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Pigrizia e "passione" utopica

di Gianfranco La Grassa - 21/06/2008

Se me lo si consente, vorrei proporre (nel sito) a esattamente vent’anni di distanza qualcosa che avevo scritto con altri intendimenti. Oggi ha probabilmente un significato un po’ diverso. Certamente, le situazioni non sono paragonabili, se non altro per lo scintillio tutto di superficie delle nostre società opulente e ormai tanto avanzate tecnologicamente. Inoltre, per certi versi, può sembrare impossibile paragonare l’umanità, che vediamo circolare intorno a noi, con quella del periodo di Gončarov e Čecov. Non dell’umanità, tuttavia, si tratta in realtà ma semplicemente del fatto che, secondo la mia opinione, non ci sono oggi artisti dello stesso livello; la vera differenza sta tutta qui.

L’aspetto esteriore è del tutto diverso, ma in definitiva anche nel presente periodo storico mi pare di avvertire la sensazione d’essere sospeso tra due epoche: una già di fatto finita pur se continua a produrre miasmi di vita, e un’altra che è la solita incognita rappresentata dagli accadimenti a venire. Ho l’impressione che un ceto intellettuale esausto e spremuto oscilli tra due alternative: dichiarare la “fine della Storia” o invece dedicarsi al mestiere di aspiranti “aruspici”; anche qui dividendosi tra una minoranza che prevede ancora il futuro con sufficiente ottimismo (pochi i veramente entusiasti) e una maggioranza che, se non annuncia la fine del mondo, poco ci manca. Non credo minimamente alla fine della Storia; sono convinto che sarà ancora molto lunga, e certo tormentosa come lo è sempre stata per gli uomini in ogni epoca. Non credo nemmeno ai futurologi che non ne hanno mai indovinata una; la conoscenza delle profezie passate (lanciate sempre da cervelli malati in ogni tempo) dovrebbe pur insegnarci qualcosa.

Meglio lasciar parlare gli artisti, i quali – forse senza grande consapevolezza – hanno la “strana” capacità di intravedere i segni, pur assai labili e incerti, di quanto sta “avanzando”. In genere, non li interpretano; solo chi si mette a mimare il filosofo lo fa, ma generalmente è un pessimo artista, solo un pedagogo mancato o un predicatore da cacciare dal pulpito. Gli artisti “intuiscono” gli eventi nei loro contorni più fluidi ma complessi; è esattamente quanto serve agli scopi di chi, con atteggiamento scientifico, non ha la pretesa di fare l’indovino, ma solo di orientarsi, a spanne, nella vita e di apprestare interpretazioni puramente ipotetiche, e assai più schematiche, al solo scopo di muoversi (agire) in certi contesti, onde non restare in piena paralisi ad osservare gli accadimenti man mano che …. accadono.

Ho già detto che gli artisti odierni non mi sembrano assurgere al livello di quelli dei secoli scorsi; per cui anche i personaggi, che fungono da incarnazione di certe dinamiche psicologiche e sociologiche, ecc., non hanno la stessa forza espressiva di quelli creati in passato. Tuttavia, osserviamo comunque i segnali che vengono lanciati. Secondo me, in questo senso, l’Oblomov e i personaggi cecoviani non sono fossili di un passato che più non torna, pur se le modalità del suo ripresentarsi sono tutt’affatto differenti nelle contingenze attuali. Vale quindi la pena di “ascoltarli”, perché siamo di nuovo in bilico di fronte ad un futuro che ancora non si apre – e nessuno venga a fare previsioni circa la sua effettiva apertura; se qualcuno si perita a farlo, non ascoltiamolo perché è sicuro che ci sta raccontando sciocchezze – ma crea tuttavia suggestioni, incertezze, angosce, amarezze; almeno nei non peggiori fra gli uomini. Poi ci sono i meri incoscienti, gli irresponsabili in servizio permanente effettivo che se ne “sbattono” di tutto e di tutti, vivendo il solo presente; ignoriamoli, per un breve momento.

