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Il ritorno come duplice esperienza spirituale della conversione e del nuovo inizio

di Francesco Lamendola - 25/06/2008

Spesso i profeti dell'Antico Testamento adoperano la parola «ritorno» con una particolare suggestione e un pathos tutto speciale. Il concetto primario, naturalmente, è quello del ritorno a Dio, ma correlato ad esso, e inestricabilmente congiunto con esso, vi è anche quello del ritorno di Dio all'uomo: di Dio che non ripudia la sua sposa infedele, ma, perdonando i suoi continui tradimenti, l'attira ancora e sempre verso di sé, con la forza e la costanza del suo immenso amore. Così, ad esempio, avviene nel libro del profeta Osea, ove la vicenda biografica del profeta stesso, innamorato di una sposa - Gomer - che ha commesso ripetutamente adulterio, ma che egli non può fare a meno di perdonare e di continuare ad amare, diviene una trasparente allegoria dell'amore a tutta prova di Dio nei confronti dell'uomo.

La radice ebraica šwb, «ritornare», ricorre più e più volte nella letteratura biblica; e, come ha fatto osservare G. Fohrer, essa contiene sia il significato del ritorno al rapporto originario di Israele con JHWH, sia anche quello di un inizio assolutamente nuovo. Così, «ritornare» vuole dire, ad un tempo, convertirsi e ripartire: due movimenti dello spirito che, pur essendo distinti, formano una coppia inscindibile, che esprime un'azione vigorosa e coordinata.

Convertirsi: da «convertire», nel senso etimologico di cum vertere, ossia «volgere, dirigere», ma anche «trasformare, tramutare, far passare da uno stato ad un altro»: dunque, rivolgersi su se stesso, trasformare se stesso.

Ripartire: nel senso di fondare un nuovo inizio, di mettersi in cammino sulla giusta via come se fosse per la prima volta, cancellando il ricordo degli errori e delle cadute precedenti.

Il ritorno, in senso spirituale, non è quindi - semplicemente - un ripercorrere vecchie vie, un rivivere esperienze già consumate; non è qualche cosa di "vecchio" e di ripetitivo: al contrario, è il riscoprire la gioia e la bellezza di quanto si era incominciato, e poi lasciato interrotto; è ritrovare la parte migliore di se stessi, riconciliandosi con la propria verità profonda.

Da ciò l'atmosfera di freschezza, di esuberanza, di gioia, che caratterizza il ritorno spirituale, e che è resa stupendamente dal profeta Isaia con l'immagine festosamente pittorica:

 

Ho cancellato con la spugna

I tuoi errori e le tue ribellioni.

Eccole, cancellate, scomparse,

come nube che passa. (44, 22).

 

Nel concetto del ritorno, inoltre, è implicita l'idea che il movimento retrogrado dell'uomo corrisponde a una apertura, a una accoglienza da parte di una realtà che era rimasta fedelmente in attesa, che non aveva mai rifiutato l'uomo, a dispetto dell'ignoranza e della superbia che lo avevano indotto a sviarsi.

Si ritorna, quindi, non solo a qualche cosa di noto, ma anche a qualche cosa di accogliente; a qualche cosa che era rimasta ad attenderci.

Per Isaia, si tratta della fedeltà di Dio nei confronti dell'uomo:

 

Come un giovane sposa una ragazza,

così il tuo creatore sposerà te.

Come l'uomo gioisce per la sua sposa,

così il tuo Dio esulterà per te.

 

Ritornare è dunque un incontrarsi: incontrarsi con quelle verità cui avevamo voltato le spalle; con quelle verità che giacciono nella parte più profonda di noi stessi.

Si realizza, pertanto, la gioia di un ritrovarsi: colui che si era allontanato ritrova colui che era rimasto in fedele attesa; le cose perdute sono ritrovate; rimorso e rimpianto si trasformano in consolazione e gioia.

 

La maggior parte degli esseri umani, a un certo punto del loro cammino, si sviano dal giusto sentiero e si condannano, involontariamente, all'esilio; e, quel che è più grave, all'esilio nei confronti di se stessi.

La maggior parte delle persone che si agitano, lottano, sperano, temono e inseguono vanamente miraggi di felicità, sono degli esuli da se stessi: e non trovano quello che cercano, perché il loro procedere è un girare in cerchio entro una valle arida e afosa. Credono di andare avanti, ma non fanno altro che allontanarsi dalla meta.

