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La teologia «esistenziale» di Gogarten come superamento della solitudine e della disperazione

di Francesco Lamendola - 27/06/2008

Nel precedente articolo Il «caso» Bonhoeffer alle origini della svolta antropologica nella teologia contemporanea, sempre sul sito di Arianna Editrice, avevamo accennato al contrasto, nella Germania nazista, fra la Chiesa confessante, animata da uomini come Karl Barth e Dietrich Bonhoeffer, e i cosiddetti «cristiani tedeschi», ai quali, con riserva e per un brevissimo periodo (appena tre mesi) si era accostato anche Friedrich Gogarten.

Ma come accadde che un pensatore del livello di Gogarten si era avvicinato a un movimento religioso filo-nazista, in un momento in cui il regime hitleriano svolgeva una forte pressione sia sulla Chiesa cattolica, sia su quelle protestanti, al fine di rimuoverne la radice giudaica e di imporre, entro una cornice neo-pagana, una lettura del cristianesimo che ponesse, accanto alla Bibbia e alla Rivelazione, elementi storici desunti dalla storia successiva.

 

Friedrich Gogarten era nato a Dortmund nel 1887 e sarebbe morto a Gottinga nel 1967. La tragedia della prima guerra mondiale, culminata - per la Germania - con la sconfitta e la gravissima crisi materiale e spirituale degli anni Venti, lo spinse a un profondo ripensamento della fede cristiana, che lo vide spiccare fra i massimi rappresentanti - con lo stesso Karl Barth - della cosiddetta «teologia della crisi»o «teologia dialettica».

Professore ordinario di teologia sistematica all'Università di Breslavia, dal 1931, e poi a quella di Gottinga, dal 1935, fu non solo un teologo fra i maggiori del suo tempo, ma anche un filosofo acuto e originale (egli, del resto, non ammetteva una netta separazione fra teologia e filosofia). Tra le sue opere maggiori ricordiamo: La decisione religiosa del 1921, Fede e rivoluzione del 1923, credo nel Dio uno e trino del 1926, Gesù Cristo svolta del mondo del 1966, Teologia di Lutero del 1967 e Il problema di Dio, apparsa postuma, nel 1968.

Organo della nuova teologia dialettica fu la rivista Zwischen den Zeiten (Fra i tempi), che venne pubblicata nel decennio 1922-32 e che, prendendo atto della radicalità della crisi spirituale in atto, teorizzava la necessità di una autentica rifondazione del luteranesimo. Il punto di partenza dei teologi che facevano riferimento a Zwischen den Zeiten era, sulle orme di Kierkegaard, la paradossalità del fatto religioso in una Europa, di fatto, non più cristiana e in un mondo che, come aveva visto Troeltsch, si era irreversibilmente "secolarizzato".

Gogarten, in particolare, traendo suggestioni sia dallo storicismo di Dilthey e Troeltsch, sia dal personalismo di Ebner e Griesebach, sia, infine, dall'Heidegger di Essere e tempo, aveva elaborato una concezione teologica in cui le verità cristiane possano divenire oggetto di una proposta credibile nel contesto della cultura moderna e, in particolare, nella quale l'unicità dell'evento salvifico non si contrapponga irreparabilmente alla vita del mondo storico, sentita come legittima espressione di una immanenza che ha sviluppato autonomi valori.

Anche le decisioni religiose, scaturenti dalla dimensione della libertà che caratterizza l'autentica esperienza religiosa, devono esprimersi in un preciso contesto storico e tradursi in una realtà normativa: di qui l'interesse di Gogarten per la politica, e la ricerca delle vie e dei mezzi attraverso i quali la fede cristiana può divenire un elemento attivo e operante sul piano concreto della realtà storica.

 

Friedrich Gogarten si era, per così dire, rivelato nella galassia dei teologi della crisi mediante un saggio pubblicato sulla rivista Christlichen Welt, nel quale, con accenti spengleriani, aveva affermato che  non solo l'Occidente, ma il mondo è giunto al tramonto, avendo ricevuto da Dio il colpo di grazia. In esplicita consonanza con Spengler, il giovane teologo aveva sostenuto che gli uomini devono rallegrarsi che sia giunta l'ora del tramonto, perché insieme ad essa è giunta anche l'ora della grande riflessione e della penitenza. «In questo momento  - aveva scritto con il tono accorato  di una drammatica profezia - noi non ci troviamo davanti alla nostra sapienza, ma a Dio. Quest'ora non appartiene a noi. Noi non abbiamo tempo adesso. Noi stiamo tra i tempi, Zwischen den Zeiten».

