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L'esperienza ebraica contemporanea

di Gilad Atzmon - 02/07/2008

 

 

 

Per più di mezzo secolo coloro che hanno cercato di contrapporsi alle forze che sottendono il paradigma israeliano hanno identificato la politica e la pratica israeliane con il sionismo e con l'ideologia sionista. Temo di dover dire che si sono completamente sbagliate. Certo, il progetto sionista impone di depredare la Palestina nel nome delle aspirazioni nazionali ebraiche. Ed è anche corretto affermare che Israele è stato alquanto efficiente nel tradurre la filosofia sionista in una devastante pratica repressiva e omicida. Tuttavia gli israeliani, o più precisamente la grande maggioranza degli ebrei laici nati in Israele, non sono motivati né invigoriti dall'ideologia sionista. Il suo spirito o i suoi simboli sono per loro praticamente privi di significato. Per quanto strano possa sembrare, per la maggior parte degli ebrei laici nati in Israele il sionismo è una nozione straniera o semplicemente arcaica.

Dato che la grande maggioranza di israeliani è confusa dalla nozione di sionismo, buona parte delle cosiddette critiche anti-sioniste hanno avuto scarso effetto su Israele, sulla politica israeliana e sul popolo israeliano. In altre parole, negli ultimi sessant'anni coloro che hanno usato il paradigma del sionismo e il suo opposto non hanno fatto altro che predicare ai convertiti.

Va ora rivisto completamente il complesso amalgama composto da Israele, sionismo ed ebraismo.

Viaggio interiore
Una volta all'anno, in occasione della Pasqua, la mia famiglia mi lascia a Londra per due settimane. Mia moglie Tali e i nostri due bambini Mai (12) e Yann (7) partono per Israele. Mia moglie la chiama visita di famiglia, insiste che i bambini devono vedere i loro parenti stretti e che le mie idee su Israele, identità ebraica e sionismo globale non devono mettersi in mezzo o interferire con gli affari di famiglia. Per ovvi motivi, io non vado mai in Israele. Ho deciso dieci anni fa che, a meno che Israele non diventi lo stato di tutti i suoi cittadini, io lì non ho niente da fare.

Nei nostri primi anni a Londra come genitori Tali e io abbiamo avuto un po' di discussioni sulla sua scelta di Israele come meta pasquale. All'inizio la disapprovai. Insistevo sul fatto che trascinare dei bambini innocenti nell'apartheid dello “Stato per soli ebrei” avrebbe contribuito ben poco alla loro futura serenità, e che avrebbe anzi potuto distorcere il loro senso etico. In quegli anni da genitori alle prime armi Tali liquidava le mie paure, diceva che i nostri figli andavano trattati come esseri umani liberi. Avevano il diritto di vedere la loro famiglia e sarebbe spettato a loro decidere quando sarebbero stati pronti a farlo.

Quando i nostri figli erano molto piccoli trovavo molto difficile argomentare la mia posizione. Mai e Yann non certo interessati alle complessità politiche o etiche. Tuttavia, mentre i miei figli crescevano, i loro ripetuti soggiorni nello shtetl ebraico diventavano un importante capitolo educativo per me più che per chiunque altro. Assistere alla trasformazione dei miei figli in blandi filo-israeliani mi ha aperto gli occhi. Mi è accaduto di comprendere l'impatto di Israele e del sionismo attraverso gli occhi dei miei bambini britannici. Ho imparato ad ammettere quanto sia facile innamorarsi di Israele.

I miei figli adorano quel posto. Amano il cielo blu, il mare, le spiagge sabbiose. Penso che amino anche l'hummus e il falafel. Non bisogna essere un genio per capire che tutto ciò che ho appena citato appartiene alla terra, cioè alla Palestina, e non allo Stato di Israele. Ma non finisce qui. Adorano anche parlare ebraico circondati da persone che lo parlano, ridere e perfino addolorarsi in ebraico. Amano la chutzpah ebraica che è intrinsecamente unita alla schiettezza israeliana. In fin dei conti, l'ebraico è la loro lingua materna.

