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È giusto «civilizzare» gli indios con la forza? Due teologie a confronto nel 1500

di Francesco Lamendola - 21/03/2008

 

 

 

Nei primi decenni  del sedicesimo secolo, all'apogeo del Rinascimento, la cultura europea comincia a dibattere appassionatamente un problema etico-politico sollevato dalla scoperta di un "nuovo mondo" da parte di Cristoforo Colombo e, soprattutto, dalle spregiudicate imprese dei conquistadores i quali, - come Hernan Cortes nel Messico degli Aztechi o Francisco Pizarro e Diego de Almagro nel Perù degli Incas -, stanno mettendo a ferro e fuoco vastissime regioni e sottomettendo sistematicamente le popolazioni indigene, in un crescendo di violenze inaudite. Si arriva al punto che i miti indios delle Grandi Antille (Cuba, Giamaica, Haiti e Portorico), decimati, braccati con i cani da caccia come selvaggina, schiavizzati nel lavoro delle piantagioni dove muoiono come le mosche - ed è ben per questo che la tratta degli Africani comincia a sbarcare nel "nuovo mondo" migliaia di braccia da lavoro gratuite, strappate ai loro villaggi sulle opposte rive dell'Atlantico -, arrivano a suicidarsi in massa, preferendo la morte alla brutalità senza misericordia degli uomini bianchi.

Sono fatti che colpiscono la coscienza morale di alcuni ambienti della cultura europea, specialmente in ambito religioso. La Chiesa cattolica, invero, se, ancora alla fine del Quattrocento, si era posta quale sovrana, in linea teorica, del mondo intero, spartendo le nuove terre e i nuovi mari fra le monarchie di Spagna e Portogallo, col trattato di Tordesillas del 1494, a partire dal 1517 vive il trauma della lacerazione interna ad opera di Lutero e perde così, rapidamente, gran parte della sua autorità e del suo prestigio morale. Dieci anni dopo, il sacco di Roma da parte delle soldatesche di Carlo V danno il colpo di grazia a quel che rimane delle sue pretese egemoniche. Poco più di una trentina d'anni separano l'ultimo trionfo diplomatico internazionale di papa Borgia, Alessandro VI, dalla umiliante disfatta politica e morale di Clemente VII; ma sono anni nei quali la ruota della storia della storia si è messa a girare molto in fretta.

Eppure, a dispetto della crisi della cultura religiosa, le cui cause remote risalgono indietro nel tempo e alla quale, certamente, ha contribuito molto la nuova concezione della politica fondata da Niccolò Machiavelli, il pensiero teologico insegnato nelle università europee, e specialmente alla Sorbona di Parigi, rimarrà ancora per qualche tempo al vertice del sapere; finché l'onda lunga della cosiddetta Rivoluzione scientifica non gli strapperà definitivamente lo scettro. Ed è, quindi, principalmente nell'ambito della cultura religiosa che si dibatte il problema se sia lecito, o meno, civilizzare e convertire a forza gli indios; tanto più che gran parte delle notizie circa il dubbio comportamento degli Europei nelle terre appena conquistate, di là dall'Oceano, sono di provenienza ecclesiastica. Accanto ad ogni conquistador, infatti, immancabilmente c'è un frate, di solito un francescano o un domenicano; e, nei territori sottomessi e recentemente "pacificati" (per usare un eufemismo che non inganna nessuno), accanto al governatore civile spagnolo compare subito un vescovo, incaricato di organizzare in diocesi e in parrocchie le province e i villaggi degli indios, di predicare il Vangelo e di convertire quelle popolazioni.

 

Accade così che proprio un vescovo spagnolo, Bartolomé de Las Casas, nato a Siviglia nel 1484, domenicano, fa conoscere ai suoi connazionali e all'intera Europa la leggenda nera, ossia l'altra faccia, quella nascosta, della conquista del "nuovo mondo" e della sottomissione e "civilizzazione" degli indigeni.