Come Paul Tillich, Gogarten aveva individuato il punto centrale della propria riflessione teologica sul significato dell'uomo in quanto essere storico.

Come ha osservato Ernesto Balducci, per Gogarten la trasformazione che caratterizza il nostro tempo non può essere paragonata con nessuna delle rivoluzioni materiali o culturali del passato, poiché corrisponde a una vera e propria mutazione antropologica. Per la prima volta nella storia, l'umanità si trova a vivere in un mondo radicalmente secolarizzato, ove Dio non può essere visto, come prima, quale causa e fondamento dell'essere; e l'uomo si trova solo nel mondo, a tu per tu con se stesso, e gravato dal peso di questa enorme responsabilità.

Per più di quattro decenni, Gogarten si è affaticato intorno alla domanda su quale possa e debba essere il ruolo del cristiano nella situazione odierna; e solo con il libro Gesù Cristo svolta del mondo, apparso nel 1966, ha formulato una risposta compiuta. In esso egli sostiene che la secolarizzazione non è avvenuta a partire dall'esterno, ma dall'interno della stessa fede cristiana, poiché nasce dal logico sviluppo delle premesse contenute nel fatto della Rivelazione. Nei culti primitivi e nella stessa civiltà greca, gli uomini hanno riconosciuto un ordine nel mondo dinanzi al quale si sono posti in timorosa adorazione; e, così facendo, hanno divinizzato il mondo e rifiutato obbedienza a Dio. È questa l'essenza del peccato originale.

La Rivelazione cristiana ha ripristinato l'autenticità del rapporto fra Dio e l'uomo, dando a quest'ultimo la consapevolezza di essere posto fra Dio e il mondo, nel duplice ruolo di figlio di Do e signore del mondo. Riconoscere Dio come padre e creatore, significa restituire al mondo le sue vere sembianze: quelle di un campo di forze l'uomo può dispiegare la sua libera attività in piena signoria, ma assumendosene anche la responsabilità davanti a Dio.

Ma, secondo Gogarten, la rivoluzione cristiana non ha potuto esercitare subito e pienamente la sua azione liberatrice. Per secoli, fino a tutto il Medioevo, gli uomini hanno continuato ad avere, nei confronti del mondo, un rapporto falsato dall'eredità pagana, mai del tutto estirpata dalle profondità del loro essere. È solo con Lutero e con la Riforma che la liberazione dell'uomo si compie interamente e la Rivelazione può agire in profondità sugli uomini. Senonché, non appena liberati, gli uomini sono ricaduti in una nuova forma di schiavitù: quella del rifiuto di Dio e della pretesa di esercitare il loro dominio sul mondo, nell'ambito di una libertà assoluta.

L'uomo dell'età moderna, equiparandosi alla sapienza divina, presume di poter dare al mondo un senso compiuto e chiuso in se stesso: e in tal modo, anche se per una diversa via, egli è ricaduto in quella forma di schiavitù dalla quale era stato emancipato. L'alternativa a questa rinnovata forma di schiavitù verso un mondo che rifiuta la trascendenza si traduce in un atteggiamento di dubbio radicale, di angoscia, di disperazione e di senso del nulla. Sia nell'uno che nell'altro caso, la secolarizzazione degenera in "secolarismo": espressione di una profonda distorsione del giusto rapporto fra mondo, uomo e Dio.

A questo punto, il compito del cristianesimo appare chiaro: si tratta di riportare il processo di secolarizzazione alle sue autentiche radici, tenendosi ugualmente lontano dalla duplice tentazione di cadere nel rimpianto e nella nostalgia del mondo pre-moderno, o di venire a compromessi con il secolarismo, moderna forma di paganesimo.

 

Particolarmente lucida è stata l'analisi fatta da Gogarten del nichilismo contemporaneo; analisi che, per taluni versi, lo avvicina e, per altri, lo differenzia nettamente da Heidegger. In effetti, nel pensiero gogarteniano concorrono - come abbiamo visto - tanto elementi storicisti, quanto suggestioni esistenzialistiche. Come ha notato il teologo italiano Giorgio Penzo, sia in Gogarten che in Heidegger  la categoria della  umana responsabilità si caratterizza e si esplica come libertà dal mondo, in quanto la verità si manifesta là dove finisce il momento del conoscere scientifico. Però, mentre in Heidegger l'essere è l'essere storico che, come tale, rimane legato a una finitudine che non supera il piano del gioco, al contrario in Gogarten l'essere storico, anche se si dispiega nella finitudine dell'uomo, ha il suo ultimo fondamento nella parola dell'annuncio di Cristo.

