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Il dovere della memoria (e dell’oblio) secondo Alain de Benoist

di Luca Caddeo - 27/04/2024

Il dovere della memoria (e dell’oblio) secondo Alain de Benoist

Fonte: Barbadillo

Nell’introduzione del saggio Nazismo e comunismo Alain de Benoist scrive che rispetto all’atteggiamento meramente storico la memoria sarebbe “gelosa delle sue prerogative” e tenderebbe a “porsi come valore intrinseco”, “morale costitutiva e perfino nuova religiosità”. Eppure, prosegue il politologo, storia e memoria avrebbero nature “radicalmente opposte”. Questa tematica è propedeutica alla disamina metapolitica che, come suggerisce il titolo dell’opera del 1998, riguarda le differenze e le analogie tra i due totalitarismi. Sebbene la questione sia assai stimolante e quantomai foriera di antagonismi manichei, in questa breve presentazione la tralasceremo per concentrarci piuttosto sul tema della memoria – anch’esso invero più che mai divisivo e fonte di alterchi talvolta furiosi.

Per essere chiari ci si sta riferendo unicamente alla memoria intesa in senso pubblico e che ha per oggetto alcuni eventi del passato evidentemente ritenuti degni di essere detemporalizzati, celebrati e in qualche modo ipostatizzati, resi assoluti. Per de Benoist la memoria potrebbe avrebbe un significato positivo se indirizzata unicamente a “fondare l’identità” o a “garantire la sopravvivenza degli individui e dei gruppi” – ovvero se indirizzata a rafforzare il senso di appartenenza a una comunità. Senza memoria condivisa infatti difficilmente si potrebbe coltivare una storia comune e un minimo di progettualità o, per dirla in termini più forti, di destino. Nondimeno la natura stessa di questo concetto e il suo uso politico ingenererebbero delle evidenti, pericolose aporie. Tra queste “un’ossessiva presenza del passato” che incoraggerebbe “coloro che vi si richiamano a percepirsi come titolari del massimo di dolore e sofferenze”. La memoria sarebbe difatti sempre legata a un dolore rievocabile, vale a dire a un dolore che non può essere di tutti – quantunque spesso lo si imponga come tale. Allora, conclude de Benoist, “il rischio è di assistere a una sorta di concorrenza delle memorie” che a sua volta produrrebbe “una concorrenza delle vittime”. Ecco che, in un dato quadro politico e di potere, ciò significherebbe sancire che il dolore causato da una parte sia stato più intenso del dolore causato da un’altra parte e che un certo tipo di crimini debbano essere minimizzati in nome del bene mentre altri condannati come espressione diretta del male. I crimini commessi in nome di un presunto bene assoluto sarebbero meno gravi di crimini perpetuati in nome del male assoluto – come se le idee non dovessero fare i conti con la loro realizzazione e i fatti potessero essere giudicati solo sulla base della supposta superiorità assiologica di una concezione del mondo su un’altra. D’altronde se ogni determinazione implica la negazione di qualcos’altro, la memoria porta necessariamente con sé l’oblio di quei fatti che, non rientrando nei confini circoscritti dalla memoria stessa, sono stati per così dire enormemente ridimensionati, se non dimenticati:

“Abolendo la distanza, la contestualizzazione, ossia la storicizzazione, (la memoria) elimina le sfumature e istituzionalizza gli stereotipi”.