Quando Tali e i bambini fanno ritorno nella nuvolosa Londra si sentono confusi e spaesati per un po'. Tali diventa lievemente nostalgica al pensiero della fortunata carriera teatrale che si è lasciata alle spalle. E questo è normale. Il caso dei miei figli è leggermente più complesso. Loro sono britannici. Anche se l'ebraico è la loro lingua materna, l'inglese è la loro prima lingua. A Londra sentono la mancanza di alcune libertà celebrate laggiù: vorrebbero continuare a giocare nei campi, godersi il glorioso sole mediterraneo inebriati dai fiori di una primavera secca. Però l'aspetto più percettibile è che Israele risolve quello che sembra essere il loro inevitabile complesso identitario. Quando vivono qui a Londra sono turbati dalla loro identità etnica, non sanno decidere chi sono, se ex-israeliani, ex-ebrei, ebrei laici, di cultura cristiana, discendenti di un palestinese di lingua ebraica, figlio e figlia di un famigerato personaggio che odia se stesso e fiero di farlo e via dicendo. In Israele, soprattutto quando sono circondati dai loro familiari, non si pongono nessuna di queste domande. Gli israeliani tendono ad accettarti come fratello, sempre che tu non sia arabo. Mentre nella Londra multietnica i miei figli si trovano spesso ad affrontare ovvie domande che riguardano le loro origini, domande cui fanno molta fatica a rispondere a causa mia e della mia posizione, in Israele quelle domande sono inesistenti.

Quando i miei figli ritornano a Londra, per una settimana o due mi fanno sentire come se fossimo io e la mia pazzia a imporre loro queste condizioni di esilio invernale. In fondo al mio cuore so che hanno assolutamente ragione. ‘È dura’, è tutto quello che posso dire in mia difesa.

Per una settimana o due dopo il loro ritorno i miei figli diventano leggermente sionisti. Non che siano in disaccordo con quello che dico della Palestina, non che sviluppino una qualche aspirazione nazionale ebraica, e non è neanche che i miei figli siano ciechi alle sofferenze del popolo palestinese. Anzi, il mio figlio più piccolo, che ha sette anni, è sconvolto da quel muro gigantesco e non fa che domandare delle persone che ci vivono dietro. Ma c'è qualcosa che sperimentano in Israele, qualcosa che ha fatto del sionismo la storia di maggior successo tra gli ebrei della diaspora per più di due millenni. Non è l'ideologia a rendere così attraente il sionismo, ai miei figli non interessa l'ideologia e probabilmente non sanno neanche cosa significhi questa parola. E non è neanche la politica, i miei figli non sanno molto di politica. È tutta una questione di appartenenza. Il sionismo è un identificatore simbolico e offre agli ebrei della diaspora un ordine simbolico. Dà un significante a ogni possibile apparenza, crea un mondo logico e coerente. Dà un nome al mare, al cielo, al sole, alla terra, alla fratellanza, al desiderio e all'amicizia. Ma dà anche un nome al nemico, ai gentili (goyim) e perfino agli ebrei che odiano se stessi. Il sionismo è un lucido ordine mondiale, purtroppo anche spietato e omicida.

Attraverso gli occhi dei miei bambini ho l'occasione di studiare il significato di Israele più che la sua politica o le sue azioni. Grazie a loro posso capire cosa offre Israele e quanto efficace sappia essere. Analizzando il rapporto empatico dei miei figli con Israele ho compreso che l'esperienza ebraica contemporanea si fonda su due sistemi dialettici. L'uno si basa su Eretz Yisrael e la Diaspora, l'altro può essere formulato come “ama te stesso quanto odi tutti gli altri”.