Particolare scalpore solleva la sua Brevisima relacion de la destruccion de las Indias, pubblicata nel 1542 in seguito ala richiesta dell'imperatore Carlo V di redigere una sintesi dei memoriali che questi aveva già presentato sulla drammatica situazione degli indios. Si pensa che quest'opera abbia contribuito ad ispirare le Leyes Nuevas del 1542-43, con le quali venivano formalmente liberati gli indigeni dalla schiavitù nelle colonie spagnole; leggi che, pur non modificando più di tanto la condizione de facto, degli amerindi, valsero però a limitare, almeno teoricamente, i maggiori abusi compiuti a loro danno, sancendo de iure il ripudio della schiavitù (istituto che, invece, nella colonia portoghese del Brasile, rimase perfettamente legale).

È vero che Las Casas, nel suo sforzo di perorare la causa degli indios, mettendoli in una luce favorevole, ne idealizzò parzialmente i costumi, al punto che, da molti, egli è considerato il "padre nobile" del mito del buon selvaggio, che affascinerà per secoli l'immaginario europeo, culminando all'epoca dell'Illuminismo (e, secondo Carlos Rangel, prolungandosi fino alla stagione del guevarismo, nel 1968 e dintorni). Ed è altrettanto vero che il buon domenicano, tutto preso da apostolico zelo per la difesa degli indios - che anch'egli, all'inizio, aveva disprezzato, convertendosi poi alla loro causa; un po', se si vuole, come il vescovo di El Salvador, monsignor Romero, in anni a noi vicini - aveva suggerito alle autorità spagnole di servirsi degli schiavi negri nelle piantagioni, proprio per sottrarre al lavoro coatto i nativi americani.

Tutto questo, però, esula da una riflessione sul dibattito teologico che allora si accese in Europa circa il comportamento da tenere nei confronti degli indios, e che culminò nella decisione dell'imperatore Carlo V di convocare la Giunta di Valladolid, proprio per stabilire, alla luce del pensiero teologico, le linee guida della politica spagnola verso i nativi. La decisione del sovrano di ordinare la sospensione di tutte le conquiste al di là dell'Atlantico e di convocare una solenne conferenza di esperti teologi e giuristi fu presa il 16 aprile del 1550 e fu determinata dal fatto che le tesi umanitaristiche di Las Casas erano state vigorosamente controbattute da un eminente umanista, Juan Ginés de Sepulveda (nato a Cordova nel 1490).

Sepulveda, che era anche un gesuita, considerava gli indios non come degli esseri umani a pieno titolo, bensì degli homunculi, esseri inferiori ai bianchi e tanto lontani dalla civiltà, quanto gli uomini lo sono dalle bestie. Inoltre egli li considerava crudeli, sleali, barbari nel vero senso della parola; i conquistadores, pertanto, erano degni di lode, perché portavano ad essi i benefici della civiltà e meritavano, di conseguenza, un premio per le loro fatiche, ossia l'acquisizione delle terre dei nativi. Le tesi di Sepulveda, quindi, si contrapponevano alla concezione tomista di Las Casas, il quale, appoggiandosi all'autorità di San Tommaso d'Aquino, sosteneva, con i suoi confratelli della scuola di Salamanca, che gli indigeni erano uomini come gli Europei, dotati degli stessi diritti naturali.

In uno scritto del 1547, intitolato La scoperta dei selvaggi, Sepulveda definiva e precisava ulteriormente la propria concezione. Gli indios non possedevano solamente caratteristiche negative, tuttavia queste prevalevano, come nel caso dei sacrifici umani degli Aztechi alla divinità solare, Huitzilopochtli, o in quello del cannibalismo praticato dalle popolazioni Arawak, sia nelle Antille che sulle coste meridionali del Mar dei Caraibi. In effetti, la notizia della pratica del cannibalismo, generalizzata e semplificata, era stata recepita in larghi settori della cultura europea e aveva creato una sorta di leggenda nera degli indigeni, che costituiva il rovescio della medaglia del mito del "buon selvaggio"; come è attestato, fra l'altro, da una serie di racconti e di incisioni che volgarizzarono tale pratica presso un vasto pubblico del "vecchio" continente, e dando l'impressione che un po' tutti gli Amerindi fossero dediti all'antropofagia.

