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La grande minaccia a una vita piena e consapevole è la sfiducia negli uomini e nelle idee

di Francesco Lamendola - 02/07/2008

Non credere più negli uomini, ritenendoli tutti degni di disprezzo, e non credere più nelle idee, giudicandole altrettanto meritevoli di disistima, sono due atteggiamenti largamente diffusi e simili sia nella loro genesi, che nei loro effetti. Entrambi nascono da una imprudente ed acritica sopravvalutazione di alcuni uomini e di alcune idee; ed entrambi conducono, attraverso la misantropia e la misologia, al cinismo, al pessimismo e all'amarezza: tutte disposizioni d'animo nemiche dell'apertura coscienziale, della serenità e di un atteggiamento grato e positivo nei confronti della vita.

Una esistenza dominata dalla delusione, dal rancore e della frustrazione, è uno strumento spuntato che non solo non offre alcun beneficio a colui che lo possiede, ma produce una spirale perversa di dolore e crudeltà che si espande tutto intorno, in cerchi sempre più ampi. In altri termini, il misantropo (e il misologo) non può che approdare alle spiagge amare del masochismo o del sadismo, dal momento che deve pur sfogare su qualcuno - sugli altri o su se stesso - tutta la cupa amarezza che è il frutto avvelenato della perdita della speranza. Quando non ci si aspetto più nulla di buono né dal prossimo, né dalle idee, allora la vita perde ogni attrattiva e diviene un lungo tormento, in cui l'ingegno affina le sue armi per produrre il massimo della devastazione attorno a sé.

Allorché ci si infila nel buio tunnel della sfiducia e del disprezzo verso tutto e verso tutti, va perduta per sempre ogni speranza di fare della propria esistenza un trampolino verso il superamento del piccolo io, egoistico e narcisista, onde realizzare un Sé luminoso e pacificato, capace di irradiare benevolenza, comprensione e calore nei confronti del mondo circostante.

Non è un caso che alcuni dei più grandi disastri della storia umana si siano verificati allorché il potere è stato concentrato nelle mani di individui siffatti, cinici e spregiatori dei propri simili; cosa che non si sarebbe potuta verificare se milioni di individui anonimi, altrettanto disillusi e amareggiati, non avessero trasferito nella figura di un capo carismatico il loro desiderio di rivalsa e di vendetta contro un mondo che li aveva delusi nella sfera della vita intima, sociale e professionale. Dei ciechi non possono guidare una folla di ciechi, se non conducendola al disastro; né la folla si affiderebbe ad essi, se, a sua volta, non avesse smarrito ogni capacità di giudizio sereno e obiettivo e, soprattutto, ogni fiducia in sé e nella vita.

 

I filosofi greci avevano piena consapevolezza di questo concetto e, nel loro sforzo di contribuire a plasmare un essere umano realizzato e armonioso, mettevano in guardia contro il grave pericolo di cadere nel disprezzo degli uomini e nella diffidenza ostile verso ogni ragionamento sulla verità, come se non esistessero né uomini degni rispetto, amicizia e amore, né idee veritiere o, comunque, tali da avvicinarci, più di altre, alla contemplazione della verità.

Nel Fedone platonico, ad esempio, Socrate - che sta discutendo con i suoi amici e discepoli, in atteggiamento distaccato e sereno, nelle poche ore che gli rimangono da vivere, circa il destino dell'anima dopo la morte -, a un certo punto così li mette in guardia contro tale pericolo (seguiamo la traduzione di Nino Marziano in: Platone, Apologia di Socrate; Critone, Fedone, Convito, Garzanti, Milano, 1975, 1991, pp. 130-132; capp. XXXIX-XL del Fedone):

 

«Prima di tutto bisogna stare attenti che non ci succeda qualche guaio».

«E quale?», domandai.

«Che non diventiamo dei misologi, come certi che diventano misantropi. Non c'è male peggiore che questo di odiare ogni discussione. Misologia e misantropia nascono nello stesso modo. La misantropia nasce quando si è riposta eccessiva fiducia in qualcuno, senza conoscerlo bene, ritenendolo amico leale, sincero, fedele mentre poi, a poco a poco, si scopre che è malvagio e infido, un essere del tutto diverso. Quando questa esperienza si ripete più volte, specie con quelli che stimavamo più fidati e più amici, si finisce, dopo tante delusioni, con l'odiare tutti e col credere che in nessun uomo vi sia qualcosa di buono. Non succede così?».

«Proprio così», risposi.

«E non è ingiusto, questo? Non è forse vero che chi si comporta così, evidentemente vive tra gli uomini senza nessuna alcuna esperienza? Se, infatti, li conoscesse appena, saprebbe che sono pochi quelli veramente buoni o completamente malvagi e che per la magior parte, invece, sono dei mediocri».