Di ciò, ogni tanto, hanno come un presentimento; ma lo respingono lontano da sé, con un brivido di raccapriccio: altrimenti, dovrebbero riconoscere di aver sprecato gran parte della loro giornata terrena. E più gli uomini vanno avanti lungo strade sbagliate, più diventa difficile ammettere il proprio errore.

Così, la maggior parte degli esseri umani sono in ostaggio di se stessi: del proprio orgoglio, della propria vanità, delle spiegazioni che dovrebbero dare - agli altri e a se stessi - qualora riconoscessero il proprio sbaglio o manifestassero apertamente la loro profonda frustrazione. Esuli in terra di Babilonia; ma con la cattiva coscienza di chi sa di non poter incolpare alcuno del proprio esilio

Eppure, tornare dall'esilio dipende solo da loro: non dalla benevolenza di qualcun altro, come il re di Persia, Ciro.

Ecco il ritorno come una riconquista dell'eredità perduta, un tornare in possesso dei propri diritti inalienabili: un movimento naturale, dunque, come quello della limatura di ferro attirata dalla forza magnetica verso la calamita.

I movimenti naturali sono accompagnati dalla letizia, dall'esultanza, perché corrispondono a un ristabilimento del giusto ordine delle cose.

L'uomo che ritrova la via del ritorno procede con passo leggero, sfiorando quasi la terra; si direbbe che la stagione, la vegetazione, le persone e le cose partecipino della sua intima liberazione. È un momento aurorale, un momento irripetibile, quando il mondo assiste allo spettacolo di chi si era smarrito, ma ha ritrovato la strada

Se esiste un ordine nel mondo, allora anche un solo essere umano che trova la via del ritorno contribuisce a incrementare quell'ordine, a rafforzare la coesione e l'armonia del tutto; ed è ovvio che ciò sia accolto con manifestazioni di gioia.

 

Lascerete Babilonia con gioia.

Tornerete a casa nella pace.

Davanti a voi, le montagne e le colline

esulteranno di gioia,

e tutti gli alberi della foresta

batteranno le mani. (Isaia, 55,12).

 

Ritorno come conversione, dunque, e come radicale nuovo inizio.

Un nuovo inizio che riscopre il senso di cose antiche; un nuovo inizio che parte da lontano e che vede l'individuo più forte, più sicuro, più sereno, perché una benda gli è caduta dagli occhi e in lui scorre la linfa di una nuova giovinezza, di un entusiasmo rinnovato.

 

La cultura pagana ben conosceva il concetto del ritorno.

Al tempo di Omero esisteva tutta una saga incentrata sui νόστοι degli eroi, da cui fu tratta anche la materia dell'Odissea. Ma il ritorno a casa   dell'eroe greco - come, appunto, Odisseo.- è mosso dal desiderio di ripristinare la situazione ante quem, prima del turbamento provocato nella sua vita dalla guerra di Troia. È un ritorno nel finito, contro il volere avverso dei numi, sorretto dalla nostalgia di ciò che si era lasciato prima di partire. Le spose, i figli, gli anziani genitori, la casa, gli amici, i luoghi e le cose della giovinezza (come, per Odisseo, il fedele cane Argo): sono questi i ricordi che tengono viva in cuore all'eroe la nostalgia del passato, e che gli danno la forza di lottare per riconquistarlo.

Il concetto cristiano del ritorno è qualcosa di profondamente diverso.

Non è solo la nostalgia del passato, non è solo il desiderio di ripristinare una situazione felice che eventi esterni hanno turbato e divelto, per così dire, dalle sue radici.

Il ritorno cristiano è connesso al concetto kierkegaardiano della ripresa, ossia di un procedere ricordando; di un procedere in cui il passato, trasfigurato dall'evento della conversione - nel senso anzidetto - diventi sostanza e alimento di una speranza nel futuro.

Per il cristiano, la speranza per antonomasia è la speranza del ritorno di Cristo. Il ritorno vittorioso di colui che, sconfiggendo la morte, ha dischiuso un nuovo orizzonte alla storia del mondo, non più dominata dall'idea del fato (come per i greci), ma dalla possibilità della scelta individuale e, quindi, della nuova dignità della persona, basata sulla libertà.