Le tesi di Juan Gines de Sepulveda non costituivano affatto una voce isolata nel contesto della cultura spagnola del primo Cinquecento, né al di fuori di essa. Nella celebre università di Parigi, la Sorbona, il centro prestigioso della teologia medioevale e umanistica, Johannes Maior aveva dato alle stampe un libro, fin dal 1510 (dunque, assai prima della scoperta e conquista degli imperi maya ed azteco), in cui si sosteneva il buon diritto dei bianchi di convertire gli indigeni, se necessario,  anche con la forza; e di risarcirsi dei pericoli e delle fatiche sopportati, mediante la requisizione delle loro terre.

 

 

La Giunta di Valladolid tenne i suoi lavori fra il 1550 e il 1551, nell'Aula Triste del Palazzo di santa Cruz, in due sessioni distinte: la prima nell'estate del 1550, la seconda nel corso dell'anno successivo.

Sollecitata dallo stesso Las Casas, la Giunta dibatté lungamente le due tesi contrapposte: se gli indigeni d'America fossero soggetti di diritto quanto lo erano gli Europei, oppure no; e, pur non approdando a una conclusione univoca e definitiva, può aver ispirato, come si è visto, le Leyes Nuevas, promulgate un anno dopo. Le argomentazioni dei due principali protagonisti, Las Casas e Sepulveda, si confrontarono sul terreno strettamente teologico e giuridico e, a quanto pare, vi fu una prevalenza delle tesi del primo; anche se, in realtà, la situazione dei nativi amerindi ebbe scarso vantaggio da quella disputa accademica.

Del resto, Las Casas non aveva fatto altro che abbracciare e diffondere il pensiero di uno dei maggiori esponenti del pensiero filosofico di Salamanca, Francisco de Vitoria. Questi, pur riconoscendo che pratiche barbare e sanguinarie, come il cannibalismo e il sacrificio umano, erano motivo di giusta causa per muovere guerra ai sovrani indigeni,  sosteneva però che questi esercitavano un diritto legittimo nel governare le proprie terre e che non potevano essere legittimamente privati. Né si poteva ammettere il diritto dei bianchi di ridurli in schiavitù appellandosi ad Aristotele, come aveva fatto Johannes Maior, col pretesto che esisterebbe una "naturale" differenza fra gli esseri umani e che alcuni  sarebbero fatti per dominare, altri per essere dominati.

 

L'intera questione è efficacemente ricapitolata dal saggista tedesco Wilfried Westphal nel suo libro I Maya. Antichi e moderni schiavi (titolo originale: Die Maya. Volk im Shatten seiner Väter, München, 1977; traduzione italiana di Adriano Caiani e  Aldo Runfola, Milano, SugarcCo Edizioni, 1980, pp. 173-178):

 

"«Nel 1526 diventò governatore del regno yucateco un altro miserabile, a forza di bugie e di falsità, a furia delle offerte che egli fece al re, né più né meno di come avevano sempre agito gli altri tiranni, per poter ottenere cariche e prebende e poi poter rubare.

"Il regno dello Yucatan era abitato da molta, moltissima gente, perché è una terra con un clima ottimo, dove il cibo e i frutti non mancano (più ancora che in Messico); c'è specialmente il miele, e cera in abbondanza, più che in qualsiasi altro paese di cui si abbia notizia. Il regno ha un perimetro di trecento leghe. Le persone che ci vivevano erano diverse da tutti gli altri indi, perché erano sagge e amavano l'ordine, non avevano vizi e non conoscevano il peccato, erano disposte a ricevere la parola di Dio e degne di ascoltarla.

"Sarebbe stato anche possibile fondare grandi città per gli spagnoli in quel posto, i quali vi sarebbero vissuti come in un paradiso terrestre (se di ciò fossero stati degni), ma non lo erano, avevano invece molta avidità e insensibilità, erano grandi peccatori e si sono dimostrati indegni degli altri paesi indi che Dio ha loro indicato.