Rendendo essenziali alcuni fatti rispetto ad altri, la memoria, oltre che conservare l’odio e perpetuare i conflitti, coltiverebbe perciò l’anacronismo e liquiderebbe la complessità degli eventi e dei rapporti che li intelaiano; la memoria, insomma, non saprebbe che farsene della verità storica. Di conseguenza lo storico dovrebbe evitare di ricorrere alla memoria e rompere per quanto possibile “con ogni forma di soggettività”. Ora, benché sia per molti versi assai discutibile pretendere che la storia sia veramente in grado di registrare in modo puramente oggettivo i fatti e sia altresì opinabile che ogni fatto storico debba avere la stessa rilevanza, è indubbio che nel tempo tra gli storici, almeno a parole, abbia prevalso l’idea secondo cui la storia debba conservarsi mediante studi cosiddetti scientifici e appunto non tramite “commemorazioni”. Infatti la storia fatta di commemorazioni sarebbe “a riparo da dubbi e revisioni”; invece la storia che si sforza di essere “scientifica” e di situare i fatti nel loro ambiente originario dovrebbe ammettere “per principio” la possibilità di rimettere in discussione le interpretazioni degli stessi fatti – “fossero anche dimenticati o scioccanti rispetto alla memoria”. È d’altra parte utile ribadire che la storia concepita come scienza non dovrebbe essere una disciplina dogmatica finalizzata a elaborare ricostruzioni inoppugnabili e in alcun caso revisionabili ma, come appunto lo stesso autore suggerisce, una disciplina aperta al dubbio e che consideri le sue stesse esegesi infinitamente falsificabili. La storia intesa come memoria invece, essendo di per sé divisiva e fondandosi sulla radicale limatura delle sfumature e sull’annullamento del dubbio, potrebbe essere utilizzata da una parte per sancire presso le masse un solo tipo di narrazione decretando, direbbe Nietzsche, quali porzioni di storia debbano essere utili per il presente e quali dannose. Lo stesso Nietzsche infatti – ben prima che la memoria divenisse pienamente un feticcio – aveva spiegato che del passato bisogna ricordare ciò che è utile al presente e che la memoria ha necessariamente a che fare con l’oblio – nonché, ancor di più, che il segno di una civiltà sana starebbe proprio nella capacità di dimenticare. C’è da osservare però che Nietzsche, contestando nella Seconda inattuale lo storicismo, non aveva esattamente lo scopo di esaltare in quanto tale il diritto dei potenti di celebrare o di obliare per se stessi pezzi di passato; si augurava piuttosto che a ricordare e a plasmare la storia e con essa il presente fossero persone talmente creative e ricche di forza plastica da rendere certi eventi del passato concretamente utili per le nuove generazioni in modo tale che si evitasse da un lato la sterile celebrazione del passato legata all’epigonismo e dall’altro una interpretazione talmente mediocre e partigiana dello stesso da ostruire ogni nuova sorgente vitale. Torniamo dunque a de Benoist secondo cui la memoria prescriverebbe una sorta di dogmatica e sentimentalistica adesione a una determinata esegesi. Infatti, introducendo criticabili valutazioni di carattere etico e ponendosi acriticamente dalla parte del Bene, il culto della memoria sarebbe connesso alla vendetta – mentre, nota de Benoist, in origine sarebbe stato creato proprio “per abolire la vendetta” e, almeno in teoria, per elaborare una piattaforma valoriale comune. L’autentico atteggiamento storico dovrebbe perciò emanciparsi non solo dal dogmatismo, ma anche “dalla ideologia e dal giudizio morale”. Di conseguenza sarebbe auspicabile che la memoria non si sostituisca alla storia e che, come osserva Philippe Joutard, in una nazione democratica sia il dovere di storia e non quello di memoria a “formare il cittadino”. In questo senso appare utile riportare con l’autore quanto accadde in Francia dopo le sanguinose guerre religiose che avevano provocato, tra l’altro, la strage di San Bartolomeo. Il re Enrico IV, per pacificare la nazione, proibì col celeberrimo Editto di Nantes che si ricordassero i fatti sanguinosi avvenuti negli anni precedenti e che la loro memoria si spegnesse completamente. Con ciò non si vuole arrivare a sostenere che l’uomo debba relegare il passato integralmente all’oblio e cercare di realizzare un’impossibile esistenza puntiforme che lo privi di radici e di senso del futuro. Si potrebbe dire invece che il passato, lungi dall’essere dimenticato, debba “trovare il suo posto nel solo contesto che gli si addica: la storia”. Difatti, chiosa de Benoist, solo un passato storicizzato può “informare validamente il presente, mentre un passato reso sempre attuale non può che essere fonte di polemiche partigiane e ambiguità”. Il passato è ordunque utile alla vita nella misura in cui sia compreso nel suo complesso contesto storico, mentre risulta dannoso nel caso in cui se ne scelga un pezzetto estrapolandolo dal suo quadro di riferimento per renderlo “eterno” – e, di conseguenza, sempre vivo e attuale.

Marco Tarchi – che introduce il saggio del filosofo francese ripubblicato per Controcorrente edizioni nel 2005 – ravvisa con sconforto come chi ancora oggi osi contestare l’utilizzo distorto della memoria proponendo una rivisitazione di alcuni eventi o il mero confronto tra fatti, risulti isolato – visto che certamente non aiuterebbero “i peana al culto della memoria che la tv e gli intellettuali politicamente corretti innalzano di continuo”. Il tipo di ricordo che questi ultimi istigherebbero sarebbe infatti “selettivo, egocentrico e talmente carico di emotività da sbarrare la strada al senso critico e alla ricerca storica” che invece esigerebbe “distanza dai fatti, revisione delle percezioni soggettive che li hanno impressi nella coscienza comune, emancipazione dai pregiudizi ideologici e morali”. E mentre ci si azzanna sui soliti feticci e la divisione ci sospinge inesorabilmente verso la decadenza, concludiamo, sapendo che a poco servirà ribadirlo, un po’ amaramente così: più storia, meno memoria.