Affinità e differenze di fondo tra Heidegger e Gogarten appaiono evidenti nell'ambito della concezione del tempo, inteso come apertura al futuro e libera scelta dell'individuo, e, quindi, come destino. Ma, per Heidegger, la storicità dell'essere come destino è anche la storicità dell'essere come essere-per-la-morte La storicità dell'essere di Gogaten, invece, non si limita al momento del destino ma lo supera nell'atto esistenziale della fede cristiana. L'ultima parola della fede cristiana, infatti, non è la morte di Gesù sulla croce, ma la sua resurrezione, ossia un eventi salvifico che rompe l'orizzonte chiuso della temporalità autocentrata

Per tale motivo, secondo Penzo, si può sostenere che il pensiero di Gogarten, dopo essersi confrontato con le stesse problematiche e con le stesse sfide di quello di Heidegger nei confronti dei concetti di tempo, destino e disperazione, supera quest'ultimo grazie al concetto-chiave dell'esperienza umana del nulla. Secondo lui, Heidegger non è stato abbastanza radicale nel definire la dimensione del nulla, poiché il nichilismo di Heidegger - e la disperazione esistenziale che ne deriva - si limita a registrare una assoluta perdita di fiducia dell'uomo nelle cose; mentre, per Gogarten, essa si accompagna alla riscoperta della fiducia nel fondamento ultimo dell'essere, cioè in Dio.

Ecco allora che l'uomo, per Heidegger, si perde nel mondo e finisce per andare incontro al proprio destino, nel segno della disperazione; mentre il destino del cristiano, per Gogarten, è quello di rendersi infinitamente disponibile a Dio, scegliendo la fede come categoria della speranza.

 

Vale la pena di riportare i passi salienti del ragionamento sviluppato da Giorgio Penzo a conclusione del suo ricco e interessante volume su Friedrich Gogarten. Il problema di Dio tra storicismo ed esistenzialismo (Città Nuova Editrice, Roma, 1981, pp. 391-409, passim):

 

…la tipica dimensione di trascendenza di pensatori come Nietzsche, Heidegger, Jaspers e Gogarten, (…) non è di natura metafisica, ma storica. Così, per limitare la problematica del rapporto soltanto tra Gogarten che è il più sistematico tra i teologi dell'esistenza e Heidegger, che è il più sistematico tra i filosofi dell'esistenza, si vede come il problema del fondamento viene chiarendosi come problema del rapporto tra il fondamento dell'uomo, che rappresenta il piano stesso dell'essere, e la dimensione del tempo. (...)

…se Gogarten è mosso dal desiderio di porre sotto problema sempre di nuovo il fondamento ultimo dell'uomo e di mettere in luce il piano di trascendenza originaria, egli parte però mosso in questa sua ricerca da una fede a livello teologico, così come si trova nell'annuncio di Cristo. Però, il rapporto tra Gogarten teologo e Gogarten filosofo rimane sempre aperto, in quanto egli non procede secondo determinati canoni dogmatici di questa fede teologica ma cerca sempre di portarla vicino al piano del fondamento che viene tematizzato al livello di puro pensare e di decisione esistenziale. E ciò è a suo avviso ovvio poiché, se l'annuncio di Cristo è rivolto all'uomo ed è trasmesso quindi in un linguaggio umano, allora il pensare teologico non può distinguersi nettamente da un pensare filosofico. (…)

La realtà tutta particolare della fede non è di natura metafisica, non è di natura coscienziale a puro livello di esperienza vissuta, ma è esperienza vissuta dal soggetto in quanto si apre e si abbandona (Gelassenheit) alla voce dell'essere-Dio.