«In che senso?» feci.

«È lo stesso delle cose molto piccole o molto grandi. Credi forse che sia tanto facile trovare un uomo o un cane o un qualunque altro essere molto grande o molto piccolo o, che so io, uno molto veloce o molto lento o molto brutto o molto bello o tutto bianco o tutto nero? Non ti sei mai accorto che in tutte le cose gli estremi sono rari mentre gli aspetti intermedi sono frequenti, anzi numerosi?»

«Ma certo», riconobbi io.

«E non credi che se si facesse una gara di malvagità, pochissimi arriverebbero tra i primi?».

«È probabile, ammisi.

«Altro che - disse. - Ma su questo punto, non si può fare un parallelo tra le discussioni e gli uomini. Il fatto è che tu hai continuato a discutere ed io ti son venuto dietro. Si può vedervi, invece, una relazione in questo senso, quando uno presta, cioè, troppa fede a una tesi e la ritiene buona senza conoscerla a fondo e poi, in un secondo momento, gli sembra falsa, a volte anche a ragione,  ma a volte a torto, e quando questo gli capita spesso… Tu sai bene che quelli che si perdono in discussioni sul pro e sul contro, finiscono per credersi dei sapientoni e di essere i soli ad avere intuito che niente a questo mondo, e tanto meno le discussioni, è stabile e sicuro,  e credono che tutto, come nell'Euripo [lo stretto braccio di mare tra l'Attica e l'Eubea, percorso da forti correnti per cui si diceva che l'acqua mutasse  direzione sette volte al giorno], vada su e giù, senza sosta, senza un momento di tregua».

«È proprio vero, è così», affermai.

«Ebbene, Fedone - riprese - sarebbe una cosa veramente deplorevole se, con tutte le tesi vere e sicure che vi sono e vengono riconosciute tali, soltanto per il fatto che ci si imbatte in alcune che, pur essendo sempre le sesse, ora ci sembrano vere ora false, si finisse per dare la colpa non a se stessi e alla propria incapacità ma, per la stizza, agli argomenti e si passasse tutta la vita a odiare e maledire ogni discussione privandoci, così, della verità e della conoscenza della realtà».

«Santo cielo - esclamai, sarebbe veramente una brutta cosa».

«Dunque, prima di tutto - disse - stiamo attenti che in noi non si insinui la convinzione che ogni tesi sia falsa, ma che, piuttosto, non ci sia proprio in noi qualcosa che non va. Comportiamoci  virilmente quindi  e cerchiamo, tu e gli altri, per tutti gli anni che vi restano da vivere, io, invece, con la morte che mi sta sopra perché, proprio in una questione come questa, data la mia situazione, corro il rischio di non comportarmi come un vero filosofo ma come quelli che non capiscono niente e vogliono avere ragione a tutti i costi. Questa gente, quando discute di qualche cosa, non si preoccupa affatto di stabilire la verità ma solo di fare apparire come vero ai presenti, quello che sostiene. La differenza tra me e loro è che io non cerco di far passare per vero, a voi qui presenti, quello che dico (cosa questa del tutto secondaria) ma che appaia tale soprattutto a me stesso…».

 

Difficilmente si sarebbe potuto dire di più o di meglio, e in uno spazio così breve; ed è secondario, ai fini del nostro discorso, invischiarci in una disquisizione su quanto del vero Socrate vi sia in queste parole - pronunciate, nel corso di una discussione molto più ampia, nel carcere di Atene, e in assenza del giovane discepolo Platone - e quanto, invece, non sia frutto di una personale rielaborazione da parte dello stesso Platone, sulla base di un racconto altrui.

Il concetto chiave è di una validità perenne: se alcune amicizie risultano deludenti, non per questo bisogna prendere in odio l'intero genere umano; e, se alcune idee appaiono incerte e confutabili,  questa non è una buona ragione per concluderne che non esistono idee veritiere o, addirittura, che non esiste la verità in quanto tale.

 

Il primo aspetto, quello della misantropia, riguarda una dimensione tipica della vita privata, quella degli affetti, e non è possibile trarne indicazioni d carattere generale, se non - forse - questa: che in una società utilitaristica e produttivistica, come la nostra, vi è la tendenza a confondere con l'amicizia delle forme di relazione umana che nascono da tutt'altre esigenze; e, quindi, è più facile che in passato, incorrere in fraintendimenti e cadere nella delusione. Vi è un autentico abuso della parola "amicizia" (come, del resto, della parola "amore"), per cui aumenta in progressione esponenziale il numero di coloro i quali si avventurano incautamente in rapporti affettivi dai quali, poi, si sentono profondamente traditi.