"Il tiranno, con i suoi trecento uomini che aveva portato con sé, cominciò una guerra spietata contro esseri umani che non erano colpevoli e vivevano in pace nelle loro capanne, uccidendone e annientandone molti. E non essendoci oro in quel paese, perché se ce ne fosse le miniere non ne avrebbero più da parecchio tempo, egli trasse oro dai corpi e dalle anime di coloro per i quali Gesù Cristo è morto e rese schiavi quelli che non ammazzò, li stivò nelle navi, prendendo in cambio vino, olio, aceto e lardo, abiti e cavali.

"Lasciò che ciascuno scegliesse tra centocinquanta ragazze, una più bella dell'altra, in cambio di qualche litro di vino, di olio o di aceto, oppure di un pezzo di lardo; per lo stesso prezzo era consentito appropriarsi di uno dei cento o duecento bei giovanotti. Per un formaggio, diede via un ragazzo che era senz'altro figlio di un principe; cento in cambio di un cavallo. Continuò a vendere e a comperare in questo modo dal 1526 al 1533; per sette anni devastò e spopolò quel paese e uccise senza pietà quegli esseri umani, fino a quando non giunse notizia del ricco Perù ,che stimolò i suoi uomini ad andarsene, tanto che per qualche giorno l'inferno cessò. Ma poi gli aiutanti del boia tornarono, e i tormenti ricominciarono, con scorrerie, cacce allo schiavo, peccati contro Dio, una vergogna durata fino ai giorni nostri. prima in quelle trecento leghe c'erano esseri umani: adesso non c'è quasi più nessuno» (Las Casas, Bartolomé de, Obras Escogidas, 5 voll., a cura di Juan Pérez de Tudela Bueso, Madrid, 1957-61: vol. V, pp. 155-156).

" (…)

"Colui che ha scritto questo è il celebre Bartolomé e Las Casas (1474-1566), ecclesiastico e difensore degli indi; il brano è infatti tratto dalla sua Breve cronaca della distruzione dei paesi indi, che lo fece diventare il fondatore della leggenda nera, una dottrina politica che fu il primo atto di accusa contro una potenza colonialista europea.

"Che l'immagine della conquista contro la terra maya trasmessaci da Las Casas si attendibile, ci viene confermato non solo dalle indagini demostatistiche (…), ma anche dallo stesso landa (che non era certamente un protettore degli indi). Scrivendo Due parole sulle cose dello Yucatan, non nasconde affatto i crimini dei suoi connazionali:

 

"«Quando gli indi delle province di Cochua e di Chectemal si ribellarono, gli spagnoli li ammansirono in maniera tale che la popolazione, da numerosissima, molto si ridusse,   e non ci fu terra più miserabile di quella. Con gli indi furono crudeli come mai, e tagliarono loro il naso, le braccia, le gambe, i seni delle donne, le quali venivano gettate nelle lagune con zucche legare alle gambe per farle andare a fondo.  I bambini venivano sforacchiati perché non camminavano in fretta con le loro madri. Li trascinavano con la catena al collo, e quando qualcuno si ammalava e non riusciva più a stare al passo, gli mozzavano il capo per non perdere tempo a sfilarlo. In numero grande erano le donne e gli uomini che così legati venivano tratti in schiavitù» (Landa, Diego de, Relacio de las Cosas de Yucatan, a cura di A. M. Garibay, Mexico City, 1959p. 27).

"A noi che viviamo in un'epoca di colonialismo illuminato, queste notizie sono familiari, anche se finora abbiamo pensato più ai negri che ai maya, quando si parlava di caccia all'uomo e di schiavi.

"Ma nel periodo delle scoperte, allorché l'europeo per la prima volta prese diretto contatto con i popoli di altri continenti e pose le fondamenta dell'egemonismo (e delle sua succursale nordamericana), non fu affatto naturale negare il diritto dell'uomo bianco a conquistare il resto del mondo. Anzi, la diffusione della civiltà occidentale era opera gradita a Dio.