Si capisce così ancora di più che, se Gogarten interpreta l'annuncio di Cristo inb chiave ontologica, non può non aprire un dialogo con la tematica di Heidegger. A tale proposito sono convinto che Gogarten ha dato senza volere un apporto quanto mai originale alla questione centrale di Heidegger, se cioè l'essere originale sia "capace" (fähig) di Dio. Nel rapporto di fondo di ogni tematica filosofica e teologica, nel rapporto cioè essere-Dio, Gogarten è convinto che se l'essere non è più quello della metafisica greco-medievale e neppure quello della metafisica idealistica, allora il problema di Dio deve essere chiarito in modo diverso. Si deve vedere cioè se nell'essere inteso come storicità si possa aprire un dialogo con Dio. Ciò vuol dire parlare di Dio nella tematica della secolarizzazione  o, se si vuole, nella tematica della demitizzazione, dato che Gogarten riconduce la demitizzazione di Bultmann al suo problema di fondo filosofico-teologico della secolarizzazione. Ed è proprio qui che s'inserisce l'apporto originale di Gogarten che si rivela appunto come un grande sistematico.

Gogarten fa presente che da tre secoli la concezione dell'uomo e quindi della storia rimangono legate a una determinata concezione di cogliere il rapporto tra uomo e mondo da una parte e il rapporto tra uomo e Dio dall'altra. In tale contesto, rifacendosi a talune analisi di Heidegger che si leggono in Holzwege, Gogarten dice che in questo tempo il mondo è diventato immagine e quindi oggetto che l'uomo deve conquistare. Sotto questo angolo visivo però, l'essenza dell'uomo si muta e si presenta come soggetto. Così, questi due processi, che il mondo diventi immagine o oggetto e che l'uomo nell'ambito dell'ente diventi soggetto, si rivelano quale patrimonio culturale già dal tempo di Descartes. Il merito dell'interpretazione esistenziale di Heidegger sarebbe, secondo Gogarten, proprio quello di aver superato sul piano filosofico tale modo di pensare soggetto-oggetto. Gogarten fa ancora notare che per quanto riguarda il terreno teologico, tutto ciò può generare il sospetto che l'interpretazione esistenziale rimanga chiusa in una soggettività coscienziale, cioè può sembrare che si tratti in ultima analisi di una nuova visione del mondo, quella esistenziale-ontologica, che verrebbe a prendere il posto della precedente, quella razionalistica. Tutto ciò però rappresenta a  parere di Gogarten uno svuotamento e una falsificazione.

A tale riguardo Gogarten ci tiene a precisare che si deve parlare di visione del mondo (Wektanschauung) solo quando s'intende comprendere l'esistenza dell'uomo come esistere storico, e quindi la totalità del mondo o della realtà solo in forza di un principio direttivo. Ora, nell'analisi esistenziale heideggeriana, come pure nella storicità dell'esistere così come viene tematizzata nell'ambito della fede cristiana, manca appunto tale principio direttivo.  Questo ci mostra che la responsabilità dell'uomo esistenziale  come quella dell'uomo cristiano, sia nei confronti della totalità come nei confronti dell'essere-se-stessi rispetto al mondo, è una responsabilità che ha a che fare solo con la propria autonomia. La filosofia dell'esistenza non dice come  si deve esistere ma afferma solo il fatto di esistere.

Gogarten arriva così alla conclusione ermeneutica che se su tiene presente come la filosofia dell'esistenza superi i due problemi, quello gnoseologico del rapporto soggetto-oggetto e quello ontico della visione del mondo, è possibile allora leggere il Nuovo Testamento alla luce dell'ermeneutica esistenziale. (…) È chiaro che rimane sempre la differenza di fondo tra l'ermeneutica esistenziale heideggeriana e quella gogarteniana, che p data appunto dalla dimensione della responsabilità. Se nell'ambito di queste due ermeneutiche la responsabilità riceve il suo senso ultimo solo sul piano ontologico, rimane però il fatto che tale piano è diverso nelle due ermeneutiche, dato che è diverso il piano della temporalità che dà il senso ultimo al piano ontologico.  Cioè, se la responsabilità denota sia per il pensiero di Heidegger, sia per quella di Gogarten, libertà dal mondo, in quanto la verità si manifesta là dove finisce il momento del conoscere scientifico, tale responsabilità è però ben diversa nei due pensatori. L'essere come essere temporale, il darsi cioè dell'essere, rimane in Heidegger legato a una finitudine che non supera il piano del gioco, mentre l'essere come temporalità, il darsi cioè dell'essere di Gogarten, anche se si dispiega nella finitudine dell'uomo, ha il suo ultimo fondamento nella parola che (…), non è semplice richiamo ma parola dell'annuncio di Cristo. (…)