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  I personaggi cecoviani e l’Oblomov di Gončarov hanno certamente alcuni elementi in comune. Per certi versi, i primi sono affetti da oblomovismo, termine ormai usuale in Russia per denotare certi caratteri salienti del cosiddetto animo slavo (contro cui appuntò spesso i suoi strali Lenin): la fantasia unita alla pigrizia più spinta, l’ardore tutto immaginario per una vita “nobile ed elevata” soltanto pensata, vagheggiata, ar­dore unito alla più completa inconcludenza e incapacità di perse­guire con costanza gli alti obiettivi voluti nella pura e semplice immaginazione. A ciò si aggiunga l’in­cessante fantasti­care, o addirittura sognare (magari ad occhi aperti), con progressivo infiacchimento della propria volontà, della capacità di dare con­cretamente senso alla propria vita.

  Tuttavia, Oblomov e i personaggi cecoviani hanno anche notevoli differenze, che rinviano alla diversa epoca storica in cui essi sono situati; Gončarov crea il suo memorabile protagonista in pieno ottocento (il romanzo è del 1859), Čecov situa le vicende dei suoi drammi alla fine del secolo e primissimo novecento (egli muore nel 1904, l’anno de Il giardino dei ciliegi, uno dei suoi maggiori capolavori). Oblomov è il rappresentante di una clas­se piccolo-nobiliare ormai in decadenza, è indebitato, impoverito a causa del suo totale assenteismo, del vivere in città lontano dalla sua proprietà ter­riera, le cui rendite vengono progressivamente inca­merate, assieme alla pro­prietà stessa, dallo stàrosta, una sorta di affittuario di tipo ancora par­zialmente feudale, che costituisce l'embrione di una nascente borghesia agra­ria. Non a caso Stolz, l'amico di Oblomov, rappresenta il suo contraltare, il borghese proprietario di terra, che dirige in proprio l’azien­da agricola, com­pie innovazioni nelle coltivazioni, ecc., arric­chendosi laddove l’altro, con la sua accidia e bontà puramente passiva, arretra economicamente e socialmen­te.

  Diversa la situazione in Russia a fine ottocento e a cavallo tra i due secoli. La borghesia agra­ria si è già sviluppata ai limiti delle sue possi­bilità nell’asfittica società semifeudale, ed è ormai anch’essa in difficoltà, vivacchia senza più l'ener­gia e la spinta innova­tiva concreta di uno Stolz. I personaggi cecoviani sono quindi dei borghesi colti, dediti a fantasticherie utopiche circa il futuro della società russa (e persino dell’umanità tutta), ma che conducono in realtà una vita di sostanziale sopravvivenza, di relativa decadenza, mentre avanza una nuova borghesia rurale ben più rozza e sanguigna, costituita dai kulaki, contadini arric­chiti del tutto incolti, ignoranti, che si portano addosso, as­sieme ai soldi, l’odore di stalla, di letame.

  Le grandi speranze di uno sviluppo pienamente borghese (e dunque grande-capitalistico) autoctono si spensero presto in Russia, a causa dell’inerzia di una struttura semifeu­dale qual era quella della società dominata dall’autocrazia zarista, caratte­rizzata dallo sviluppo del tutto insufficiente di un’in­dustria capitalistica nazionale e indipendente, minimamente moderna, sviluppo che restò limitato a poche grandi città (quasi esclusivamente a Mosca e Pietroburgo) e fu tributario, essenzialmente, del capitale stranie­ro, in particolare tedesco ed inglese. Per il resto, esisteva una certa diffu­sione dell’industria semiartigianale di tipo rurale, tecnologicamente assai arretrata e primitiva, fondata sullo sfruttamento bestiale di mano d’o­pera che, in larga parte, era prettamente contadina e strettamente legata al­la terra.

  Questa struttura sociale così poco tipica di un paese capitali­stico moderno – questo mare di contadini, al cui interno con la decadenza della nobiltà feudale zarista andavano emergendo i kulaki, appena intaccato da piccole isole operaie – fu una delle principali cause della necessità stessa, non della semplice possibilità, della presa del potere bolscevica nel ‘17, con la parola d'ordine della rivoluzione da parte della classe operaia pog­giante sull'alleanza con i contadini poveri, ai quali veni­vano distribuite le terre espropriate ai nobili e ai contadini ricchi; espropriazione e distribuzione non sempre effet­tuate concretamente, anche se formalmente decretate, per l’impossibilità ogget­tiva di esercizio del potere sovietico sulla vasta periferia dell’immenso pae­se, in una situazione, protrattasi per anni, di guerra civile, di carestia, ecc. Questa situazione costituirà d’altronde anche uno dei principali motivi della difficoltà di costruzione del socialismo – una volta caduta la possibilità di rivoluzione in occidente – e della svolta verso l’industrializzazione a tappe forzate, con tutte le conseguenze (positive e negative insieme) verificatesi nel periodo staliniano.