"Inizialmente la cosa non ebbe bisogno di particolari giustificazioni: il diritto del primo scopritore, al quale appunto spettava la terra sub cii per primo aveva messo piede, era un privilegio vecchio come il mondo.

"Nulla da eccepire, se le lontane contrade erano disabitate. Ma quando gli europei venivano dribblati, preceduti da qualcun altro? Si poteva ancora parlare di terra senza padrone?

"La bolla pontificia Inter caetera divinae (del 4 maggio 1493)  suddivise il globo tra le due grandi potenze marinare di allora, le cristiane nazioni spagnola e portoghese: tutte le terre scoperte e da scoprire che si trovavano a ovest delle Azzorre, al di là di una linea di confine lunga cento miglia spettavano alla Spagna, quelle al di qua al Portogallo. Un verdetto arbitrale a cui il papa diceva di aver diritto quale capo dell'umanità oltreché sulla chiesa, con tanto di sovranità sui paesi e suin popoli di tutto il globo. La bolla delegò ai re iberici il potere temporale del pontefice, mentre essi si impegnavano a diffondere la religione cristiana tra i nuovi sudditi miscredenti.

"In base all'Inter caetera divinae, l'anno successivo, Spagna e Portogallo sottoscrissero un patto che spostava la linea di demarcazione a duecentosettanta miglia a ovest, cosicché alla corona portoghese toccò il Brasile prima ancora di sapere che esistesse. Tutto il resto del Nuovo Mondo, però, spettò alla Spagna, per lo meno fino a quando Francesco I, re di Francia, gridò al papa di mostrargli il testamento di Adamo e inviò navigatori in Nordamerica. Gli inglesi fecero altrettanto.

"Accanto ai titoli che davano certezza al diritto (quello della missione tra i senza fede era il più noto),c'erano anche numerosi altri argomenti a giustificazione della conquista. Essi spaziavano dal cosiddetto ius gentium, che favoriva un reciproco rapporto commerciale e immigrativo tra i popoli, fino a una coscienza missionaria civilizzatrice, basata sull'antica concezione che gli esseri umani non compresi nella propria area culturale fossero barbari. Non pochi furono addirittura convinti che i popoli appena scoperti non appartenessero al genere umano, trattandosi di esseri privi di ragione, a livello, dicevano, animale. Trarli in schiavitù era nell'ordine naturale delle cose.

"Per quanto ci si arrabattasse per dare una base giuridica alle invasioni, al fine di tranquillizzare la coscienza e di non ledere gli interessi di rivali e complici, non tardò a emergere che il conto era stato fatto senza l'oste. Gli infedeli, i barbari non volevano affatto venire 'civilizzati'! ma allora era giusto costringerli?

"Johannes Major, professore di teologia all'università di Parigi rispose di sì. Essendo anch'essi dei missionari, scrisse in un'opera apparsa nel 1510, i sovrani cristiani hanno il diritto di procedere con la forza contro quei principi pagani che si oppongono alla diffusione del cristianesimo, a un comandamento di Dio. Secondo il sapiente teologo, era giusto che, in cambio della fatica fatta per convertirli, i miscredenti cedessero il loro paese ai conquistatori.

"Per evitare una troppo libera interpretazione della pia dottrina di Major, re Ferdinando di Spagna, nel 1513, fece preparare un documento, il cosiddetto requerimiento, che tracciava per esploratori e conquistatori le linee, le direttive commerciali da seguire. Il documento cominciava così: «Il Signore Iddio affidò a un uomo di nome San Pietro la potestà su tutti i popoli della terra, affinché fosse il padrone e comandasse tutti gli esseri umani del mondo. Gli abitanti del Nuovo Mondo devono riconoscere che la santa Chiesa è signora e padrona dell'intero universo, devono rendere omaggio al re di Spagna».