Si sa che lo schema tradizionale del tempo nei suoi momenti di presente, passato e futuro, è quasi ignoto alla concezione temporale propria dell'Antico Testamento. Il verbo ebraico conosce soltanto azioni che sono compiute o non compiute dal punto di vista del piano della salvezza. Si può perciò dire che nella cultura ebraica è quasi sconosciuto il concetto quantitativo-astronomico del tempo, dato che prevale soltanto un concetto di tempo di natura qualitativa. Pure il concetto di tempo di Heidegger è qualitativo, e pure esso contiene il concetto di salvezza, anche se ovviamente tale salvezza è priva del tipico contenuto biblico. (…)

L'affinità di fondo, come la diversità di fondo, tra Heidegger e Gogarten nell'ambito della temporalità originaria come futuro si può cogliere nell'orizzonte escatologico dell'essere come destino e per conseguenza nell'orizzonte della tematica della morte. Cioè, i momenti di destino e di morte chiarificano i due diversi modi escatologici del darsi dell'essere. In Heidegger la storicità dell'essere come destino (Geschikte, Geschick) e la storicità dell'essere come essere-per-la-morte (Sein-zum-Tode), appartengono di essenza all'essere come essere temporale. La storicità dell'essere di Gogaten non si limita al momento del destino ma lo supera nell'altro atto esistenziale che è quello della fede come fede cristiana. Così, l'essere-per-la-morte che segna la finitudine dell'essere di Heidegger quale estrema possibilità, non dice la stessa finitudine dell'essere di Gogarten, in quanto questi pone nell'orizzonte dell'atto decisionale di fede l'annuncio della parola di Cristo non solo le sue espressioni fondamentali di nascita e morte ma pure in quella fondamentale di resurrezione. (…)

Coerente alla sua concezione dell'essere, Heidegger pone nella dimensione ontica della morte non solo la dimensione biologica e psicologica della morte, ma pure quella teologica. (…)

È ovvio che non si può capire a fondo la tematica della morte se non si tiene presente la tipica differenza ontologica che costituisce l'asse del filosofare heideggeriano. Heidegger rifiuta il momento oltre la morte poiché questo modo di pensare rientra nell'ambito ontico del filosofare, che è tipico della metafisica occidentale la quale non riesce a tematizzare l'essere. La metafisica rimane chiusa nell'ambito di un pensare rappresentante dove è determinante il rapporto soggetto-oggetto e quindi una concezione di essere come sostanza. Heidegger fa notare che nella concezione metafisica la morte è concepita come un avvenimento, come una corruptio ed in quanto divisione dell'anima dal corpo, essa segna una linea di confine tra l'al di qua e l'al di là. Ed è questo il motivo che fa sorgere il problema su ciò che ci può essere dopo la morte. In una concezione ontologica della morte; tale problema si rivela privo di senso. In tale ambitola morte non divide ma abbraccia l'uomo quale immediata unità, quale totalità, quale possibilità che include in sé tutte le altre. La morte non avviene così alla fine della vita ma è sempre presente come costitutiva dell'esistere. Essa è, in quanto estrema possibilità, il continuo dispiegarsi dell'essere che per definizione è il fuori-di. Ecco perché solo dell'uomo si può dire che muore (sterben), mentre di ogni altro vivente si può solo parlare di un cessare di vivere (verenden). Solo l'uomo è capace di morte, l'animale non ha la morte come morte né davanti a sé, né dietro di sé.

È chiaro che un pensare come quello di Gogarten, pur accettando le premesse ontologiche di fondo, nn può essere che critico di fronte alle conclusioni che trae Heidegger. Egli potrebbe condividere fino a un certo punto l'affermazione di Heidegger, che cioè «l'interpretazione ontologica della morte orientata sul di qua precede ogni speculazione ontica sulla morte orientata sul di là». E ciò perché, se Gogarten parte dalla storicità dell'essere come essere finito e quindi condivide alcuni aspetti dello storicismo di Dilthey e della filosofia dell'esistenza di Heidegger, non può però relegare nella dimensione ontica del pensare il momento teologico del filosofare. Così, per quanto riguarda la morte, Gogarten può essere d'accordo con Heidegger nel porre nel momento inautentico del pensare l'aspetto l'aspetto psicologico che rimane chiuso nell'ambito ristretto dell'io coscienziale o subcoscienziale, ma non può dire la stessa cosa dell'aspetto teologico della morte. Tutto ciò che ha, come già si è detto, la sua ragione ultima nel diverso modo di interpretare la storicità dell'essere e quindi la dimensione dell'ad-venire  che è il momento primario della temporalità dell'essere sia per Heidegger che per Gogarten.

