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Ugo Foscolo e l'elogio della "gloria"

di Luigi Carlo Schiavone - 21/06/2008

 

Ugo Foscolo e l'elogio della



“Se gli uomini si conducessero sempre al fianco la morte non servirebbero sì vilmente”. Questo breve ma significativo aforisma può facilmente porsi quale riassunto dell’opera e del pensiero di Ugo Foscolo, costantemente diviso fra l’idea di morte e la necessità di tracciare un segno indelebile della nostra esistenza terrena.
Nato nel 1778 a Zacinto, cui dedicherà uno struggente sonetto, Niccolò Ugo Foscolo morì in esilio a Londra nel 1827. Massimo esponente del passaggio dal Neoclassicismo al Romanticismo, Ugo Foscolo può essere considerato come il crogiuolo in cui si realizzano le due massime aspirazioni della sua epoca: l’amore intenso e nostalgico per l’ideale di bellezza e di armonia, che fu proprio dei neoclassici, e l’inquietudine profonda di un animo in continuo dissidio tra sentimento e ragione tipico dell’animo romantico. Definitosi “ricco di vizi e di virtù” il poeta, primo degli animi romantici in Italia, era un individuo dotato di un’innata curiosità, virtù che lo spinse, fra l’altro, a ricercare l’etimologia del suo cognome che tradotto in greco voleva significare “vittoria della luce sulla tenebra dello sdegno e della passione” .
Per comprendere a fondo la personalità del Foscolo occorre fare una disamina della sua esistenza, non tanto dal punto di vista biografico, ma analizzando i principi sui quali egli formò la sua visione della vita; inizialmente aderente all’illuminismo, Foscolo, infatti, iniziò a considerare l’esistenza proprio sulla base di una concezione materialistica e meccanicistica tipica di questa corrente di pensiero. Questa impostazione, tuttavia, non consentì al poeta di trovare quella serenità d’animo tanto decantata dagli illuministi. Assalito dallo sconforto e dal pessimismo, Ugo Foscolo finì col definire l’illuminismo come una “religione delle illusioni” e la ragione, da strumento di liberazione e di felicità come amavano definirla gli illuministi, divenne, nelle parola del poeta, un dono malefico che la natura ha offerto all’umanità per renderla ubbidiente alle sue leggi e renderla conscia di tutte le sue calamità e sventure senza offrirle il modo per trovare ristoro da esse. Meglio non nascere, dunque, e se si ha questa sventura, suggerisce Foscolo, è meglio suicidarsi all’istante. Fu in preda a questa disperazione che il poeta formulò la cosiddetta “rivolta delle illusioni”, sulla cui base era necessario improntare la propria esistenza a scopi nobili e legare così l’uomo alla vita. Tra le illusioni un ruolo preminente spetta alla gloria, intesa come ansia romantica di sconfiggere la morte lasciando sulla terra un segno indelebile del nostro passaggio. Una concezione legata alla consapevolezza che non è l’anima dell’individuo ad esser immortale, ma le azioni che egli nobilmente e generosamente compie. Solo tramite esse, infatti, l’individuo è in grado di lasciare un ricordo indelebile nel cuore di parenti ed amici e se la sua azione riguarda comportamenti magnanimi nei confronti della Patria, della scienza e dell’arte egli è destinato a lasciare un ricordo immutabile nei secoli nella memoria della nazione e dell’umanità intera.
L’ illusione della gloria, tuttavia, non riuscì a placare l’animo inquieto del Foscolo; l’assenza di fondamenti metafisici e la consapevolezza dei limiti della natura umana, infatti, rendono ineliminabile la minaccia, sempre più incombente e triste, della morte e del conseguente nulla eterno. Tracce evidenti di questa passionalità incontrollata del Foscolo sono ampiamente ritrovabili nell’opera giovanile le “Ultime lettere di Jacopo Ortis” . Influenzato dalla lettura dell’opera di Goethe “I dolori del giovane Werther”, nell’opera foscoliana assumono gran valenza le due passioni incontrollate del poeta: quella politica e quella amorosa. Mentre il protagonista dell’opera di Goethe, infatti, è strutto solo dalla prima delle suddette passioni, il protagonista dell’opera foscoliana è invece diviso tra le due passioni dove quella amorosa è molto spesso costretta a cedere il passo a quella politica. L’originalità dell’opera di Ugo Foscolo è da ritrovarsi, infatti, nello scoramento del protagonista per la Patria perduta, la deriva dovuta ad una coscienza smarrita e il dolore per un sogno d’amore irrealizzato. Questa opera, sebbene scritta in età acerba e condizionata dalle predette frustrazioni e pur non esprimendo un alto contenuto artistico, assume una grandissima valenza storica. Le “Ultime lettere di Jacopo Ortis”, infatti, oltre ad essere il primo esempio di opera romantica apparsa in Italia, presenta notevoli novità quali l’acceso richiamo all’amor patrio. Fu proprio questo aspetto a far sì che essa fosse ripresa in pieno Risorgimento da innumerevoli patrioti, che attinsero da questo libro la fiera passione per la Patria in nome della quale impararono a disprezzare felicità e vita.