"Ogni conquistador doveva portare con sé il documento e leggerlo a voce alta la prima volta che incontrava un indio. Se gli indigeni al primo invito di sottomettersi volontariamente rifiutavano, si poteva, «con l'aiuto di Dio», cominciare a usare la forza.

"A questo punto il documento non lascia dubbi: «Vi toglieremo ciò che possedete, le mogli, i figli, gli schiavi. Dichiariamo inoltre in maniera solenne che voi siete colpevoli del sangue e della sciagura che vi colpiranno; né Sua Maestà né noi saremo i responsabili di questo».

"Le minacce del requerimiento erano esplicite, ma non impressionarono eccessivamente i maya. La reazione dei chontales, allorché Grijalva chiese loro di assoggettarsi alla corona spagnola, dovette essere, almeno all'inizio, tipica. Con ingenua autocritica Bernal Diaz racconta:

"«Poi il capitano disse loro, con l'aiuto degli interpreti Julianillo e Melchorejo, che venivamo da lontane terre ed eravamo sudditi di un grande sovrano., di nome Don Carlos, del quale molti grandi principi e capi erano sudditi; disse anche che tutti dovevano riconoscerlo come signore, perché molto vantaggio gliene sarebbe venuto, e che dovevano darci cibo e pollame in cambio delle collane di perle.

"Due di loro, un principe e un sacerdote, risposero…, dissero che erano disposti a rifornirci di viveri, che avrebbero scambiato le cose loro con le nostre. Quanto al resto, un padrone già lo avevano, aggiunsero, e si sentivano dire da noi appena arrivati, che neanche li conoscevamo, di accettare subito un nuovo padrone; stessimo attenti a non muovergli guerra come a Potonchan:più di tre xiquipiles possedevano,, di uomini armati, che venivano da tutte le province; ogni xiquipil ha ottomila uomini» (Diaz del Castillo, Bernsal, Historia verdadera de la Conquista de la Nueva España, a cura di Joaquim Ramirez Cabanas, Mexico City, 1969, p. 19).

"La particolare concezione che l'indio aveva del dritto consentì ai conquistatori di sbarazzarsi delle restrizioni imposte dal requerimiento e offrì loro la gradita occasione di sfruttare a fondo le popolazioni indigene. Ma il confronto tra il diritto cristiano e quello pagano costrinse altri a riflettere, i quali, non meno di Major e del suo seguace Juan Ginés de Sepulveda, erano teologi e scolastici. Essendo gli uni aristotelici e gli altri agostiniani-platonici, nacque in Spagna un'etica coloniale, in diatriba critica nei confronti dell'imperante giustificazionismo  della conquista, un'etica che creò le basi del diritto internazionale moderno.

"Fondatore di questa scienza fu il domenicano Francisco de Vitoria (1486-1546) che, in due lezioni universitarie tenute a Salamanca nel 1539 (De indis e De iure belli), prese posizione sulla conquista e sulla guerra combattuta per assogettare gli indi e giunse alle seguenti formulazioni:

" - «I pagani non sono assolutamente sudditi del papa…, il quale non è affatto il sovrano del mondo. È quindi falso dare simile giustificazione alla conquista».

" - «Gli spagnoli hanno il diritto di recarsi nelle terre al di là dell'oceano… Questo diritto, evidentemente, presuppone che la presenza degli spagnoli non arrechi danno agli indigeni».

" - «I cristiani hanno il diritto di annunciare il vangelo nelle province dei barbari».

" - «Se i barbari… consentono agli spagnoli di predicare liberamente il Vangelo, non bisogna sopraffarli con la guerra oppure occupare le loro terre, sia che accettino la religione di Cristo sia che la rifiutino».

"Pur essendo sincero lo sforzo che Vitoria faceva per riconoscere il diritto dei popoli indi alla libertà e alla sovranità, la molla principale che lo muoveva era la missione tra i miscredenti. Anche Las Casas aveva il medesimo obiettivo, ma, contrariamente a Vitoria, egli non era disposto a ottenere il diritto di predicare anche, se necessario, con le armi in pugno.

