse una zia, inconsapevolmente crudele - un povero vecchio. Un vecchio bambino triste e immusonito, incompreso e amareggiato; un bambino sensibilissimo, che avrebbe voluto amore e carezze, ma che la povertà e, soprattutto, la sua stessa ipersensibilità, avevano condannato a una solitudine disumana, disperante, tanto più crudele in quanto non corrispondeva realmente alle esigenze della sua natura, ma era solo l'espressione della sua paura degli altri e del suo senso di inadeguatezza.

E, dalle umiliazioni del rifiuto di cui si sentiva vittima, nasceva in lui un ardente, un divorante desiderio di rivincita: che, in quella personalità e  in quelle circostanze, non poteva che prendere la forma di un bramoso desiderio di gloria letteraria.

Non sono, tuttavia, gli aspetti risentiti e nietzschiani del libro ad animare le sue pagine più riuscite (che sono molte), quanto la nostalgica rievocazione della dolce figura materna; del suo amore sviscerato per i libri; del contrasto fra i sogni indistinti di evasione e di felicità e le piccole, amare miserie dell'esistenza quotidiana.

Un po' come per la poesia di Giosué Carducci (e, in una certa misura, di Gabriele D'Annunzio e di Giovanni Pascoli), possiamo dire che la scrittura di Papini sa elevarsi a grandi altezze, là dove depone i toni enfatici e altisonanti - e sia pure di un ribellismo anarcoide e fremente -, per calarsi nella dimensione umile e sommessa di una realtà minimalista, fatta di povere cose e di sentimenti profondi, ma trattenuti e, quasi, pudibondi.

Ci sono pagine, in Un uomo finito, che colpiscono per l'aspro sapore di sincerità che da esse si spande, come da un limone troppo acerbo.

Pagine belle, che meriterebbero di esser lette, e che consigliamo di leggere a tutti coloro che sono più interessati alla sostanza dei sentimenti che alla parola ben tornita o al quadretto di maniera; pagine intense, virili, quantunque sconsolate.

Pagine che hanno un profumo antico, come di cose già note e poi, chi sa come, dimenticate: ma capaci di ridestare in noi la nostalgia del bene, del bello, delle altezze.

Effetto che nessun mestierante può improvvisare, ma scaturisce solo dall'arte di un grande scrittore.