  Tornando ai nostri “eroi”, la classe piccolo-nobiliare (di cui fa parte Oblomov) in via di rovina e di “pacifica” spoliazione da parte degli stàrosta, e la borghesia ancora prevalen­temente legata alla campagna (protago­nista dei drammi di Čecov), hanno in comune una caratteristica: quella di esse­re classi sociali storicamente sconfitte, dall'energia ormai fiaccata, inca­paci di reagire al declino che le segna in profondità, inadatte ad un reale contatto con la realtà che sfugge vieppiù alla loro comprensione. La prima classe, tuttavia, ha avuto un lungo passato migliore del presente, uno status sociale più elevato da cui sta decadendo; conserva dunque ancora la memoria di una funzione storica in parte positiva, quella delle classi dominanti al cui interno si colloca, sia pure rappresentandone lo strato inferiore. La seconda, invece, non ri­coprirà mai un ruolo storicamente attivo, propulsi­vo, è una classe di pura transizione, stretta tra un passato di sostanziale subordinazione ed un futuro privo di reali prospet­tive di sviluppo; essa vive quindi completamente nel presente, in un “attimo” storico che sempre le sfugge, su cui avverte – pur confusamente, celandosi dietro illusorie pretese e progetti velleitari – di non avere presa alcuna.

  Solo in alcuni personaggi di carattere semi-intellettuale – il medico di campagna, l'eterno studente, ecc. – lampeggiano brani di coscienza del dramma attuale della loro classe priva di energie vitali, di effettivo avvenire; mentre tale baluginante co­nsapevolezza diviene più collettiva, più corale, solo nei rari momenti in cui esplode apertamente la conflittualità latente in individui largamente fru­strati dalla vita sonnolenta di una provincia arretrata, e come tagliata fuori dal flusso storico più effervescente di altri paesi europei. Essi non giungono tuttavia mai, in nessun momento della loro vita per lo più inerte, a quella energica presa d’atto degli eventi capace di trasformarsi in fonte di fattiva volontà di riscatto, di impegno più tenace e prolungato, di uscita (magari di fuga) da una situazione oggettiva così ristretta e meschina; tutto viene sempre rinvia­to ad un futuro immaginario, alle generazioni a venire, a eventi semi-apoca­littici (vago presagio della rivolu­zione, non compresa però, né presentita, nei suoi reali contorni e significati politico-sociali) che la loro sostanziale rinuncia all’azione eleva al rango di vero e proprio deus ex machina.

  Oblomov attraversa, è vero, un breve periodo di effervescenza e di impegno concreto, quando conosce e ama Olga; egli mangia e dorme di meno, dimagrisce, ha interessi culturali più vivaci, progetta perfi­no, anche se invano, viaggi all'estero e vagheggia di interessar­si direttamente della sua proprietà terriera. Si tratta però di un momento del tutto fugace e assai atipico per il suo carattere. Egli è buono, generoso, totalmente privo di egoismi e di meschino attaccamento al suo “particolare”; ma è anche carente di spiriti vitali, è pigro e indolente in modo programmatico. Messo a confronto con un mondo borghese nascente, che gli appare tumultuoso nei suoi commerci ed interessi pratici e terreni, egli è spaesato, sente questo mondo come qualcosa di pienamente estraneo al suo essere più profondo, alla sua educazione, come qualcosa di troppo basso e volgare a paragone della sua infanzia vissuta in campagna.

  Egli rimemora perciò continuamente la “dolcezza” della vita rurale, incarnata dalla fi­gura materna cui resta sempre visceralmente legato (la Madre e la Terra sono le due matrici fondamentali della sua personalità); ricorda il piacevole torpore delle lunghe giornate estive, culmine del suo godimento nel riposo pomeridiano propiziato dal monotono ronzio delle mosche, immerso nel calore risonante di cicale; rammenta le lunghe serate invernali in cui si stava tutti riuniti nel calore di uno stan­zone, mentre gli adulti, a turno, raccontavano insulse storielle che catturavano comunque la sua attenzione, nel contem­po ottundendola e preparando la mente e il corpo al sonno not­turno sotto tepide coltri rimboccate dalla madre o dalle servan­tes.  