Eretz Yisrael e la Diaspora
“Sono un essere umano, sono ebreo e sono israeliano. Il sionismo è stato uno strumento che mi ha fatto passare dalla condizione di ebreo alla condizione di israeliano. Credo che sia stato Ben-Gurion a dire che il movimento sionista era l'armatura necessaria per costruire la casa, e che dopo la fondazione dello stato doveva essere smantellato”. (Avraham Burg, ‘Leaving the Zionist ghetto' in un'intervista con Ari Shavit, 25 luglio 2007)

Per gli ebrei laici nati in Israele il sionismo significa ben poco. Se il sionismo serve ad affermare che gli ebrei hanno diritto a una patria in Sion, l'ebreo laico nato in Israele questa realtà la vive. Per lui/lei, il sionismo è un capitolo storico remoto collegato a una vecchia fotografia che ritrae un uomo con una gran barba nera, Theodor Herzl. Per gli israeliani il sionismo non è una trasformazione in attesa di realizzarsi ma piuttosto un capitolo storico noioso, tedioso e datato, poco più che chiacchiere senza senso. È molto meno interessante delle buste piene di denaro di Olmert o della conversione di Obama in portavoce di Israele. Di fatto, per i nuovi israeliti la parola Galut (Diaspora) ha delle connotazioni negative. È associata ai ghetti, alla vergogna e alla persecuzione, e non ha niente a che fare con Manhattan o con il quartiere londinese di Soho. In altre parole, gli israeliani non tendono a identificare la loro emigrazione da Israele come un ritorno alla Diaspora. Come altre popolazioni migranti, cercano semplicemente una vita migliore. Va detto che per la maggioranza degli israeliani Israele è lungi dall'essere un luogo glorioso ed eroico. È naturale, dopo sessant'anni passati con la stessa donna capita che non si apprezzi più la sua bellezza.

Il cosiddetto “israeliano”, vale a dire l'ebreo laico nato in Israele, il riuscito prodotto del sionismo post-rivoluzionario, è ora così abituato alla propria esistenza in quella regione che ha perso il suo istinto di sopravvivenza ebraico. Adotta invece la più edonistica interpretazione dell'individualismo illuminato occidentale che abolisce le residue reminiscenze del collettivismo tribale. Questo può spiegare perché Israele sia stato sconfitto nell'ultima guerra del Libano. Il nuovo israeliano non vede alcun valido motivo per sacrificarsi su un altare ebraico collettivo. È molto più interessato a esplorare gli aspetti pragmatici della filosofia della “bella vita”. Questo può anche spiegare come mai l'esercito israeliano non riesca a far fronte alla crescente minaccia dei razzi Qassam. Per farlo, i generali israeliani dovrebbero ricorrere ad audaci tattiche di fanteria. Apparentemente hanno imparato la lezione in Libano: la società edonistiche non producono guerrieri spartani e senza veri guerrieri a disposizione è meglio combattere da lontano. Invece di mandare a Gaza reparti speciali di fanteria all'alba, sembra che sia molto più semplice sganciare bombe su quartieri popolosi oppure affamarne gli abitanti per costringerli alla sottomissione. Inutile dire che i palestinesi, i siriani, Hezbollah, gli iraniani e tutto il mondo islamico lo sanno benissimo. Giorno dopo giorno assistono alle codarde tattiche israeliane e sanno che Israele ha i giorni contati.

Per quanto possa sembrare allarmante, gli israeliani non sono troppo preoccupati da questa fatale e inevitabile realtà, almeno non consapevolmente. Dato che il loro istinto di sopravvivenza tribale è stato sostituito dall'individualismo illuminato, i giovani israeliani si preoccupano più della sopravvivenza individuale che di progetti collettivi. L'israeliano può arrivare al punto di pensare “come diavolo faccio a andarmene di qui?” Il nuovo ebreo laico israeliano è un artista della fuga. Non appena termina la leva obbligatoria, corre all'aeroporto o impara a disconnettersi da tutti i canali di informazione. Il numero di israeliani che lasciano la madrepatria cresce giorno per giorno. Gli altri, quelli condannati a restare, sviluppano un'apatica cultura di indifferenza.