Gogarten ammette con Heidegger la dimensione del destino nell'ambito ontologico. Però, egli non può accettare che la dimensione del destino sia l'ultima espressione della temporalità dell'essere. Gogarten è d'accordo  con Heidegger che l'uomo è quell'essere che la coscienza di essere di fronte al mondo. E come Heidegger, Gogarten è convinto che la coscienza dell'uomo non può esaurirsi nel rapporto con il mondo. Si tratta del problema della libertà, dell'autonomia autentica dell'uomo. Ora, proprio il fatto che l'esistere umano trascende il mondo, spiega secondo Gogarten la questione del destino (die Frage des Schicksals). Dire che l'uomo ha coscienza della trascendenza significa dire che l'uomo ha coscienza di essere di fronte al destino. Tale coscienza non dipende tanto dall'ambito delle cose nel mondo, ma dall'ambito più profondo delle non-cose e perciò del nulla. Si tratta di un silenzio (Schweigen) di cui l'uomo stesso ammutolisce. Con tale coscienza del destino è unita pure la coscienza che una volta che l'uomo percepisce  il problema del destino, non può sottrarsi, dato che questo significherebbe abbandonare la propria essenza umana. La questione del destino è una possibilità che l'uomo ha per fornire una risposta al «mistero della sua esistenza nel mondo».

Ora, è proprio in questo non poter evitare la questione del destino che si può incontrare la dimensione della fede, ovviamente come fede cristiana, che non è presente, o per lo meno non è tematizzata, in Heidegger. Vi  un rapporto intrinseco tra i due momenti, quello del destino e quello della fede nel fatto che essi hanno in comune la dimensione esistenziale del nulla. Questa non è però la stessa dimensione nei due momenti, dato che l'uomo aperto alla fede ha una coscienza del nulla più profonda che l'uomo aperto al destino. Cioè, se nel destino come nella fede vi è la stessa coscienza di essere staccati dal mondo, e quindi la coscienza di essere nella dimensione del nulla, però nel destino l'uomo rimane ancora in certo modo legato alle cose del mondo. Cioè, da una parte egli non nutre più la speranza di trovare in esse il momento di salvezza, però dall'altra egli rimane ancora legato alle cose poiché non scorge altra realtà superiore a quella delle cose. Di qui il momento di disperazione. In fondo, la disperazione è l'essere ancora legati alle cose senza aver più fiducia in esse. Si tratta quindi di una dimensione del nulla che non è abbastanza profonda.  Nella dimensione della fede, invece, l'uomo ha perso la fiducia nelle cose del mondo, proprio come nella dimensione del destino, però egli non cade nella disperazione, dato che a questa perdita di fiducia nelle cose subentra la nuova fiducia nell'essere ultimo, che è data appunto dalla fede cristiana. In tal modo si ha un approfondimento dell'ambito del nulla che tocca il fondamento ultimo che è quello di  non-essere-legati ad alcun fondamento delle cose ma solo  all'essere-Dio. In tale ambito, il mistero dell'essere che si apre già nell'orizzonte del destino, perviene alla sua profondità ultima. (…)

Senza riferirsi esplicitamente a Heidegger, Gogarten distingue due modi di essere del futuro.  Il primo modo di essere del futuro (Zukunft) è quello del tempo che è aperto al mondo.  Si tratta di una dimensione di tempo che si può anticipare (vorwegnehmen) in base alla dimensione del mondo, e che è quindi legata ai momenti temporali del presente e del passato. Il secondo modo i essere del futuro che Gogarten denomina come futurità, ad-venire (Zukünftigkeit) denota il tempo che non è affatto aperto al mondo,  ma solo al nulla. In un tale orizzonte di futurità si può parlare di problematica del fondamento nelle due diverse espressioni, quella del destino e quella della fede.