"Las casa sapeva per esperienza che la situazione nelle colonie spagnole non dava adito a illusioni circa una pacifica coesistenza tra bianchi e indi. Egli medesimo aveva attivamente preso parte alla conquista del Nuovo Mondo e, né più né meno dei suoi conterranei, si era vergognosamente arricchito a spese dei nativi. Poi, nel 1514, i suoi principi erano radicalmente mutati: divenne uno strenuo difensore degli indi.

"Torna a onore dei sovrani spagnoli successori di Ferdinando il fatto di aver tollerato l'appassionata critica anticolonialista di Las Casas, di aver dato spazio alle sue proposte di eliminazione degli abusi nelle terre conquistate e di aver promulgato una serie di leggi in difesa degli indigeni.

"Il 20 novembre 1542 Carlo V firmò le cosiddette leggi nuove, le quali autorevolmente si riallacciavano all'iniziativa di Las Casa prevedendo tra l'altro l'abolizione della schiavitù degli indi, la limitazione dei loro tributi e del loro servaggio.

"Quando Sepulveda, diventato consigliere personale di Carlo V, pubblicò (1547) uno scritto contro le tesi di Las Casas (gli indi non erano che scimmie; giusto sopraffarli con la guerra, renderli schiavi), l'imperatore lo proibì. Nel 1573 fu decretato che la parola conquista venisse sostituita con il termine pacificazione. Ma tutte queste leggi non trovarono il necessario e vigoroso sostegno, cosicché anche l'intervento di Las Casas restò lettera morta."

 

Come abbiamo già detto, mentre in Europa di disputava se gli indios avessero o no un'anima, in America i titolari delle encomiendas andavano avanti per la loro strada, sfruttando e maltrattando   gli indigeni, già falcidiati dalle epidemie contro le quali erano totalmente inermi, perché privi di anticorpi; mentre i conquistadores, non paghi di aver distrutto imperi e civiltà progredite, come quelle azteca, maya e inca, organizzavano innumerevoli spedizioni verso il cuore dell'Amazzonia, alla ricerca del mitico Eldorado, il cui solo nome li faceva impazzire di cupidigia.

È chiaro, infatti, che dispute come quella della Giunta di Valladolid si muovevano all'interno di una stridente contraddizione di fondo: quella di voler definire per via teologica e giuridica una questione che dipendeva, in ultima istanza, da ragioni essenzialmente economiche. Una volta che i bianchi avevano riconosciuto che, per valorizzare adeguatamente le conquiste fatte, sarebbe stato anche necessario servirsi della manodopera indigena, ne conseguiva che essi avrebbero comunque trovato il modo di adattare sia la religione che le leggi alle loro esigenze di profitto. E questo fu quanto accadde, nonostante le buone intenzioni - delle quali va loro dato atto - di cui diedero prova non solo i teologi di Salamanca, ma anche i legislatori spagnoli, a cominciare dallo stesso imperatore,  Carlo V.

La Spagna doveva comunque rifarsi della delusione di non aver trovato le spezie e di non aver trovato l'Asia, come Colombo aveva fatto loro sperare ai cattolici sovrani, Ferdinando d'Aragona e Isabella di Castiglia. La civilizzazione forzata degli indigeni e la loro riduzione in condizioni di duro sfruttamento non erano che il corollario del paradigma economico secondo il quale, per rientrare dalle spese sostenute per 'esplorazione e la conquista e per restituire alle banche europee i capitali anticipati, qualcuno doveva pur pagare.

Pagò l'indio, e la pretesta barbarie della sua organizzazione sociale fornì il pretesto di cui i conquistatori avevano bisogno.

 

Ma questa è storia di cinque secoli fa, e ce la siamo lasciata ormai dietro le spalle.

Oggi, gli Occidentali non agiscono più in questo modo. Non conducono più guerre ingiuste e non pretendono di cambiare usi e tradizioni degli altri popoli - a cominciare dalle loro istituzioni  politiche -, con la scusa di una loro "evidente" inferiorità e inadeguatezza.

O no?