Beaufort e Sderot
Di recente ho visto Beaufort, un pluripremiato film israeliano di guerra. Anche se le sue qualità cinematografiche non mi hanno affatto colpito, la pellicola è una sorprendente denuncia della stanchezza e del disfattismo israeliani. Il film narra la storia di un reparto speciale della brigata Golani dell'Esercito di Difesa Israeliano in un bunker all'interno di una fortezza bizantina in cima a una montagna del Libano meridionale. L'azione si svolge nei giorni che precedono la prima ritirata israeliana da quella zona, nel 2000. Fatto sta che i soldati israeliani sono circondati dai guerriglieri di Hezbollah. Trascorrono giorni e notti in trincea, si nascondono in rifugi di cemento armato e sono sottoposti a una pioggia incessante di razzi e missili. Nonostante i loro progetti per il futuro, in una vita lontana da quell'inferno in cui sono intrappolati, muoiono uno dopo l'altro per mano di un nemico che non vedono nemmeno.

Gli israeliani hanno molto amato questo film, il resto del mondo era un po' meno convinto dei suoi pregi artistici. Se vi state chiedendo perché sia piaciuto così tanto agli israeliani, questa è la mia risposta. Per gli israeliani, la trama di Beaufort è l'allegoria di uno stato che giunge a rendersi conto della temporalità e della futilità della propria esistenza. Così come i soldati israeliani sognano di scappare più lontano possibile, andando a vivere a New York o sballandosi a Goa, la società israeliana sta facendo i conti con il proprio fatale destino. Come i soldati del film, gli israeliani vogliono diventare americani, parigini, londinesi e berlinesi. Il numero di israeliani in coda per ottenere un passaporto polacco aumenta ogni giorno che passa. Beaufort è la metafora di una società che si sa assediata. Una società che si sta accorgendo che potrebbe non esserci una via d'uscita, né fisica né attraverso una crescente indifferenza. Il film può essere interpretato come la parabola di una società che sta facendo i conti con la drammatica nozione della propria temporalità.

È curioso che, mentre i soldati di Beaufort e gli abitanti reali di Sderot o Ashkelon sentono che niente più li trattiene in quei luogi e vogliono confusamente lasciarsi alle spalle tutto e scappare per salvarsi la pelle, per l'ebreo della Diaspora Israele è un luminoso modello di gloria. Israele è sia il significato che il significato nel suo farsi. Per l'ebreo della Diaspora Israele è la trasformazione simbolica che mira alla liberazione e perfino alla redenzione dalla sofferenza ebraica. Israele è tutto ciò che l'ebreo della Diaspora non è. È ricco di chutzpah, è energico, è militante, lotta per quello in cui crede. Dunque per un giovane ebreo di Golders Green o di Brooklyn emigrare in Israele o arruolarsi in quello che erroneamente considera l'eroico esercito israeliano è ben più glorioso che fare l'avvocato, il dentista o il commercialista nello studio di papà.

Essendo terrorizzato dalla remota possibilità che i miei figli un giorno possano sorprendermi con la scelta di trascorrere del tempo in Israele da soli, senza il controllo materno, negli ultimi tempi ho cercato di capire quello che Israele ha da offrire agli ebrei del mondo. Di fatto, non sono molti i genitori ebrei che vieterebbero ai propri figli di entrare nell'esercito israeliano. E perché dovrebbero? L'esercito israeliano è molto sicuro, evita gli scontri sul campo, uccide da lontano e tiene in considerazione i propri soldati almeno quanto ama infliggere sofferenza estrema agli altri. Ogni genitore ebreo deve accettare l'utilità che suo figlio impari a guidare un carro armato o un elicottero e a sparare con un MK 47. Diversamente dai combattenti palestinesi scandalosamente male equipaggiati che muoiono tutti i giorni in gran numero, è difficile che i soldati israeliani rischino la vita. Ecco dunque che l'eroismo dell'emigrazione e perfino dell'arruolamento sembrano essere un'avventura sicura, almeno per ora.

Benché sia chiaro che la maggioranza dei giovani ebrei della Diaspora scelga di continuare la propria vita evitando di raccogliere la sfida dell'aliyah (lett. ascesa, l'immigrazione ebraica nella terra di Israele), il sionismo comunque fornisce loro un identificatore simbolico. Il sionismo e i suoi “aliyah operators” offrono loro la possibilità di identificarsi con i pochi che sono arrivati a tanto o di diventare essi stessi soldati di uno degli eserciti più forti del mondo.