Col passare degli anni lo stile del Foscolo subì un deciso mutamento e dalla passionalità e dai tratti acerbi che caratterizzano le “Ultime lettere di Jacopo Ortis” si giunse alla redazione di un testo più maturo: il “Dei Sepolcri”, che, redatto nel 1807, rappresenta il punto massimo della sua poetica civile, sociale e morale. Scritto in forma di lettera indirizzata all’amico Ippolito Pindemonte, il carme nasce quasi per caso, come reazione all’estensione anche in Italia dell’editto di Saint-Cloud, del 1804, che conteneva al suo interno nuove disposizioni in merito alla sepoltura dei morti in cimiteri pubblici fuori dai centri abitati e che, imponendo una misura unica per tutte le lapidi, non rendeva più possibile la distinzione fra morti comuni e illustri. La disposizione, che nell’animo del Pindemonte non destava alcun genere di interesse a causa della sua piena adesione alla concezione illuministica della vita, getta, invece, il Foscolo in uno stato di profondo sconforto. Riflettendo ancora sul concetto per cui sono le sole azioni a sopravvivere all’uomo, il poeta tende a sottolineare il valore simbolico che nel loro confronto svolge il monumento funebre. La tomba assume nell’immaginario foscoliano, infatti, il ruolo di mausoleo, unica opera eretta a testimonianza delle azioni compiute dagli uomini e per questo fonte di ispirazioni ed incitamento per i vivi ad operare sulla falsariga dei defunti. Oltre a questo genere di spiegazione sono presenti nell’opera tutta un’altra serie di giustificazioni sulla bontà della necessità di avere monumenti funerari. Dal punto di vista sentimentale, infatti, la tomba rappresenta il punto di corrispondenza fra vivi e morti, il passaggio per evitare che l’oscura signora vinca per sempre; la tomba è il luogo che permette di tener vivo il ricordo di colui che non c’è più, permettendo di rammentare le gesta che il defunto ha compiuto in vita. A questa sorta di giustificazione, inoltre, il Foscolo collega anche un motivo storico, riferito al culto di tutte le popolazioni, della terra di seppellire i propri morti sulla base di rituali antichi. Una prassi, dunque, talmente consolidata, le cui origini si perdono nella notte dei tempi, tanto da non permettere ad Ugo Foscolo di comprendere perché questo editto voglia rimetterla in discussione.
Ampio spazio è, inoltre, dedicato da Foscolo alla giustificazione del monumento funebre dal punto di vista patriottico. La “tomba nazionale” cui egli fa riferimento è la Chiesa di Santa Croce a Firenze in cui sono conservate le spoglie dei più illustri geni italici. È in questo luogo, infatti, che gli italiani, secondo l’opinione del poeta, possono, osservando i monumenti in cui sono conservati i resti degli illustri connazionali, trovare le giuste motivazioni per reagire e affrontare la vita degnamente, celebrando così la gloria degli scomparsi nel migliore dei modi e apprestarsi a scrivere la propria pagina di gloria che li renderà eterni. Il tempo che tutto distrugge, anche le tombe degli individui più illustri, nulla può contro le opere letterarie. Per Ugo Foscolo a poeti e scrittori è affidato il futuro della memoria; sono loro che visitando i ruderi in cui sono ospitati i geni del passato devono trarre la giusta ispirazione per il loro lavoro, da cui spesso trovano origine immortali capolavori.
Opera dai chiari connotati politici, intrisa di sentimenti antifrancesi e antinapoleonici, e fortemente patriottica, il carme “Dei Sepolcri” non deve tuttavia essere semplicisticamente considerato un canto dedicato alla vittoria della vita sulla morte o viceversa. Scritto con una tecnica innovativa che ha visto bollare lungamente Ugo Foscolo come un “fumoso enigma”, il carme può essere giustamente interpretato come un documento a sostegno della tesi della bilanciata coesistenza dei due fattori, vita e morte, legati tra loro in un abbraccio indissolubile, nella migliore interpretazione dell’ideale romantico. La drammaticità della vita confortata dalla ruolo delle “illusioni”, l’indipendenza di un carattere che ha visto l’autore prima a fianco di Napoleone per poi divenire suo oppositore a causa della sua discesa in Italia solo per interessi personali, fanno del Foscolo una delle figure fondamentali nella produzione letteraria del nostro Paese. Esempio di patriota votato all’idea dell’unità d’Italia come elemento necessario per raccogliere l’eredità di Roma antica, Ugo Foscolo è riuscito, con le sue opere e la sua vita, a incarnare perfettamente l’ideale di gloria da lui decantato come aspirazione massima di quelle illusioni che sollevano lo spirito spostando l’uomo dal piano materiale a quello spirituale ed eterno. Validi spunti di riflessione possono oggi essere tratti dal suo insegnamento, soprattutto per liberare le giovani menti dalla schiavitù materiale imposta dal “dio denaro” e dai suoi grandi sacerdoti. L’importanza di votare la propria vita ad un ideale superiore è il presupposto fondamentale affinché si realizzi quel rinnovamento spirituale capace di creare nuovi geni che un giorno potranno, al pari del Foscolo, accompagnarsi alle spoglie mortali delle “glorie italiche” nel loro sacrario fiorentino, mentre le loro opere, testimoni immortali di un genio italiano ritrovato, ne conserveranno per sempre il ricordo nell’aura immortale di quella “gloria” che il nostro illustre letterato c’ha insegnato ad amare.