A ciò non esistono altri rimedi che quello di restituire alle relazioni umane il loro autentico significato, e comprendere che una piena fiducia non può essere accordata a coloro che si conoscono da troppo poco tempo, ma che essa è frutto di un rapporto costruito con pazienza, disponibilità ma anche fedeltà verso se stessi. Non potrà trovare amici, chi non è amico di se stesso e chi non sa che la vera amicizia è una pianta estremamente rara, che va coltivata con dedizione e che non ammette scorciatoie né piccole furberie.

E tutto questo non è ancora abbastanza.

Perché una vera amicizia si instauri e sussista, è necessario un altro elemento, che altrove abbiamo cercato di chiarire (cfr. il nostro articolo È il tradimento dell'amicizia il peccato che non verrà perdonato, sul sito di Arianna) e che qui ricordiamo molto velocemente. In estrema sintesi, si tratta di questo : che l'amicizia non è una relazione a due, ma a tre: oltre all'io e al tu, è presente in essa anche un terzo, che è il silenzioso ma supremo garante della relazione stessa: l'amore di Dio, per i credenti; il riconoscimento di un valore normativo di verità, per tutti quanti, credenti e non credenti. Una istanza superiore all'umana, che fonda lo statuto ontologico della persona nello stesso momento in cui sopperisce alla fragilità dell'animo umano, dei sentimenti di cui è capace, delle sue generose ma, a volte, instabili disposizioni.

 

Il secondo aspetto, quello relativo alla misologia, è oggi particolarmente evidente, dato che il destino ha voluto farci vivere nell'epoca del tramonto delle ideologie. Non che le si debba rimpiangere troppo, visto tutto il male che hanno provocato nella storia mondiale recente; d'altra parte, sarebbe ingiusto e ingeneroso addossare alle ideologie tutte le colpe del disgraziato XX secolo e tutti i pericoli del futuro prossimo.

Le ideologie - e non solo quelle politiche - sono state il frutto inevitabile dell'avvento, contemporaneo, della società di massa e di una particolare ideologia politica, quella democratico-borghese. La società di massa ha fatto di ogni individuo un produttore e un consumatore, di beni e servizi non meno che di idee prefabbricate (con la Rivoluzione industriale); il democraticismo ha diffuso la convinzione che ogni individuo è anzitutto un cittadino, soggetto ad alcuni doveri e di moltissimi diritti (con la Rivoluzione francese).

Perfino le ideologie totalitarie - comunismo e fascismo - hanno fatto leva su tali acquisizioni culturali, cercando il consenso delle masse per espropriarle del proprio potere decisionale. Non si dimentichi che tanto Mussolini quanto Hitler sono andati al governo mediante le forme della democrazia borghese; e che Lenin non ha mai affermato di disprezzare la democrazia, ma di voler sostituire alla democrazia formale della borghesia quella effettiva del socialismo: come quando fece sciogliere l'Assemblea Costituente, regolarmente eletta dal popolo, ma in cui i bolscevichi erano risultati una esigua minoranza (cfr. il nostro saggio: La Rivoluzione d'Ottobre era inevitabile? E, soprattutto, fu una vera rivoluzione?, sul sito di Arianna Editrice).

Le ideologie moderne si sono diffuse in presenza di un vuoto spirituale che si era venuto a creare con l'avvento della concezione meccanicistica e materialistica del mondo e con la conseguente, inevitabile "morte di Dio". Tanto è vero che la prima ideologia moderna è stata quella della scienza galileiana, che, nel corso di tre secoli, ha scalzato il credo religioso ed è sopravvissuta a tutte le altre ideologie laiche, restando oggi padrona incontrastata del campo. A dispetto del fatto che gli scienziati, oggi, abbiano superato la visione galileiana e newtoniana e, da almeno un secolo, siano andati elaborando una visione del mondo fisico completamente diversa, l'ideologia scientista è oggi la religione popolare di gran parte dell'umanità e la sola che, in Occidente, goda ancora del prestigio di non essere stata (apparentemente) smentita né confutata.

Con l'orrore di Auschwitz e con le macerie del Terzo Reich, è caduta l'ideologia fascista; con gli orrori di Pol Pot e, poi, con l'abbattimento del muro di Berlino, l'ideologia comunista; quella capitalista ha cominciato a scricchiolare almeno dal crollo della Borsa di Wall Street, nel 1929; quella della tecnica ha ricevuto dei fieri colpi, in particolare con l'esplosione del reattore nella centrale atomica di Chernobyl, nel 1986. Ma l'ideologia scientista è sempre saldamente in sella: viene insegnata nelle scuole e nelle università, osannata sulla stampa e alla televisione, adottata dagli Stati quale ideologia ufficiale imposta per legge (cfr. i nostri saggi: Ma è sempre l'arroganza la molla dello scientismo e L'«anarchismo metodologico» di Feyerabend per spezzare la funesta alleanza tra Stato e scienza, entrambi sul sito di Arianna).