Il nuovo ebreo errante
Il sionismo inventò il popolo ebraico e pose il suo Stato, Israele, in un conflitto devastante che sta ora assumendo proporzioni globali, trasformandosi in una pericolosa minaccia mondiale. Ma per gli israeliani, cioè coloro che si trovano nell'occhio del ciclone, “sionismo” significa molto poco. Gli israeliani si arruolano nell'esercito israeliano non perché sono sionisti ma perché sono ebrei (in contrapposizione con i musulmani che li circondano). Questa fondamentale constatazione può dare un nuovo significato al concetto dell'“ebreo errante”. La dialettica instauratasi tra la Diaspora e Eretz Yisrael porta a un flusso incrociato di migrazione, aspirazione e speranza. Gli ebrei della Diaspora si sentono attratti da Israele alla luce della fantasia sionista, mentre gli ebrei israeliani sono decisi a fuggire dallo stato di assedio in cui si trovano. La Diaspora si sta dirigendo verso Eretz Yisrael, mentre buona parte degli ebrei israeliani cerca disperatamente di uscirne.

Questo flusso incrociato di attrazione/emigrazione non è fortuito, ma il prodotto diretto delle sacre scritture. Come ho esplorato nel mio articolo “Esther to AIPAC” [1], sono sempre più numerosi gli studiosi della Bibbia che mettono in discussione la sua storicità. Apparentemente la Bibbia sarebbe stata scritta prevalentemente “dopo l'esilio babilonese e le sue pagine rielaborano (e in gran parte inventano) la storia israelita precedente facendo sì che rifletta e reiteri le esperienze di coloro che ritornarono da quell'esilio”.

Questo fa sì che la Bibbia, essendo un testo sull'esilio, conduca a una realtà frammentata nella quale l'ebreo della Diaspora anela al “ritorno”, ma una volta consumato questo ritorno l'ideologia perde la sua attrattiva. Il caso del sionismo è incredibilmente simile: è riuscito ad attirare alcuni ebrei a Sion, ma una volta lì l'ideologia non offre loro l'avventura sperata.

Possiamo chiaramente rilevare nel progetto ebraico una tensione dialettica tra il sionismo, l'identità dell'ebreo della Diaspora e l'israelianità. Il sionismo e Israele sono i due poli che insieme formano l'esperienza ebraica contemporanea.

Ama te stesso quanto odi tutti gli altri
Una volta compresa l'opposizione dialettica tra Eretz Yisrael e la Diaspora, passiamo a riflettere sui rapporti speciali tra i due.

Mentre Eretz Yisrael e la Diaspora instaurano un flusso incrociato di attrazione ed emigrazione, Israele stabilisce una coerente e logica interpretazione simbolica della supremazia e dello sciovinismo ebraici. Israele converte la massima “ama te stesso quanto odi tutti gli altri” in una devastante realtà in cui l'ebreo che ama se stesso si rivela capace di infliggere dolore estremo a coloro che lo circondano.

Per comprendere il concetto ebraico dell'amore di sé, dovremmo prima riflettere su ciò che rende possibile questa forma particolare di coscienza personale emotiva: l'appartenenza al “popolo eletto”.

Mentre l'interpretazione ebraica religiosa vede la condizione di “eletto” come un fardello morale con cui Dio ordina agli ebrei di essere un esempio di comportamento etico, l'interpretazione ebraica laica si riduce a una banale forma sciovinista di supremazia etnicamente orientata. Incoraggia chiaramente coloro che sono abbastanza fortunati da avere una madre ebrea ad amare se stessi ciecamente. È importante precisare a questo punto che nella maggioranza dei casi la supremazia ebraica è solita produrre un certo livello di disprezzo dei diritti fondamentali dell'altro. In molti casi conduce all'animosità e perfino all'odio, latente o manifesto.