  Oblomov ama la pigrizia, la sonnolenza, il raggomitolarsi tra le lenzuola, i mezzi sogni del dor­miveglia, perché ogni attività gli sembra comunque attentare alla spiritualità della vita, all’elevatezza di un nobile sentire; l’attività sporca le mani, involgarisce, di­strae da una concezione gentile, armonica, pacificata, della vita. Se per vivere in società, per darsi da fare in modo utile a sé e agli altri (ma più a se stessi che agli altri, nella già embrionale società borghese), è necessario entrare in conflitto con questi altri, è obbligatorio ferire o es­sere ferito, allora è per lui meglio stare a sonnecchiare, frequentando le po­che per­sone amiche, quelle in grado di tollerare il suo carattere ri­nunciatario, chiuso in se stesso pur se generoso almeno nelle intenzioni, pauroso della vita e di ogni impegno.

  Diverso certamente è l’atteggiamento dei personaggi di Čecov, patetici velleitari che non rinunciano per partito preso all’impegno sociale; anzi, ne fanno spesso un gran parlare. Il loro è un cicaleccio incessante sui destini dell’umanità, sulla possibilità e anzi ineludibile ne­cessità di riforme, di rinnovamento radicale del costume e della cul­tura russe. Essi soffrono profondamente per l’ambiente chiuso e asfittico in cui sono obbligati a recitare la loro parte nel consesso civile; vi sono sempre particolari contingenze in cui si entusiasmano e credono di poter usci­re con vigore dal soffocante condizionamento del conformismo provinciale. La loro parola d’ordine diventa allora: “fare, andare, agire, lavorare, cambiare le cose”, e via dicendo. Poi... crollano miserevolmente di fronte al più pic­colo impaccio, alla menoma difficoltà in cui incappano. Lo stato d’inedia li riafferra, il gorgo dell’immobi­lismo si richiude su di loro, le spire di una realtà cristalliz­zata li riavvolge; e ad essa si lasciano andare con cupa dispera­zione, senza più l’anelito al meglio che, per un momento, li aveva ani­mati e resi esseri umani più degni, più civili.

  Essi ricominciano allora ad incolpare un Destino ineludibile, si chiedono il perché di tanta sofferenza nella vita degli uomi­ni; e non vedono altra so­luzione che quella di piegare il capo, di rassegnarsi alla sorte avversa – che pensano comune a tutti gli esseri umani nell’epoca, e nella società, in cui vivono – rinviando la possibilità di riscatto ad un’epoca successiva, in cui però ad altri sarà dato di agire e di conseguire quanto essi non sono stati in grado di ot­tenere: ma perché non sanno impegnarsi, non sanno volere il perseguimento di certi obiettivi elevati. I drammi cecoviani finiscono sempre con la solitudi­ne opprimente dei per­sonaggi, e con l’oscuro loro presentimento che, prima o poi, qualcosa dovrà pur accadere, una qualche parte di felicità dovrà infine toccare in sorte agli uomini; però non più a loro ormai, bensì ad altri esseri umani che creeranno e vivranno in una società migliore, meno conflit­tuale ed egoistica, più armoni­ca e pregna di solidaristica convivenza.

  L'artista non sa dire, mediante i suoi personaggi, come tutto questo potrà avverarsi, come l’ignoto andrà rischiarandosi di nuova luce. Tutto è avvolto in un tono di confuso presagio, quasi di desiderio che ciò avvenga più che di speranza che le vicende umane possano effettivamente migliorare in futu­ro. Il tono oscilla da un vagamente mistico, quasi religioso, annuncio di tem­pi più sereni se non proprio felici, ad un ben più solido, e terreno, pessi­mismo circa la condizione umana attuale. Le frasi che, nel finale, i personag­gi pronunciano reiteratamente, manifestando un forte quanto generico ed imprecisato ottimismo circa il troppo lento incedere degli eventi, sono certamente poeti­che, dense di emotività e di pathos, ma sembrano assai più autoconsolatorie che convinte, assomigliano al tentativo di crearsi un’immagine del tutto illu­soria circa il radioso futuro per altri, pur di poter sopravvivere in qualche modo alle proprie delusioni nel tempo presente così amaro e dolorosamente vissuto.