Senonché, nell'ambito stesso della futurità Gogarten apre una distinzione che corrisponde sul piamo ontologico  a una duplice dimensione del nulla. Egli parla di futurità intesa come mera futurità, e parla di pura futurità (reine Zukünftigkeit) o di futurità di Dio (Zukünftigkeit Gottes) per denotare il livello più profondo della futurità.  La mera futurità è quella del destino, mentre la pura futurità o futurità di Dio è quella della fede. Nell'ambito del destino la futurità non si stacca del tutto dal futuro come anticipazione del futuro, poiché rimane legata ai momenti temporali del presente  e del passato. Nell'ambito della fede invece la futurità è priva di ogni anticipazione del futuro. Per questo Gogarten dice che si tratta di due modi di essere del futuro «del tutto diversi». A proposito del futuro tipico della fede Gogarten  parla di un futuro oscuro (dunkle Zukunft). A tale livello il mistero tocca il fondamento dell'essere. A ragione Gogarten scrive a proposito  della fede che «fede significa: esporsi alla pura futurità di Dio e nient'altro».

In tal modo Gogarten, pur rimanendo nella storicità dell'essere che si dà in modo epocale, escatologico, riesce a superare la posizione di Heidegger, approfondendo così la stessa dimensione ontologica dell'essere come temporalità di Heidegger. Cioè, egli ammette come Heidegger che l'uomo è quell'essere che è capace-di-destino (geschicksfähig) quando avverte la dimensione del naufragio, cioè il pericolo di perdersi nel mondo.  Però supera la stessa dimensione ontologica dl futuro di Heidegger quando fa notare che tale semplice coscienza di destino non è sufficiente per comprendere tutta la profondità del mistero del nulla. Gogarten fa notare che il pericolo di perdersi nel mondo  è visto nella fede in modo «più acuto» (schärfer) rispetto a quello del destino. Il che ci mostra in altre parole che l'atto di decisione per il destino non è così ontologicamente  profondo come quello per la fede. Nell'atto di decisione per il destino si rimane rinchiusi nell'ambito della disperazione. L'angoscia e la disperazione non possono essere che l'espressione ultima dell'essere di Heidegger. Nell'atto di decisone per la fede, l'ultima parola non è la disperazione ma l'ascoltare la voce consolante di Dio quale fondamento ultimo. In tal modo Gogarten, con una più profonda tematizzazione del momento originario della temporalità dell'essere, cioè della futurità, e quindi con una più profonda tematizzazione del nulla, ha compiuto un passo avanti nella tematica di Heidegger. Nello stesso tempo, egli ha dato una risposta all'interrogativo di Heidegger che si legge in Holzwege, se l'essere cioè sia o no capace di Dio.

 

In conclusione, se Nietzsche, Heidegger e Jaspers sono i classici della filosofia dell'esistenza, Barth, Bultmann e Gogarten possono essere considerati i classici della teologia dell'esistenza. Entrambe queste problematiche si dispiegano in una trascendenza esistenziale che eccede la misura della metafisica tradizionale.  La profonda differenza fra esse è che, mentre per la filosofia dell'esistenza il fondamento ultimo di siffatta trascendenza esistenziale è la parola, per la teologia dell'esistenza è la parola di Dio.

Da ciò deriva il problema della parola di Dio come fatto storico e, di conseguenza, l'ulteriore problema del rapporto fra la parola divina e la cultura in cui essa si manifesta; problema che Bultmann aveva affrontato con le forbici di una radicale demitizzazione della parola divina, in quanto espressione storica. E in ciò risiede, anche, l'aspetto storicistico della riflessione di Gogarten, che egli sviluppa sulle orme di Dilthey e di Troeltsch, ma che si sforza anche di contemperare con una profonda esigenza meta-storica: quella, appunto, della fede.

Si può dire, pertanto, che tutto il processo della secolarizzazione può essere letto come un grandioso tentativo, da parte dell'uomo, per recuperare le ragioni e i presupposti di un più autentico rapporto con Dio. Come ha osservato anche Carl Schmitt, la secolarizzazione è una filosofia della storia. Dunque l'intera riflessione teologica di Friedrich Gogarten si può interpretare come una filosofia della storia che vuole trascendersi e fondare direttamente sull'Essere il proprio divenire e il proprio senso ultimo, cioè il proprio destino.

Restano aperti, tuttavia, alcuni interrogativi; e, in particolare, questo: a forza di sottolineare - come fa Gogarten - la dimensione storica della parola di Dio, non si corre il rischio di perdere di vista la sua assoluta trascendenza, la sua radicale alterità rispetto al piano della storia stessa?