Alla base della rivendicazione sionista della Palestina a spese dei suoi abitanti autoctoni c'è proprio questa supremazia. Ma ovviamente non si limita alla Palestina, e un altro caso è rappresentato dalla radicale manifestazione del gruppo di pressione ebraico per l'estensione della “Guerra al terrore”, come espressa, per esempio, dall'American Jewish Committee. Lungi da me affermare che questo genere di bellicismo sia caratteristico degli ebrei (come popolo); tuttavia è purtroppo sintomatico del pensiero politico tribale ebraico di sinistra, destra e centro. Dunque non dovrebbe sorprenderci che in prima linea nella lotta per l'umanesimo e i valori etici universali ci siano ebrei come Gesù, Spinoza e Marx, che fecero di tutto per introdurre un principio di fratellanza opponendosi in primo luogo alla supremazia tribale che trovavano in sé e nel loro patrimonio culturale. Protestarono soprattutto contro quello che era loro familiare e vi preferirono la fratellanza e l'amore.

Tuttavia va notato che Gesù, Spinoza e Marx non riuscirono a trasformare gli ebrei (come collettività), anche se riportarono un certo successo con alcuni di essi. Tutto fa pensare che lo spostamento dal tribalismo monoteista dogmatico all'universalismo pluralista tollerante sia quasi impossibile. Di fatto, molti ebrei sono riusciti a lasciarsi alle spalle Dio, altri sono diventati marxisti, ma in qualche modo molti di questi sono rimasti fedeli alla loro filosofia monoteista esclusiva e tribale “solo per ebrei” (Bund, Jews Agains Zionism). Altri si sono spinti a diventare una “nazione come le altre nazioni” (lo slogan del sionismo), solo che si sono preoccupati di epurare e uccidere tutti coloro che non rientravano etnicamente nelle loro visione di se stessi (la Nakba del 1948). Alcuni sono diventati così liberali e cosmopoliti da riuscire a ridurre il conflitto mondiale contemporaneo a una questione di bibite. “Quelli che bevono Coca-Cola non si fanno la guerra”, ci hanno detto. Sarà anche vero, ma a quanto sembra i bevitori di Coca-Cola hanno recentemente assassinato un milione e mezzo di iracheni nel nome della “democrazia”.

È estremamente importante ricordare che molti ebrei sono riusciti ad assimilarsi e a lasciarsi alle spalle le loro caratteristiche tribali, e ora si comportano come normali esseri umani. Non hanno niente a che fare con il Bund, con i neo-conservatori, con il sionismo. A quanto pare questi esseri umani davvero emancipatisi non sono oggetto del mio studio, e posso solo augurare loro fortuna e successo.

Tuttavia, anche se gli ebrei sono tra loro divisi su molte questioni, sono però uniti nella lotta contro quelli che identificano collettivamente come i loro nemici. Ci ho messo un po' a capire che chi opera sotto l'esclusiva bandiera ebraica nei movimenti di solidarietà con la Palestina e contro la guerra si preoccupa innanzitutto di combattere qualsiasi riferimento alla lobby ebraica o al potere ebraico.

Una spiegazione è già stata fornita. Il sionismo in sé ha poco a che fare con Israele, è un discorso interno alla Diaspora ebraica. Ne consegue che il dibattito tra sionisti e anti-sionisti ebrei non ha alcun effetto su Israele o sulla lotta contro le azioni israeliane. Serve a mantenere la discussione all'interno della famiglia e a creare più confusione tra i gentili. Permette all'attivista etnico ebreo di affermare che “non tutti gli ebrei sono sionisti, anzi, ci sono al mondo circa due dozzine di 'anti-sionisti ebrei'”. Per patetico che possa suonare, questo argomento ottuso è comunque riuscito a mandare in frantumi qualsiasi critica rivolta negli ultimi quarant'anni al lobbismo etnocentrico ebraico. A quanto pare (e purtroppo), quando si tratta di “azione” i sionisti e i cosiddetti “anti”-sionisti ebrei agiscono come un solo popolo. E perché agiscono come un solo popolo? Perché lo sono. Lo sono davvero? Non importa, finché lo credono o si comportano come se lo fossero. E cos'è che li rende un solo popolo? Probabilmente odiano chiunque altro almeno quanto amano se stessi.

