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Dove stanno i furbetti

di Oscar Giannino - 02/07/2008

 

 

 

In piccolo, non mi posso proprio lamentare, della campagna intrapresa sulle balle che si raccontano in materia di fisco e di lotta all’evasione fiscale. Tra le diverse edizioni ristampate da Mondadori e la diffusione che ne facemmo con Libero, del libro che ho scritto l’anno scorso sul tema ho venduto sulle 70 mila copie. E ancora mi chiamano per parlarne, qui al Nord, tantissimi piccoli imprenditori, commercianti, artigiani e professionisti. Hanno spesso la bava alla bocca, per come sono stati trattati negli ultimi anni. Proclami politici e paginate mediatiche contro il popolo delle partite Iva, contro autonomi e commercianti ladri erariali matricolati, contro il Nordest identificato come anomico e antistatuale, contro i bauscia brianzoli che pensano solo alla fabbrichetta occultando capitali all’Agenzia delle Entrate. Balle. Non tutte ma quasi, quando si tratta di stereotipi. L’evasore concentrato al Nord perché indifferente agli obblighi civili di solidarietà a favore delle regioni meno agiate del Paese è una balla spaziale. E per questo vi invito a leggere con attenzione il lavoro da certosino che sulle fonti ufficiali l’ottimo Andrea Scaglia vi propone oggi, nella sua inchiesta a puntate su ciò che davvero si oppone a un sano federalismo fiscale, la sfida istituzionale che la maggioranza vittoriosa alle elezioni ha promesso di affrontare e vincere in questa legislatura.

 

Uno dei maggiori problemi, quando nel prossimo autunno - sempre che non succedano altri guai "straordinari" - si metterà mano alla discussione su quale meccanismo di federalismo fiscale istituire davvero, dopo tanti anni di inutili chiacchiere a vuoto, sarà quello della perequazione tra le diverse Autonomie. In ragione di quanto ciascuna di esse è superiore o inferiore alla linea mediana di reddito pro capite nazionale, ci sarà chi dirà che a ciascuna Regione e Comune andrà garantito almeno l’85% delle risorse necessarie per garantire standard di prestazione nazionale sanitaria per le Regioni, socio-assistenziale per i Comuni. E ci sarà chi aggiunge che questo meccanismo di solidarietà deve poi tenere conto del costo storico sin qui sostenuto dai diversi apparati pubblici locali: il meccanismo sin qui prevalente, quello che ha premiato, oggettivamente, chi accumulava maggiori deficit, sprechi e inefficienze. 

 

Modelli fallimentari

Dall’altra parte ci sarà chi, come noi, sostiene che sino a quest’oggi i trasferimenti di finanza pubblica dal Centro verso le aree più arretrate non hanno ottenuto i risultati che si prefiggevano. È fallito prima il modello che, nella Prima Repubblica per decenni ha alimentato l’intervento straordinario della Cassa per il Mezzogiorno e degli oltre cento enti e società controllate. Poi, nella Seconda Repubblica, è fallito anche il modello dei "tecnici" della sinistra, gli economisti dello sviluppo che hanno pensato di far decrescere i gap accumulati in molte aree del Sud attraverso i patti territoriali e analoghi strumenti di programmazione decentrata, in coerenza ai pingui fondi munti dall’Unione Europea per la aree di Obiettivo uno e due, quelle più lontane dalla media di reddito pro capite comunitario.

 

Questo duplice fallimento è stato certificato anche dal governatore della Banca d’Italia Mario Draghi, nelle sue considerazioni finali di un mese fa. E la sua constatazione costituisce una svolta: per questo bisogna battersi per un federalismo fiscale che non sia impedito nel dispiegare le proprie ali dal prevalente di un malinteso concetto solidarietà. Nelle aree del Sud dove la maggior componente alla creazione di valore aggiunto viene ancora per 1135-45% dai trasferimenti pubblici, e solo peril5 o 6% dal manifatturiero, occorre uno shock di discontinuità assoluto, perché si alimenti un circuito virtuoso che leghi entrate e spese locali a un diverso tasso di sviluppo, all’attirare risorse e investimenti in competizione aperta con altre aree del Paese, con regimi fiscali e amministrativi locali più vantaggiosi. E’ a questo fine, che vi invitiamo a sdegnarvi, constatando - se mai aveste pensato diversamente - che la maggior intensità di evasione fiscale, di imprese in nero, di dipendenti non dichiarati e contributi evasi, di truffe all’Europa peri fondi comunitari, secondo le stesse elaborazioni ufficiali dell’Agenzia delle Entrate sta in Regioni come la Calabria, la Sicilia, la Campania. Non certo in Lombardia, Veneto e Friuli. Idem dicasi per la maggior percentuale di contribuenti che dichiarano reddito zero sul totale, con le tre Regioni citate del Sud che superano addirittura la media di un reddito zero ogni due regolarmente dichiarati. Ed è questa malattia sociale diffusa non nell’intero Paese, ma in aree ben identificate del Sud, che può essere affrontata e pri ma ridimensionata, poi forse persino ricondotta a dimensioni più accettabili, solo se gli amministratori locali risponderanno direttamente ai propri elettori di risorse esatte localmente per essere spese localmente. Abbattendo una volta per tutte il mito negativo dello Stato centrale indifferente spoliatore di risorse, mito di cui da 150 anni si alimenta un certo piagnonismo meridionale. E nei confronti di quell’idea negativa di Stato centrale, che più facilmente hanno attecchito atteggiamenti evasivi ed elusori, nonché la mala pianta della sovranità parallela più effettiva di quella dell’ordinamento, esercitata da mafie e camorre che taglieggiano l’economia trasformandosi di volta involta che lo Stato ha provato forme diverse di strategie di contrasto.

 

Basta luoghi comuni

Naturalmente, non sono questi i luoghi comuni che avete sentito ripetere negli ultimi anni, da chi predicava la lotta all’evasione. Non è certo nei confronti di quelle Regioni del Sud, che si sono puntate prioritariamente le armi delle diverse Agenzie in cui si articola la macchina amministrativa del fisco. Infatti sono i sindaci e i presidenti delle Regioni locali, quelli che bisogna rendere davvero responsabili della lotta all’evasione che si concentra nelle loro plaghe e non altrove. Perché vorrà dire che, se non ci riescono, non avranno più da spendere. Senza sperare nel rituale ripiano dei loro deficit da parte della fiscalità generale: cioè a spese nostre, come al solito. So bene che messa così è una tesi apparentemente paradossale, tanto appare tosta. Ma avremo tempo di discutere e di approfondire, sino all’autunno. Intanto, scolpitevi nella testa le cifre della vera vergogna italiana.