Così, per il cristiano, il ritorno è, in buona sostanza, il ritorno alla casa del Padre: dove ci sono molte dimore in attesa, secondo la promessa fatta da Gesù nel corso dell'ultima cena. La parabola del figliol prodigo è l'esemplificazione didattica di questo concetto: laddove il padre, cioè Dio stesso, muove festoso incontro all'uomo che è tornato da lui; mentre, nella cultura greca, la divinità è spesso la causa della difficoltà del ritorno (si pensi all'ira di Poseidone contro Odisseo) e fa tutto quanto è in suo potere per ostacolarlo e ritardarlo.

 

Certo, noi viviamo in un'epoca post-cristiana e dobbiamo avere ben chiaro - come lo aveva Kierkegaard, già quasi due secoli fa - che la cristianità più non esiste, e il cristianesimo è tutto da rifare.

Eppure, la trasformazione da esso operata nella nostra cultura è stata così ampia e profonda, che ci è ormai divenuto impossibile ragionare in termini che non siano di origine cristiana. Pertanto, anche l'ateo convinto, o l'agnostico, non possono fare a meno di pensare al ritorno nell'accezione ebraica di šwb e non in quella greca di νόστος. Per noi, figli della civiltà occidentale, il ritorno per eccellenza è una conversione piuttosto che, semplicemente, un viaggio; e una ripresa assoluta, piuttosto che un nostalgico tuffo nel passato.

Ecco perché il tempo ritrovato di Proust ha in sé qualche cosa di pallido, di raccapricciante, di cadaverico; così come avviene per tutte quelle forme di ritorno al passato le quali partono dall'assunto che la storia sia, o debba essere, sufficiente a se stessa, che spieghi se stessa e che non possa né debba avere altri sistemi di riferimento al di fuori o al di sopra di sé.

Con il cristianesimo, si è fatta avanti una nuova idea del tempo e, quindi, anche una nuova idea del ritorno: per cui la dimensione del ritorno si sposa necessariamente con quella della promessa, dell'attesa e del compimento.

Vado, ma per preparavi il posto: questa, la solenne promessa fatta da Gesù ai suoi discepoli, nel corso dell'ultima cena.

A partire da quel momento, nella cultura occidentale è penetrata un'idea affatto nuova e sconosciuta all'antichità: quella del ritorno non come semplice ripristino di ciò che è stato, bensì come anticipazione di ciò che dovrà essere.

Ritornare, nel senso cristiano dell'espressione, vuol dire già aver posato un piede nei cieli nuovi e nella terra nuova, che infrangeranno per sempre il dominio del tempo - con il suo logico corollario, l'inevitabilità della morte - e fonderanno la dimensione dell'eterno.

 

Sarebbe bello che gli uomini e le donne del terzo millennio, indipendentemente dal fatto di essere, o meno, dei credenti, si aprissero pienamente a questa accezione del concetto di ritorno. Così come vi è, per naturisti ed ecologisti, l'idea di un ritorno alla Terra, con una valenza sacrale che eccede, per sua natura, i limiti della sfera puramente materiale; altrettanto potrebbe farsi strada, fra tutti gli uomini di buona volontà, l'idea di un ritorno a casa, che è, poi, il ritorno alla nostra prima dimora, troppo a lunga trascurata e disdegnata; il ritorno al centro del nostro essere.

Da lì, a comprendere che esso coincide con l'Essere senza determinazioni, senza attributi, puro nella sua luminosa sussistenza, il passo non è lungo, per chi abbia la vista buona e una sufficiente dose di umiltà e confidenza verso quella parte di noi che ci trascende, verso quella dimensione della vita che non si esaurisce nelle sue funzioni e nel suo orizzonte terreno.

 

Come diceva Jean Vanier, che ogni vita è una storia sacra; così possiamo anche affermare che ogni singolo ritorno è una vicenda sacra, intima, irripetibile, che interroga ciascun essere umano nell'ambito della sua più profonda nostalgia.

Nostalgia non già di ciò che è passato, finito e superato, ma di ciò che ci si apre dinanzi, alla luce bensì di quel passato, ma - anche - nella prospettiva di una eterna ripresa della parte migliore di noi stessi.