C'è un vecchio detto ebraico: “Dimmi chi sono i tuoi amici e ti dirò chi sei”. Per una lettura ben più attenta della politica tribale contemporanea ebraica, sarebbe appropriato correggerlo così: “Basta che tu mi dica chi odi e ti dirò chi sei”. Se, per esempio, odi Finkelstein, Atzmon, Blankfort, Mearsheimer & Walt e così via, sei ebreo. Se ti limiti a non essere d'accordo con loro puoi essere chiunque.

L'odio e l'avversione personale sono tristemente sintomatici della politica tribale ebraica, probabilmente per il fatto che la politica ebraica è marginale e si definisce attraverso la negazione. Va notato che Israele è riuscito a perfezionarla e a darle nuovo significato. Se l'ebreo della Diaspora ha il diritto di amare se stesso, il suo odio per l'altro è ampiamente soffocato. Per quanto alcuni ebrei amino seguire alla lettera i loro dettami religiosi e sputare sulle chiese [2] o semplicemente distruggere le vite di illustri accademici e artisti, l'odio e la violenza non sono tollerati nel discorso occidentale contemporaneo. Ed è qui che entra in gioco Israele. Gli israeliani amano se stessi ma sono capaci di odiare chiunque altro. Sono capaci di affamare milioni di palestinesi, di uccidere quando ne hanno voglia. Israele ha trasformato lo slogan “ama te stesso/odia tutti gli altri” nella pratica di tutti i giorni. Ha risolto la tensione ambivalente insita nell'amare se stessi quando si è in mezzo agli altri. Israele non si limita a odiare il professor Finkelstein, è anche capace di arrestarlo e deportarlo. Israele non si limita a odiare i palestinesi, è ugualmente capace di affamarli, di imprigionarli tra muri e filo spinato, di bombardarli e perfino di attaccare con armi nucleari gli irriducibili, quando il momento è propizio.

Questo è l'aspetto più spaventoso della complementarità tra Eretz Yisrael e la Diaspora. È la materializzazione di una società guidata dall'odio. Dopo due millenni di vita errante, l'ebreo nazionale recentemente riformato è capace non solo di odiare ma anche di infliggere l'estrema sofferenza a coloro che odia.

Esplorare la questione ebraica
Una volta all'anno, in occasione della Pasqua, la mia famiglia mi lascia a Londra per due settimane. Mia moglie Tali e i nostri due bambini Mai e Yann partono per Israele. Vedo chiaramente quanto adorino andarci. Capisco benissimo cos'è che amano laggiù. Per fortuna posso dire che almeno per ora i miei figli non sono follemente innamorati di sé e non si vedono come parte di una collettività tribale. E dunque non odiano nessuno.

Però attraverso la loro esperienza posso capire cosa ha da offrire Israele, soprattutto a coloro che non ci abitano. Posso capire quanto appaia attraente l'avventura israeliana vista da lontano. Attraverso la loro esperienza apprendo la dialettica tra Israele e l'aspirazione sionista della Diaspora. Il rapporto di negazione e di complementarità tra i due è l'essenza dell'esperienza ebraica contemporanea.

Se vogliamo combattere i crimini commessi da Israele e il male promosso dalle lobby sioniste globali, faremmo bene ad avviare uno studio approfondito della questione ebraica e dell'esperienza ebraica. Non si tratta solo di Israele e o del sionismo, ma dell'amalgama complesso e devastante formato da entrambi. A meno di interrogarci sull'esperienza ebraica, siamo destinati a sprecare il nostro tempo continuando a impiegare una terminologia ottocentesca irrilevante e arcaica che non ha niente a che fare con il conflitto.