  La grandezza degli artisti si proietta, indubbiamente, sui per­sonaggi che essi creano. Oblomov, Platonov, lo zio Vania, le “tre sorelle”, la protagonista de Il giardino dei ciliegi (con uno dei più commoventi personaggi cecoviani, il “servo” Firs curvo per il carico d’anni che, quale fantasma, si aggira dimenticato nella casa da cui tutti sono ormai partiti, mentre cala il sipario nel secco montare dei ritmici, ossessivi e strazianti colpi d’ascia che abbattono i ciliegi) acquistano dimensioni liriche e tragiche tramite la penna di Gončarov e di Čecov. Nei lo­ro personaggi vi è senz’altro una certa qual grandezza, un sentire più elevato della media, potenzialità più che degne di considerazione per quanto re­stino ineffettuali. La grandezza dei personaggi è tuttavia il riflesso di quella degli artisti, è il modo se­condo cui questi ultimi esprimono pietà, partecipazione, simpatia, per quanto di nobile si agita pur confusamente nell'animo degli sconfitti. Questa sconfitta non è mai in Gončarov e in Čecov – com’è invece, ad es., nel Joyce de “I mor­ti” (in Gente di Dublino) – un fatto prevalentemente individuale, esisten­ziale, bensì il riflesso, nei singoli, della decadenza e dell’im­passe storica delle classi sociali cui ap­partengono i protagoni­sti delle loro opere. I vinti sono, in qualche modo, fra i mi­gliori (o meno peggiori), fra i più sensibili alla catastrofe morale di classi un tempo domi­nanti (soprattutto culturalmente), alla inci­piente disgregazione della società tutta che sarà lo sbocco della progressiva decomposizione, della putrefazione della cultura più conformista.

  Eppure, non si può non provare anche rabbia, e una punta di disprezzo, di fronte all'abissale pas­sività, alla mollezza, alla mancanza di coraggio e tenacia di queste persona­lità accidiose ed ignave. Oblomov sogna l’impossibile armonia del convivere sociale, ri­flesso immaginario della sua infanzia “felice” perché sonnolenta, ben protetta dall’amore materno e dalle cure dei servi. I perso­naggi cecoviani si crogiolano nei loro dolori, nel loro sconfi­nato disincanto, come segno di distinzione aristocratica, elitaria (e solitaria), rispetto al conformismo e grettezza dei più. Essi hanno momen­ti di ingenuo, quanto generico ed utopico, entusiasmo nei confronti di un’umanità astratta, proiezione dei loro inconcludenti aneliti di riscatto; non sono però minimamente sorretti da adeguata volontà, da incisivo pro­getto, e scaricano così sempre le colpe dei loro reiterati falli­menti sugli altri.

  Ognuno di loro dice spesso crudeli verità su quelli che lo circondano, che hanno influenzato e influenzano la sua vita, ma raramente – in pochi momenti di più lancinante disperazione – su se stesso. Il quadro complessivo che ne risulta è crudamente veri­tiero circa l’inerzia, l’inedia intellettuale e l’asfissia mo­rale dei vari personaggi, i quali continuano – almeno sino allo scioglimento finale del dramma – ad avvoltolarsi in nevrosi infanti­li, in finzioni intessute di pigrizia e viltà.

  Non soltanto nessuno fa nulla di veramente utile e impegnativo per tentare di cambiare il corso di un Destino ritenuto ineluttabile, perché questo sarebbe ancora comprensibile in un’epoca di completa mar­cescenza della società e della sua cultura. Più grave è il fatto che nessuno si sforzi di lasciar testimonian­za di una pur inane resistenza allo sfacelo complessivo, nessuno abbozzi almeno un gesto di flebile protesta e rifiuto del generale conformismo; tutti sprofondano invece, quasi con assaporata voluttà pur incolpando ossessivamente il Fato, nella palude di sentimenti ormai disseccati. Quanto sarebbe possibile realizzare, già ora e subito, viene costantemente consegnato ai posteri in un tempo vago e lontanissimo; così come su parenti e amici – meglio dire compagni di sventura – si scarica la responsabilità principale della propria nullità, della propria inettitudine a centrare un qualsiasi obiettivo pur appena animato da un soffio di vita.

  E’ quindi evidente che, accanto alla pietà, si insinua nell'a­nimo dei letto­ri attenti e non sprovveduti di Gončarov e di Čecov la sempre più netta presa di distanza dall’insipienza dei personaggi creati da questi autori, che evidentemente voglio­no provocare in noi questa reazione, poiché anch’essi manifestano nei confronti dei loro “eroi” (negativi) un mi­sto di pena e di giudizio lucidamente impietoso.