 

Comunque, a parte ciò, se è vero che la crisi delle ideologie ha gettato il discredito su tutti i ragionamenti che presuppongono il conseguimento della verità, il pericolo della misologia, di cui parlava Socrate, è qualcosa di molto più sottile e insinuante. Esso consiste nella convinzione che non valga la pena di ragionare e di confrontarsi con gli altri per stabilire cosa sia la verità, perché ogni principio di verità è illusorio; e, dunque, che ciascuno ha il diritto di ritagliarsi la propria verità su misura, in dispregio di ogni ricerca e di ogni discussione. Non è vero ciò che è vero, ma è vero ciò che è vero per me; e anche ciò che è vero per te, fosse pure di una verità lontanissima e opposta alla mia: tutte verità a pari titolo, con un pari grado di dignità.

Questa, evidentemente, è una sciocchezza. Ma è una di quelle sciocchezze che, a forza di sentirle ripetere da tutti, e specialmente da coloro che passano per specialisti del pensiero - i sedicenti intellettuali - finisce per sembrare vera e per essere universalmente accettata, a dispetto della sua palese assurdità. Non possono esistere le verità, al plurale, se non in quanto contraffazioni della verità; ma è tale il timore di essere accusati di dogmatismo e autoritarismo, che praticamente tutti si fanno paladini irriducibili di questa bella scoperta (così come, in politica, delle libertà, altra manifesta contraddizione in termini).

Le conseguenze sono un rigetto, occulto o palese, nei confronti dell'idea stessa di verità; un disprezzo per tutto ciò che è ricerca paziente, metodica, responsabile; una pigrizia intellettuale travestita da pluralismo; e un relativismo generalizzato che scade nel cinismo e nell'opportunismo più sfacciati. Ma, siccome si sente dire e ripetere che affermare la verità è roba da crociati, e che i crociati sono i peggiori nemici della pace, della democrazia e di tante altre belle cose, si fa finta che questo cinico relativismo sia la forma più nobile e lodevole di rispetto per tutte le opinioni, per tutte le verità. La verità è regredita, appunto, al livello di doxa, di semplice opinione, che i soliti sofisti mercenari sono pronti a tirare di qua o di là, secondo la loro convenienza del momento (e di coloro che li pagano e garantiscono loro tutta una serie di privilegi).

Ecco un buon esempio di come, nella filosofia spicciola dell'usa-e-getta, tipica della modernità, si sia presa l'abitudine di buttar via il bambino insieme all'acqua sporca. Dal fatto che accedere al cospetto della verità è cosa ardua e riservata a pochi (non per una forma di altezzoso aristocraticismo, ma perché pochi sono disposti a sacrificare tutto per cercarla), infatti, non consegue che la verità in se stessa sia irraggiungibile o, peggio, che non esista.

Questo è quanto vorrebbero farci credere coloro i quali - astuti o folli, come direbbe il Leopardi de La ginestra (v. 85) - hanno tutto l'interesse a distruggere la fiducia nelle idee, nella ricerca, nella discussione, affinché noi siamo pronti a trangugiare, senza difficoltà, le verità preconfezionate che fanno comodo a loro.

Ecco perché bisogna difendere il valore delle idee, così come il valore dell'amicizia.

Non è una vita degna di uomini liberi quella di quanti non credono più a nulla e a nessuno e disprezzano tanto i loro simili, quanto lo spirito di ricerca della verità; ma da schiavi intruppati nel gregge: senza onore, senza dignità, senza speranza.

Qualcuno, evidentemente, ci preferirebbe così: abbrutiti e disperati - anche se (o proprio perché) - vestiti all'ultima moda e accessoriati di tutti i più recenti gingilli del consumismo tecnologico, dal telefonino dell'ultima generazione all'ultimo modello di automobile; e - si capisce - abbronzati, palestrati e chirurgicamente "rifatti".

Ma noi, che cosa abbiamo da guadagnare adottando una simile filosofia di vita?

Una cosa è certa: la persona umana, per rimanere tale, anzi per trascendersi ontologicamente in un essere spiritualmente evoluto - quale è il suo destino e la sua ragione di trovarsi al mondo - non può vivere senza credere nei propri simili e senza credere nella forza delle idee.

 

Tutto il resto, non è che ansia di autodistruzione.