Se saremo abbastanza coraggiosi da esplorare la questione ebraica e l'identità ebraica potremo essere in grado di capire che l'apartheid israeliano non è solo dovuto a circostanze politiche ma è di fatto l'esito naturale di una filosofia tribale orientata etnicamente. Il muro israeliano non è una misura politica ma piuttosto la manifestazione di un atteggiamento razzista esclusivo che sta alla base del concetto ebraico di segregazione. Quando saremo in grado di affrontare la questione ebraica esaminando le differenze tra israeliani e sionisti della Diaspora potremo capire anche perché il senatore Obama è corso alla conferenza dell'AIPAC tre ore dopo essersi assicurato la candidatura per il Partito Democratico. La serie di promesse fatte da Obama, Clinton e McCain all'AIPAC pochi giorni fa è un riflesso concreto dell'esperienza ebraica contemporanea. I senatori offrono ai lobbisti ebrei americani proprio quello che vogliono. A spese dei palestinesi, degli iracheni, dei siriani, degli iraniani e di miliardi di musulmani, i politici americani promettono apertamente che l'America continuerà a essere favorevole a Israele. A quanto pare l'America preferisce assecondare la sua piccola minoranza ebraica invece di essere un credibile mediatore internazionale e un vero negoziatore.

Tenendo conto dei crimini commessi dallo stato ebraico in nome del popolo ebraico, credo che abbiamo il pieno diritto di mettere in dubbio la filosofia e la prassi dell'esperienza ebraica. Non dobbiamo farci intimidire dagli attivisti etnici ebrei e dalle campagne di diffamazione sioniste.

Visto che gli ebrei non costituiscono una razza ma soccombono ampiamente a diverse forme di politica collettiva ed etnicamente orientata, non dovremmo temere di toccare questo argomento. Una volta dato per scontato che gli ebrei non costituiscono una razza, lo studio dell'identità e della politica ebraica non è né razzismo né essenzialismo. Al contrario, è una lettura critica dell'ideologia razzista e della sua inerente supremazia.

Quelli di noi che considerano Israele e il sionismo un grave pericolo per la pace mondiale devono insistere in questo studio. Invece di concentrarci separatamente sul sionismo o su Israele, dobbiamo apprendere l'amalgama unico e complesso formato da entrambi. Questo composto dialettico plasma la nozione contemporanea di esperienza ebraica. Il sionismo in sé non è altro che un diversivo che serve ad attirare la nostra attenzione e a distrarci. Sembra proprio che i nostri attacchi contro il sionismo non abbiano alcun effetto su Israele, la sua politica e la sua gente. Al massimo disturbano alcuni ebrei sionisti.

Se lo studio dell'esperienza ebraica può aiutarci a salvare le vite di milioni di palestinesi, di iracheni, di siriani e di iraniani, è anche nell'interesse collettivo ebraico comprendere la vera natura dell'esperienza e della politica ebraica. In fin dei conti è la politica ebraica (più che la religione) quello che potrebbe demonizzare l'intera collettività degli ebrei per il prossimo millennio. È nell'interesse della collettività ebraica arrestare la bestia politica prima che sia troppo tardi.

Lo devo ai miei fratelli e alle mie sorelle palestinesi, lo devo a me stesso, lo devo a Yann e a Mai: voglio essere sicuro che quando verrà il momento, per loro, di protestare contro la mia “esperienza anti-ebraica”, sarò abbastanza intelligente da discuterne con loro in maniera aperta e ponderata.

Note

[1] http://www.counterpunch.org/atzmon03032007.html

[2] Secondo il Dr. Israel Shahak, nel suo libro Jewish History, Jewish Religion, questa pratica ha radici antiche ed è diventata sempre più diffusa: disonorare i simboli religiosi cristiani è un antico dettame religioso dell'Ebraismo. Sputare sulla croce, in particolare sul Crocifisso, e sputare quando un ebreo passa accanto a una chiesa, sono obbligatori per gli ebrei devoti fin dal 200 d.C. circa. In passato, quando il pericolo dell'ostilità anti-semita era concreto, i rabbini raccomandavano agli ebrei devoti di sputare in modo che non ne fosse chiaro il motivo o di sputarsi sul petto, non direttamente sulla croce o apertamente davanti a una chiesa.

Originale da: http://palestinethinktank.com/2008/06/10/the-jewish-experience-by-gilad-atzmon/

Articolo originale pubblicato il 10 giugno 2008

Manuela Vittorelli è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questi articoli sono liberamente riproducibili, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne gli autori e la fonte.